III Settimana nazionale contro la violenza
Può bastare l’educazione?
di Carlo Gambescia
Nel corso del
mese di ottobre si terrà in Italia la III Settimana
nazionale contro la violenza.
Promossa nelle scuole (ma non
solo), dal Dipartimento
per le Pari Opportunità. Si tratta di un’iniziativa che ha
lo scopo di favorire la prevenzione verso ogni forma di violenza e
discriminazione, in base alla razza, al sesso, alle scelte
religiose, sessuali, eccetera… Tutto molto nobile e interessante,
non c’è che dire. Del resto, cercare di
spegnere il fuoco del
razzismo prima che divampi,
distruggendo tutto, è opera sempre apprezzabile. Tuttavia, forse si dovrebbe ragionare più a
fondo sulle radici sociali della violenza, senza, ovviamente opprimere… troppo i nostri lettori.
Una prima distinzione, generica, va fatta tra forza e
violenza. La forza è una forma di violenza legalizzata, mentre la violenza non è altro che forza
extra-legale. Nel mondo moderno, la legalità dell’uso della forza è sancita
dalle leggi (il cosiddetto stato di diritto). Va da sé che coloro che non
condividono “quelle” leggi (che autorizzano l’uso della forza), parificano
“quella” forza alla violenza. Ciò
significa che di fatto ogni distinzione
tra forza e violenza è soggettiva ( o comunque ideologica), perché concerne il
grado di accettazione individuale delle leggi che ne autorizzano l’uso. Quindi,
più correttamente, si dovrebbe parlare
sempre di violenza.
Una seconda distinzione, riguarda la
finalità della violenza. Per alcuni la violenza è soltanto un mezzo per
ottenere altri fini. Si pensi alla violenza rivoluzionaria tesa a far nascere una nuova società; oppure alla violenza
bellica dispiegata in guerre che, come
retorica impone, “devono mettere fine a
tutte le guerre”…
Per altri, più sbrigativamente, la violenza è sempre fine
a se stessa. Quest’ultima, curiosamente, è la posizione di coloro che o non
accettano o adorano la violenza: dei pacifisti come dei guerrafondai.
Una terza distinzione, concerne la violenza collettiva e individuale. Di regola, la violenza individuale viene punita dai codici mentre quella collettiva resta più difficile da individuare e punire. Perché? La violenza del singolo è sempre più individuabile e gestibile fisicamente, mentre quella collettiva no ( si pensi al concetto, assai vago, di “violenza delle istituzioni”…). Il punto è che l’uomo tende ad attribuire ai fenomeni collettivi cause collettive, spesso astratte. Di qui, la conseguente difficoltà a trovare un accordo sulle cause concrete e sulla legislazione penale relativa proprio alle cause collettive... Il che tuttavia non significa che non esistano situazioni collettive di sofferenza, ad esempio una grave disoccupazione.
Insomma, la violenza (anche sotto forma di forza legalizzata), piaccia o meno, è una componente dei rapporti sociali. Non vogliamo entrare qui nel merito della questione delle questioni: se l’aggressività nell’ uomo sia eliminabile o meno. Anche perché, in concreto, le società, da sempre, cercano di limitare la violenza (illegale) ricorrendo ad altra violenza (legale). Fondandola, di volta in volta, sui valori più differenti (religiosi, morali, giuridici). Certo, l’educazione - a cominciare dalle Settimane nazionali contro la violenza - può influire, culturalmente, sul ricorso individuale e sociale alle cosiddette vie di fatto… Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
In primo luogo, spesso l’educazione implica l’accoglimento psichico nel singolo del concetto sociale di violenza (legale) quale deterrente alla violenza (illegale). Così però anche l’educazione finisce per basarsi sulla “minaccia” di altra violenza. Su questo concetto torneremo più avanti.
In secondo luogo, le società, pur respingendo pubblicamente la violenza ne sono in realtà intrise. Si pensi solo al moderno concetto di “guerre giuste”, esplicitato a suon di bombe. Oppure a quella schizofrenia sociale, oggi sotto gli occhi di tutti, di certi personaggi politici, i quali per un verso predicano la pace e per l’altro praticano la violenza. E sempre con il sorriso sulle labbra.
In una situazione del genere, segnata dal culto ipocrita della non violenza, tentare di contenere la violenza vera non è facile. Anche perché il vero punto della questione è rappresentato dal concetto di minaccia: “promettere” all’altro qualcosa che susciti in lui preoccupazione, timore, paura… Un atto, che pur non essendo in se stesso “violento”, si appella all’ uso possibile della violenza: una pratica che caratterizza le più diverse forme di relazione sociale, sia individuali, sia di gruppo, da quelle contrattuali ( “se eviterai di adempiere…”) a quelle educative (“se non farai il buono… ”) e politiche ( “se non pagherai le tasse…”; “se invaderai, la mia patria…”).
