giovedì 27 ottobre 2011

Il libro della settimana: Geminello Alvi, Il capitalismo. Verso l’ideale cinese, Marsilio 2011, pp. 335, euro 21,00. 

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A pagina 53 dell’ultimo libro di Geminello Alvi (Il capitalismo. Verso l’ideale cinese, Marsilio, pp. 335, euro 21,00) si scrive che Pitirim A. Sorokin completò la pubblicazione di Social and Cultural Dynamics, tra il 1937 e il 1942, facendo uscendo uscire i primi tre tomi nel 1937 e “altri due volumi” entro il 1942. Il che è inesatto, perché il capolavoro sorokiniano si componeva, e compone di quattro volumi, e il quarto, l’ultimo, fu pubblicato nel 1941. Inoltre, Alvi riporta alcune citazioni sulla fortuna immediata dell’opera tratte dalla nuova introduzione, all’edizione ridotta del 1985, scritta da Michel P. Richard. Dalla quale si evince - abbiamo il testo sulla scrivania - contrariamente a quanto scrive Alvi, che l’opera di Sorokin, fin dall’inizio divise la critica. Altro che “fin troppo, direi, all’epoca incensato”, come invece sembra reiventare l’economista marchigiano.
Certo, sono peccati veniali. Però, come disse un tale, a proposito di quei commercianti pronti a rubare sul peso, magari solo pochi spiccioli: «Sì va bene, ladri di galline… ma un pollo oggi, un pollo domani»… Per carità, Alvi è un dotto e rispettabile scrittore di economia e altre cose ancora, forse troppe, ma - ecco il cattivo pensiero - se trattasse le sue fonti, come sopra, all’insegna di un pollo al giorno, i lettori un bel dì potrebbero pure sentirsi fregati… O no?
In effetti, quest’ ultima sua fatica delude, e molto. E per una semplice ragione. Non c’ è nulla nuovo, per chi ovviamente abbia iniziato a seguirlo fin da Le seduzioni economiche di Faust (1989): Alvi da oltre vent’anni reitera, per ogni dove, la sua tesi, tra l’altro, neppure freschissima, almeno per chi conosca fin dall’inizio i suoi maggiori (Steiner, Sombart, Dumézil e Adriano Olivetti). Quale tesi? Che il capitalismo, come scrive a pagina 130, «non è riducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalità individuale, ma richiede, in dosi crescenti, complicità statali. Consiste d’individualissima invidia, persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo stato di guerra o in stampa di banconote. Solo un individualismo in espressione paradossale: di parca anarchia, che non perseguisse l’economia del superfluo e limitasse il potere statale, sarebbe poi risanante».
Perciò il riferimento nel titolo all’ideale cinese (in senso negativo, di incubo), vuole sottolineare la «naturale tendenza al dispotismo dello stato capitalistico», che rischia in futuro di accomunare, sotto le insegne del capitalismo di stato, l’esperienza cinese e occidentale. Insomma, siamo davanti alla solita riproposizione dell’ antico leitmotiv caro a ogni pensiero reazionario: quello di capitalismo e comunismo, come facce della stessa moneta. Che novità!
In realtà, Alvi, probabilmente perché in fondo consapevole del pericolo involutivo racchiuso nell’anticapitalismo romantico, oppone - altro cavallo di battaglia - il capitale, come frutto di un atto creativo e solidale, al capitalismo, quale venale accumulazione fondata sull’invidia… Quindi al capitalismo come “è” contrappone il capitalismo come “deve” o “dovrà” essere”: un’ auspicabile e ordinata anarchia delle coscienze, al servizio di un capitale solidale e decumulabile grazie al dono puro; al fatto oppone la norma morale. Grave errore metodologico.
Comunque sia, come può avvenire questo mutamento? Lasciamo a lui la parola: «Nel cuore c’è un granello infinitesimo e nascosto. Ogni agire fraterno, e il dono, il lavoro devoto e buono, l’armonioso fare, lo saldano a questa economia, che il sonno consueto non sa: l’economia vera svela l’io umano, al lavoro con gli dei del creato».
Che dire? Bolle d’aria in bello stile, anzi bellissimo… Alvi sembra però ignorare un problema di fondo: quello che l’Io ( i cuori, eccetera.) , se non determinato, è sicuramente condizionato dalla società e dai valori dominanti. Ciò significa che la filosofia delle anime (magari pure belle e a fin di bene), senza una buona sociologia dei gruppi sociali, e delle costanti comportamentali cui essi rispondono, non porta da nessuna parte. Olivetti, ad esempio, provò a entrare in politica. E mal gliene incolse, perché dovette scontrarsi, completamente impreparato, con le idee dominanti, molto strutturate e aggressive. Anche Alvi, per esperienza personale, dovrebbe pur saperne per qualcosa…
Ricapitolando, se la rivoluzione delle anime si propone solo il cambiamento interno, al massimo potrà produrre alcune comunità di spiriti eletti, pure città delle parole. Se invece, vuole puntare sul cambiamento esterno, deve accettare le idee di conflitto e di politico, come divisione in amici e nemici, anche all’interno della stessa città, passando dalle parole ai fatti. E con tutto quel che ne consegue, anche di brutto. La “mitezza fraterna”, di cui tanto parla Alvi, purtroppo, da sola non basta. Il che non comporta l’obbligo di celebrare guerre, rivoluzioni e carneficine varie ( insomma, di trasformarsi in guerrafondai). Ma solo quello di ragionare in modo realistico. In realtà, molti dei difetti che Alvi imputa al capitalismo appartengono, come insegna la sociologia dei Pareto, dei Mosca, dei Michels, a tutte le organizzazioni umane… Quindi per dirla con Machiavelli, guai ai profeti disarmati. E che soprattutto, come Alvi, la facciano troppo lunga. Perché 335 pagine per dire le stesse cose di vent’anni fa, sono francamente troppe.

Carlo Gambescia

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