Il libro della settimana: Geminello Alvi, Il
capitalismo. Verso l’ideale cinese, Marsilio 2011, pp. 335, euro 21,00.
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A pagina 53 dell’ultimo libro di Geminello Alvi (Il capitalismo. Verso l’ideale
cinese, Marsilio, pp. 335, euro 21,00) si scrive che Pitirim A. Sorokin
completò la pubblicazione di Social and Cultural Dynamics, tra il 1937 e il
1942, facendo uscendo uscire i primi tre tomi nel 1937 e “altri due volumi”
entro il 1942. Il che è inesatto, perché il capolavoro sorokiniano si
componeva, e compone di quattro volumi, e il quarto, l’ultimo, fu pubblicato
nel 1941. Inoltre, Alvi riporta alcune citazioni sulla fortuna immediata
dell’opera tratte dalla nuova introduzione, all’edizione ridotta del 1985,
scritta da Michel P. Richard. Dalla quale si evince - abbiamo il testo sulla
scrivania - contrariamente a quanto scrive Alvi, che l’opera di Sorokin, fin
dall’inizio divise la critica. Altro che “fin troppo, direi, all’epoca
incensato”, come invece sembra reiventare l’economista marchigiano.
Certo, sono peccati veniali. Però, come disse un tale, a proposito di quei
commercianti pronti a rubare sul peso, magari solo pochi spiccioli: «Sì va
bene, ladri di galline… ma un pollo oggi, un pollo domani»… Per carità, Alvi è
un dotto e rispettabile scrittore di economia e altre cose ancora, forse
troppe, ma - ecco il cattivo pensiero - se trattasse le sue fonti, come sopra,
all’insegna di un pollo al giorno, i lettori un bel dì potrebbero pure sentirsi
fregati… O no?
In effetti, quest’ ultima sua fatica delude, e molto. E per una semplice
ragione. Non c’ è nulla nuovo, per chi ovviamente abbia iniziato a seguirlo fin
da Le seduzioni economiche di Faust (1989): Alvi da oltre vent’anni reitera,
per ogni dove, la sua tesi, tra l’altro, neppure freschissima, almeno per chi
conosca fin dall’inizio i suoi maggiori (Steiner, Sombart, Dumézil e Adriano
Olivetti). Quale tesi? Che il capitalismo, come scrive a pagina 130, «non è
riducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalità individuale, ma
richiede, in dosi crescenti, complicità statali. Consiste d’individualissima invidia,
persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo stato di guerra o in stampa di
banconote. Solo un individualismo in espressione paradossale: di parca
anarchia, che non perseguisse l’economia del superfluo e limitasse il potere
statale, sarebbe poi risanante».
Perciò il riferimento nel titolo all’ideale cinese (in senso negativo, di
incubo), vuole sottolineare la «naturale tendenza al dispotismo dello stato
capitalistico», che rischia in futuro di accomunare, sotto le insegne del
capitalismo di stato, l’esperienza cinese e occidentale. Insomma, siamo davanti
alla solita riproposizione dell’ antico leitmotiv caro a ogni pensiero
reazionario: quello di capitalismo e comunismo, come facce della stessa moneta.
Che novità!
In realtà, Alvi, probabilmente perché in fondo consapevole del pericolo
involutivo racchiuso nell’anticapitalismo romantico, oppone - altro cavallo di
battaglia - il capitale, come frutto di un atto creativo e solidale, al
capitalismo, quale venale accumulazione fondata sull’invidia… Quindi al
capitalismo come “è” contrappone il capitalismo come “deve” o “dovrà” essere”:
un’ auspicabile e ordinata anarchia delle coscienze, al servizio di un capitale
solidale e decumulabile grazie al dono puro; al fatto oppone la norma morale.
Grave errore metodologico.
Comunque sia, come può avvenire questo mutamento? Lasciamo a lui la parola:
«Nel cuore c’è un granello infinitesimo e nascosto. Ogni agire fraterno, e il
dono, il lavoro devoto e buono, l’armonioso fare, lo saldano a questa economia,
che il sonno consueto non sa: l’economia vera svela l’io umano, al lavoro con
gli dei del creato».
Che dire? Bolle d’aria in bello stile, anzi bellissimo… Alvi sembra però
ignorare un problema di fondo: quello che l’Io ( i cuori, eccetera.) , se non
determinato, è sicuramente condizionato dalla società e dai valori dominanti.
Ciò significa che la filosofia delle anime (magari pure belle e a fin di bene),
senza una buona sociologia dei gruppi sociali, e delle costanti comportamentali
cui essi rispondono, non porta da nessuna parte. Olivetti, ad esempio, provò a
entrare in politica. E mal gliene incolse, perché dovette scontrarsi,
completamente impreparato, con le idee dominanti, molto strutturate e
aggressive. Anche Alvi, per esperienza personale, dovrebbe pur saperne per
qualcosa…
Ricapitolando, se la rivoluzione delle anime si propone solo il cambiamento
interno, al massimo potrà produrre alcune comunità di spiriti eletti, pure
città delle parole. Se invece, vuole puntare sul cambiamento esterno, deve
accettare le idee di conflitto e di politico, come divisione in amici e nemici,
anche all’interno della stessa città, passando dalle parole ai fatti. E con
tutto quel che ne consegue, anche di brutto. La “mitezza fraterna”, di cui
tanto parla Alvi, purtroppo, da sola non basta. Il che non comporta l’obbligo
di celebrare guerre, rivoluzioni e carneficine varie ( insomma, di trasformarsi
in guerrafondai). Ma solo quello di ragionare in modo realistico. In realtà,
molti dei difetti che Alvi imputa al capitalismo appartengono, come insegna la
sociologia dei Pareto, dei Mosca, dei Michels, a tutte le organizzazioni umane…
Quindi per dirla con Machiavelli, guai ai profeti disarmati. E che soprattutto,
come Alvi, la facciano troppo lunga. Perché 335 pagine per dire le stesse cose
di vent’anni fa, sono francamente troppe.
Carlo Gambescia
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