Pertanto, la violenza rinvia sempre alla minaccia, ossia a un’altra azione che racchiude in sé “l’idea” di violenza. Ciò indica una sola cosa: che la minaccia, quale violenza virtuale, è una componente ineludibile, di tutti i rapporti i sociali.
Concludendo, la violenza rinvia alla minaccia, la minaccia alla paura di subire una qualche violenza (fisica, psichica, morale, sociale). Pertanto, come dicevamo all’inizio, le Settimane nazionali contro la violenza sono benvenute. Anche se, in realtà, il problema principale resta un altro. Ed è di tipo costitutivo o socio-antropologico. Insomma, piaccia o meno, siamo fatti così: viviamo, pur usando la ragione, come psichicamente sospesi tra violenza e minaccia di una violenza. Per giunta, ammesso e non concesso che si possa modificare la natura dell’uomo, in che modo liberare il mondo sociale dalla paura? Soprattutto quando, come oggi, la paura viene usata a giustificazione della cosiddetta società della sorveglianza? Una società, dove, per i suoi membri, la sicurezza sembra contare più della libertà?
Una terza distinzione, concerne la violenza collettiva e individuale. Di regola, la violenza individuale viene punita dai codici mentre quella collettiva resta più difficile da individuare e punire. Perché? La violenza del singolo è sempre più individuabile e gestibile fisicamente, mentre quella collettiva no ( si pensi al concetto, assai vago, di “violenza delle istituzioni”…). Il punto è che l’uomo tende ad attribuire ai fenomeni collettivi cause collettive, spesso astratte. Di qui, la conseguente difficoltà a trovare un accordo sulle cause concrete e sulla legislazione penale relativa proprio alle cause collettive... Il che tuttavia non significa che non esistano situazioni collettive di sofferenza, ad esempio una grave disoccupazione.
Insomma, la violenza (anche sotto forma di forza legalizzata), piaccia o meno, è una componente dei rapporti sociali. Non vogliamo entrare qui nel merito della questione delle questioni: se l’aggressività nell’ uomo sia eliminabile o meno. Anche perché, in concreto, le società, da sempre, cercano di limitare la violenza (illegale) ricorrendo ad altra violenza (legale). Fondandola, di volta in volta, sui valori più differenti (religiosi, morali, giuridici). Certo, l’educazione - a cominciare dalle Settimane nazionali contro la violenza - può influire, culturalmente, sul ricorso individuale e sociale alle cosiddette vie di fatto… Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
In primo luogo, spesso l’educazione implica l’accoglimento psichico nel singolo del concetto sociale di violenza (legale) quale deterrente alla violenza (illegale). Così però anche l’educazione finisce per basarsi sulla “minaccia” di altra violenza. Su questo concetto torneremo più avanti.
In secondo luogo, le società, pur respingendo pubblicamente la violenza ne sono in realtà intrise. Si pensi solo al moderno concetto di “guerre giuste”, esplicitato a suon di bombe. Oppure a quella schizofrenia sociale, oggi sotto gli occhi di tutti, di certi personaggi politici, i quali per un verso predicano la pace e per l’altro praticano la violenza. E sempre con il sorriso sulle labbra.
In una situazione del genere, segnata dal culto ipocrita della non violenza, tentare di contenere la violenza vera non è facile. Anche perché il vero punto della questione è rappresentato dal concetto di minaccia: “promettere” all’altro qualcosa che susciti in lui preoccupazione, timore, paura… Un atto, che pur non essendo in se stesso “violento”, si appella all’ uso possibile della violenza: una pratica che caratterizza le più diverse forme di relazione sociale, sia individuali, sia di gruppo, da quelle contrattuali ( “se eviterai di adempiere…”) a quelle educative (“se non farai il buono… ”) e politiche ( “se non pagherai le tasse…”; “se invaderai, la mia patria…”).
Pertanto, la violenza rinvia sempre alla minaccia, ossia a un’altra azione che racchiude in sé “l’idea” di violenza. Ciò indica una sola cosa: che la minaccia, quale violenza virtuale, è una componente ineludibile, di tutti i rapporti i sociali.
Concludendo, la violenza rinvia alla minaccia, la minaccia alla paura di subire una qualche violenza (fisica, psichica, morale, sociale). Pertanto, come dicevamo all’inizio, le Settimane nazionali contro la violenza sono benvenute. Anche se, in realtà, il problema principale resta un altro. Ed è di tipo costitutivo o socio-antropologico. Insomma, piaccia o meno, siamo fatti così: viviamo, pur usando la ragione, come psichicamente sospesi tra violenza e minaccia di una violenza. Per giunta, ammesso e non concesso che si possa modificare la natura dell’uomo, in che modo liberare il mondo sociale dalla paura? Soprattutto quando, come oggi, la paura viene usata a giustificazione della cosiddetta società della sorveglianza? Una società, dove, per i suoi membri, la sicurezza sembra contare più della libertà?
Carlo Gambescia
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