lunedì 10 marzo 2008

Riflessioni
La "nuova questione sociale



Tutti i partiti, già così impegnati nella campagna elettorale, sembrano ignorare un fatto strutturale, e dunque non solo italiano. Quale? Quello della “nuova” questione sociale. Tuttavia prima di parlarne a fondo, è corretto distinguerla dalla “vecchia”.

Vecchia e nuova questione sociale
La vecchia questione sociale risale alla metà dell’Ottocento europeo.
Le precarie condizioni in cui vivevano lavoratori privi di qualsiasi diritto (la cosiddetta questione sociale, appunto) innescarono un ampio contro-movimento sociale, sindacale e politico. Che da difensivo si trasformò in “offensivo”. Fino a svilupparsi sistematicamente nel corso del Novecento, con la progressiva approvazione di leggi, regolamenti e misure economiche e sociali a favore dei lavoratori. Questo contro-movimento, sorto per opporsi al “movimento” egemonico dell’economia capitalistica, raggiunse il suo culmine nella seconda metà del Novecento, con la nascita del welfare state democratico.
Per contro, la nuova questione sociale, è cosa di oggi. Nasce alla fine del Novecento sull’onda ideologica delle rivoluzioni neoliberiste degli anni Ottanta. E consiste nella progressiva riduzione delle tutele e delle garanzie, conquistate come risposta alla questione sociale ottocentesca. E la cosiddetta “flessibilità”, o precarietà lavorativa è il modo in cui oggi si manifesta la nuova questione sociale.
Per usare una metafora, si pensi ai moti alterni del livello marino che si ripetono nel tempo: alle grandi correnti di marea, che avanzano e si ritirano ciclicamente. Ecco, anche le società sono soggette alle stesse oscillazioni. In particolare quella capitalistica, così legata agli alti bassi dei ciclo economico. E perciò condannata a essere solcata da movimenti economici e contro-movimenti sociali. Di conseguenza, ogni volta, all’assalto della macchina economica non può non seguire la spontanea reazione difensiva dei vari gruppi sociali, che rischiano di essere schiacciati. E come l’ampiezza, la velocità e la dannosità delle correnti marine sono proporzionali all’estensione del bacino considerato e alla morfologia delle coste e delle difese naturali e artificiali, costruite dall’uomo, così la forza (e i danni sociali) del mercato capitalistico dipendono dalla capacità di una società di difendersi, attraverso un “contro-movimento” interno, in grado di salvaguardare la sua sostanza umana.



L'onda breve neoliberista
Per alcuni osservatori, la nascita della “precarizzazione” sarebbe frutto della transizione dal capitalismo fordista al capitalismo postfordista, Il primo incentrato sulla stabilità del posto di lavoro, i diritti sociali, e il keynesismo. Il secondo, invece sulla precarietà del lavoro, sulla progressiva riduzione dei diritti sociali e sul monetarismo neoliberista
Ora, a prescindere dalla giustezza dell’ ipotesi, vanno fatte due considerazioni.
Prima osservazione. L'onda neoliberista degli anni Ottanta è figlia del ciclo produttivo capitalista, ritornato prepotentemente a imporre ritmi produttivi accelerati e basati sulla delocalizzazione del capitale e della manodopera. Che poi ciò sia tuttora frutto di un cambiamento sistemico o della natura faustiana del capitalismo è questione che qui non può essere affrontata. Limitiamoci perciò a constatare che il Maelstrøm liberista ( e capitalista), ha provocato e provoca tuttora turbolenze in tutto il mondo. Turbolenze che vanno sotto il nome di “globalizzazione” e “precarizzazione”.
Seconda considerazione. Oggi siamo solo all’inizio di un nuovo processo storico-economico. Che cosa sono ventinove anni di “liberismo”, a far tempo dall’insediamento della Thatcher, (1979-2008), a fronte di un processo di “welfarizzazione” (1883-1978), durato novantacinque anni? Visto che lo si può far risalire alle leggi tedesche sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie e gli infortuni sul lavoro (1883-1884). Periodo, tuttavia preceduto, e intersecato, da una prima “globalizzazione”, provocata dall’ascesa dell’economia imperiale britannica (1815-1914). Quindi parleremmo di onda breve neoliberista, almeno per ora.
Di riflesso, il contro-movimento sociale, perciò, potrebbe farsi attendere, e a lungo… Certamente vi sarà, ma si dovrà attendere qualche decennio. Difficile dire quando... Sempre che la situazione economica non precipiti di colpo, come alcuni osservatori presagiscono sulla base del trend finanziario negativo che sembra attualmente distinguere l'economia americana. Dopo di che, però, il riassetto mondiale potrebbe anche avvenire, ma a un livello di tutele democratiche, piuttosto ridotto, se non nullo.

