giovedì 13 marzo 2008

In memoria di Luigi Roca


"Mi ammazzo perché insieme al lavoro ho perso la dignità". L'"ottava vittima" della Thyssen,[ Luigi Roca] 39 anni, non ha mai lavorato nella fabbrica della morte. Ma la sua azienda, la Berco di Busano Canavese, faceva parte del gruppo tedesco. E il suo contratto, interinale, non è stato rinnovato perché la Thyssen adesso ha 150 persone "da collocare", come si dice terribilmente in questi casi. Come se le persone fossero i pezzi di un incastro. Però Luigi era diventato il pezzo stagliato: di troppo, e già troppo vecchio. Trentanove anni, un'età da matusalemme se cerchi il posto fisso. Ma ci aveva creduto. Dopo quattro anni di rimbalzi, un mese, due mesi in fabbrica e poi a casa, era arrivato un impiego giusto, più solido. "Durerà" .http://www.repubblica.it/2008/03/sezioni/cronaca/operaio-suicida/operaio-suicida/operaio-suicida.html

Eventi come il suicidio di Luigi Roca, indicano quanto oggi sia grande la distanza tra la classe dirigente italiana e la realtà sociale. E non ci vuole grande dottrina sociologica per capirlo.
Da un lato abbiamo una campagna elettorale, intessuta di luoghi comuni, polemiche inutili, protagonismi imbecilli, e dall’altro un uomo di 39 anni, punta di iceberg di un malessere sociale sempre più diffuso, che si suicida, perché “insieme al lavoro ha perso la dignità”.
Il primo impulso, di chi scrive, è quello di gridare in faccia a coloro che governano (o che si apprestano a governarci) una sola parola: vergogna! Ma servirebbe a qualcosa? Chi ci legge crede che, ora, in campagna elettorale, di colpo, “il lavoro riacquisterà centralità”, come spesso si legge? Macché, tutto continuerà come prima.
Dal momento che siamo davanti a quello che si può indicare, usando un linguaggio oggi desueto, come il grande tradimento del “lavoro” da parte del "capitale". Una delle conquiste del capitalismo welfarista è stata quella di attribuire al lavoro, stabile, remunerato, una funzione di “securizzazione” sociale e di consenso democratico. Per una serie ragioni, tra le quali, in primis,  l'ondata  neoliberista, questo patto tra lavoro e capitale è venuto meno. Di qui la crescente diffusione di quella precarizzazione che ha spinto Luigi Roca, che credeva nella dignità welfarista del lavoro, al suicidio.
Perciò questa tragica morte non è frutto di contingenze individuali, ma rinvia causalmente a un preciso fenomeno strutturale. Che tuttavia, alla lunga, dal momento che il capitalismo ha necessità di lavoratori-consumatori, potrebbe innescare una crisi sistemica. Ma si tratta solo di una possibilità. Si pensi, infatti, alla crescente capacità, in particolare dell’apparato informativo e mediatico-simbolico, di raccordare, in chiave di ipocrita leggerezza post-moderna, la precarietà lavorativa a stili di vita liberi, soprattutto moralmente. E basati sulla "manna" del credito al consumo e sulle possibilità di accesso, pur ridotte, a ipnotici beni di status.
Probabilmente Luigi Roca, come lavoratore metalmeccanico, e dunque in certo senso “tradizionale”, avvertiva, come accennato, più di altri lavoratori flessibili ma istituzionalmente e culturalmente dissimili (ad esempio i lavoratori di un call center o di un supermercato), la cesura tra il vecchio mondo del “lavori” e il nuovo mondo dei “lavoretti”. Condizione che non voleva, anzi non poteva accettare. Di qui la percezione di un' assenza di "regole" lavorative certe, che ha condotto Luigi Roca a risalire gli accidentati e solitari sentieri prima della depressione e poi del suicidio.
Del quale sono moralmente responsabili quei politici, che in piena campagna elettorale, fanno finta di non vedere come molti lavoratori considerino la flessibilità (e la precarizzazione sociale che ne consegue) un vero e proprio tradimento morale, prima che economico, nei riguardi di una “dignitosa” visione del lavoro.

Certo, interna al sistema capitalistico, dunque poca cosa, ma che per Luigi Roca, e giustamente, era tutto. Luigi, in realtà, chiedeva solo un minimo di rispetto sociale. Legato a un lavoro sicuro, prima promesso e poi negato. E ora, invece, siamo qui a ricordarlo. Che tristezza. 

Carlo Gambescia

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