venerdì 7 ottobre 2011

III Settimana nazionale contro la violenza
Può bastare l’educazione?
di Carlo Gambescia

Nel corso del  mese di ottobre si terrà in Italia la III Settimana nazionale contro la violenza.  Promossa  nelle scuole (ma non solo), dal  Dipartimento per le Pari Opportunità. Si tratta di un’iniziativa  che ha  lo scopo di favorire la prevenzione verso ogni forma di violenza e discriminazione,  in base alla razza, al sesso,  alle scelte  religiose,  sessuali,  eccetera… Tutto molto nobile e interessante, non c’è che dire. Del resto, cercare di  spegnere  il  fuoco del  razzismo  prima che divampi, distruggendo tutto,  è opera  sempre apprezzabile.  Tuttavia, forse si dovrebbe ragionare più a fondo sulle radici sociali della violenza, senza, ovviamente opprimere…  troppo i nostri lettori. 
Una prima distinzione, generica, va fatta tra forza e violenza. La forza è una forma di violenza legalizzata,  mentre la violenza non è altro che forza extra-legale. Nel mondo moderno, la legalità dell’uso della forza è sancita dalle leggi (il cosiddetto stato di diritto). Va da sé che coloro che non condividono “quelle” leggi (che autorizzano l’uso della forza), parificano “quella” forza alla violenza.  Ciò significa che di fatto  ogni distinzione tra forza e violenza è soggettiva ( o comunque ideologica), perché concerne il grado di accettazione individuale delle leggi che ne autorizzano l’uso. Quindi, più correttamente,  si dovrebbe parlare sempre di violenza.
Una seconda distinzione,  riguarda la finalità della violenza. Per alcuni la violenza è soltanto un mezzo per ottenere altri fini. Si pensi alla violenza rivoluzionaria  tesa a far nascere  una nuova società; oppure alla violenza bellica  dispiegata in guerre che, come retorica impone,  “devono mettere fine a tutte le guerre”…
Per altri, più sbrigativamente, la violenza è sempre fine a se stessa. Quest’ultima, curiosamente, è la posizione di coloro che o non accettano o adorano la violenza: dei pacifisti come dei guerrafondai.
Una terza distinzione,  concerne la violenza collettiva e individuale. Di regola, la violenza individuale viene punita dai codici mentre quella collettiva resta più difficile da individuare e punire. Perché? La violenza del singolo è sempre più individuabile e gestibile fisicamente, mentre quella collettiva no ( si pensi al concetto, assai vago, di “violenza delle istituzioni”…). Il punto è che l’uomo tende  ad attribuire ai fenomeni collettivi cause collettive, spesso astratte.  Di qui,  la conseguente difficoltà a trovare un accordo sulle cause concrete e sulla legislazione penale relativa proprio alle  cause collettive...   Il che tuttavia non significa che non esistano situazioni collettive di sofferenza, ad esempio una grave disoccupazione.  
Insomma, la violenza (anche sotto forma di forza legalizzata), piaccia o meno, è una componente dei rapporti sociali. Non vogliamo  entrare qui nel merito della questione delle questioni: se l’aggressività nell’ uomo sia  eliminabile o meno. Anche perché, in concreto,  le società, da sempre, cercano di limitare la violenza (illegale) ricorrendo ad altra violenza (legale). Fondandola, di volta in volta,  sui valori più differenti (religiosi, morali, giuridici). Certo, l’educazione -  a cominciare dalle Settimane nazionali contro la violenza - può  influire, culturalmente, sul ricorso individuale e sociale alle cosiddette vie di fatto…  Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
In primo luogo, spesso l’educazione implica l’accoglimento psichico nel singolo  del concetto sociale di violenza (legale) quale  deterrente alla  violenza (illegale). Così però  anche l’educazione finisce per basarsi sulla “minaccia” di altra violenza. Su questo concetto torneremo più avanti.
In secondo luogo, le società,  pur respingendo pubblicamente la violenza ne sono in realtà intrise.  Si pensi solo al moderno concetto di “guerre giuste”, esplicitato a suon di bombe.  Oppure a quella schizofrenia sociale, oggi sotto gli occhi di tutti, di certi  personaggi politici,  i quali per un verso predicano la pace e per l’altro praticano la violenza. E sempre  con il sorriso sulle labbra.
In una situazione del genere,  segnata dal  culto ipocrita della non violenza, tentare di contenere la violenza vera  non è facile. Anche perché il vero punto della questione è rappresentato dal concetto di minaccia: “promettere” all’altro qualcosa che susciti in lui preoccupazione, timore, paura… Un atto, che pur non essendo in se stesso “violento”, si appella all’ uso possibile della violenza:   una pratica che caratterizza le più diverse forme di relazione sociale, sia individuali, sia di gruppo, da quelle contrattuali ( “se eviterai di adempiere…”) a quelle educative (“se non farai il buono… ”) e politiche ( “se non pagherai le tasse…”; “se invaderai, la mia patria…”).
Pertanto, la violenza rinvia sempre alla minaccia, ossia a  un’altra azione che racchiude in sé “l’idea” di violenza. Ciò indica una sola cosa: che la minaccia, quale  violenza virtuale,  è  una componente ineludibile, di tutti i rapporti i sociali.
Concludendo,  la violenza rinvia alla minaccia, la minaccia alla paura di subire una qualche  violenza (fisica, psichica, morale, sociale).  Pertanto, come dicevamo all’inizio,  le  Settimane nazionali contro la violenza sono benvenute. Anche se, in realtà,  il problema principale resta un altro. Ed è  di tipo costitutivo o  socio-antropologico. Insomma, piaccia o meno, siamo fatti così:  viviamo, pur usando la ragione,  come psichicamente sospesi tra violenza e  minaccia di una violenza.  Per giunta, ammesso e non concesso che si possa modificare la natura dell’uomo, in che modo liberare il mondo sociale dalla paura? Soprattutto quando, come oggi, la paura viene usata a giustificazione della cosiddetta società della sorveglianza? Una società,  dove, per i suoi membri, la sicurezza  sembra  contare più della libertà?         

                                                                Carlo Gambescia

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