Differenze tra vecchia e nuova questione sociale
Per capire le differenze tra vecchia e nuova questione sociale è necessario concentrarsi sul ruolo dello Stato. Se per quasi tre quarti del Novecento, lo Stato ha legiferato e attuato politiche economiche in favore del lavoro, con lo stesso consenso del mondo imprenditoriale. Oggi, è questo stesso mondo, conquistato dall’idea del liberismo globalizzatore a costo zero, che chiede allo Stato di tenersi fuori dalla vita economica.
Pertanto, ecco la prima differenza: la nuova questione sociale non ha più, tra i suoi attori principali lo Stato.
Ma c’è anche un’altra differenza. Se tra Otto e Novecento, esisteva una classe operaia, con le sue solidarietà sindacali e politiche, oggi, vi è solo un enorme ceto medio, segnato da propensioni individualistiche, e piuttosto erratico sul piano delle preferenze politiche. Se per quasi tutto il Novecento, il senso comune delle persone, ha privilegiato il gruppo, oggi privilegia l’individuo.
Ecco, allora, la seconda differenza: la nuova questione sociale, colpisce soggetti sociali diffidenti verso qualsiasi solidarietà di gruppo.
Ora, come abbiamo già osservato, siamo solo all’inizio. di una lunga fase di precarizzazione. A grandi linee, e restringendo la nostra analisi all’Europa dei 25, la fascia del lavoro precarizzato attualmente oscilla intorno al 14%. Questo significa, che per diversi milioni di giovani lavoratori europei il futuro è piuttosto in certo (perché il lavoro precario riguarda quasi 1 su 2, tra i 15 e i 24 anni, e 1 su 3, tra i 25 e i 35 anni ). Inoltre, il contratto di lavoro a tempo determinato (nelle sue varie forme), si trasforma in contratto a tempo indeterminato, solo in un caso su due. E, attenzione, l’alta quota di lavoro precario, spiega il basso tasso (relativamente parlando) di disoccupazione, che ruota in media intorno al 4,5 %. Il che significa, che cresce l’occupazione precaria mentre tende a diminuire quella stabile. E visto che la tendenza sembra consolidarsi nel tempo (nel 1997 il lavoro precario era al 12%,), il futuro potrebbe essere ancora più nebuloso.
Ma qual è la differenza fondamentale, tra i “precari” (chiamiamoli così) della vecchia questione sociale otto-novecentesca e quelli della nuova? Che i primi avevano le istituzioni dello Stato dalla loro parte (anche se non sempre all’inizio…), i secondi no. Inoltre,  mentre i primi sentivano il bisogno di coalizzarsi, i secondi non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni politiche e sindacali. Il tasso di sindacalizzazione e politicizzazione è praticamente crollato negli Ottanta-Novanta del Novecento: oggi, 2 giovani su 3 non sono iscritti a sindacati e partiti politici. Mentre l’età media degli iscritti al sindacato è piuttosto elevata (intorno ai cinquanta), probabilmente anche a causa dell’elevato numero di pensionati iscritti nelle liste del sindacato.
Ma in genere, e soprattutto nei giovani, oggi si cerca una via di salvezza individuale. L’elemento che deve far riflettere sul piano sociologico, prima che economico, è che il clima di riflusso verso il privato, così celebrato anni Ottanta, ha prodotto figure sociali, cresciute nel privatismo consumistico televisivo. Le stesse figure che oggi rifiutano la mediazione istituzionale. O se vi si rivolgono, è per strumentalizzarla.
Ma questa è solo una parte della storia.
La precarizzazione che riguarda il mercato del lavoro, finisce per influisce anche sulla qualità della vita. Dal momento che è in crescita l’area del disagio sociale: il numero degli anziani soli (oltre i 65 anni), in affanno economico e bisognosi di cure, è in costante crescita: quasi 1 su 4. Sale, principalmente nelle generazioni di mezzo (tra i 35 e i 55 anni), anche il numero degli indebitati con le banche (mutui, crediti al consumo, eccetera), 2 capifamiglia su 4. Di più: 1 unità familiare su 4 dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. I salari femminili sono fermi, o addirittura scendono rispetto a quelli maschili. Con gravi conseguenze per le famiglie monogenitoriali, con a capo una donna. E questo spiega pure perché nelle famiglie a rischio basti poco (un infortunio sul lavoro, una malattia, la perdita improvvisa del lavoro, eccetera) per scivolare di sotto della sotto della soglia di povertà. Nell’Europa dei 25, il 20 % circa della popolazione è al di sotto di questa soglia. [Per i parametri di riferimento si rinvia ai siti http://www.eurofound.ie/ (Fondazione Dublino) e http://www.ilo.org/ (International Labour Organization) e http://www.ec.europa.eu/public_opinion/index_en.htm (Eurobarometro). Siti dai quali abbiamo ripreso, sintetizzandoli, i dati statistici qui citati].

Che fare?
Che fare davanti alla fuga dello Stato e al progressivo riflusso privatistico di soggetti tra l’altro socialmente sofferenti? Tenendo presente anche un fatto importante: che le rigorose politiche pubbliche di bilancio (taglio delle pensioni e dei servizi sociali) renderanno di anno in anno la situazione sempre più difficile .
Un prima soluzione potrebbe essere quella di valorizzare le solidarietà intermedie, non statali o semipubbliche. Ma quali? Alcuni osservatori pensano al volontariato, che in Italia proviene largamente dal mondo cattolico (una associazione su due). Ma queste associazioni - visto che la Chiesa non naviga nell’oro - dove potrebbero trovare le risorse economiche necessarie? Nella carità dei privati (l’8 per mille…). Ma una scelta del genere non rappresenta forse un ulteriore passo indietro rispetto al secolo del Welfare? Se ad esempio, l’anziano non autosufficiente ha un diritto sociale all’assistenza medica gratuita, perché farlo dipendere, dall’altrui - anche se lodevole - buona volontà? Perché trasformate un diritto pubblico una facoltà privata?
Una seconda strada potrebbe essere quella di creare ex novo, o valorizzare, strutture sociali regionali, comunali, provinciali, in grado di far sentire all’ individuo sempre più isolato il calore della comunità. Ma come superare i burocratismi dei routinier dell’assistenza sociale? E come finanziare questi enti?
Un terzo percorso potrebbe essere quello di valorizzare il ruolo delle famiglie, finanziando, la fornitura di servizi (ad esempio nel campo dell’assistenza sociale a bambini e anziani ), svolti dagli stessi familiari. Ma poi come finanziare i necessari controlli “di qualità” sulle attività svolte dalle famiglie?
Resta infine il problema della precarizzazione del lavoro. Che andrebbe risolto creando reti previdenziali ad hoc che finalmente possano garantire, tra un lavoro e l’altro, la continuità contributiva e assistenziale. Ma anche rilanciando, come alcuni propongono una politica di grandi opere pubbliche e sociali, capace di creare occupazione?  Dove però  prendere le risorse economiche?
Per non parlare infine della possibilità dell’introduzione di un reddito di cittadinanza, non legato allo svolgimento di un lavoro, ma al diritto all’esistenza in quanto cittadini europei (perché no?). Misura che, se approvata, avrebbe un valore epocale, diremmo rivoluzionario, per l’ Unione. Ma su quali basi economiche? E diciamola tutta, anche politiche? Dove trovare le risorse?
La nostra insistenza sulle forme di finanziamento economico ha una sua importanza. Perché permette di individuare la differenza decisiva tra vecchia e nuova questione sociale.
La “vecchia questione sociale” venne affrontata senza imporre alcun vincolo di bilancio, o comunque non in maniera ferrea come avviene oggi. Si pensi al ruolo fondamentale svolto dalle politiche keynesiane nella costruzione delle basi economiche del welfare state.
La nuova questione sociale, nasce perciò sotto la stella delle rigide politiche di bilancio. Autentiche politiche delle lesina che impediscono, qualsiasi forma di finanziamento dei servizi sociali e di sostegno allo sviluppo economico.
Non va tuttavia negato un fatto: che ancora negli anni Cinquanta del Novecento, la pressione fiscale era meno della metà di quella di oggi, mentre i tassi di sviluppo economico (in termini di Pil), nettamente superiori a quelli attuali. Perciò ammesso che si possa tornare a politiche sociali di tipo welfarista, come convincere le persone ad accettare una pressione fiscale, probabilmente più alta, o comunque non minore di quella attuale? In presenza però di tassi di sviluppo inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Certo, si potrebbe, anzi si dovrebbe, procedere al recupero dell’evasione fiscale. Ma è possibile far coincidere temporalmente ciclo economico e ciclo del recupero delle tasse e imposte evase?
E qui dobbiamo sorvolare sul cosiddetto problema della “decrescita”. La cui trattazione complicherebbe ancora di più il quadro appena delineato. Come conciliare, ad esempio, i costi, probabilmente crescenti del welfare sanitario e pensionistico con un sistema economico a bassa produttività e sviluppo?
In conclusione, una cosa è certa, fin quando non torneranno ad allentarsi i cordoni della “borsa" pubblica sarà difficile rispondere concretamente alle sfide poste dalla nuova questione sociale. E in questo senso, i politici che tuttora continuano a ragionare da banchieri, in termini rigorosamente monetaristi, si assumono pesanti responsabilità storiche nei riguardi di coloro che oggi hanno un’età tra i venti e i trent’anni. E soprattutto verso i figli dei precari di oggi. Ammesso e non concesso, che riescano a metterne al mondo.
Carlo Gambescia 

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