giovedì 11 gennaio 2007


 "Apocalypto"
L'occhio antropologico di Mel Gibson




Le polemiche su “Apocalypto” sono importanti per scoprire l’ ipocrisia di certa sinistra al caviale, ma anche per fare luce, come dire, sull’ “occhio antropologico” di Gibson. Come vedremo, il suo non è un approccio comune, soprattutto nell’ambito del cinema hollywoodiano, che di solito punta su una specie di “violenza democratica”, di largo consumo, e tutto sommato normalizzante. Gibson invece va in un'altra direzione.
Ma cominciamo dalla sinistra del bon ton morale.
Ora, si tratta di un sinistra, per un verso pronta a condannare verbalmente ogni forma di violenza. Si pensi alla stantia retorica sul bullismo che legioni di opinionisti “liberal” combattono, senza alcuna paura del ridicolo, come una forma di pericolosa “criptopropensione” al totalitarismo che può svilupparsi nell’adolescente. E per l’altro disposta a giustificare anche la morte violenta dei nemici (presuntivi) del sistema, come Saddam. Basti ricordare le contraddittorie prese di posizione di alcuni noti “umanitaristi” laici, come Mieli e Scalfari, contrari all’impiccagione dell’ex rais, ma favorevoli a forme di giustizia popolare a “caldo”.
A queste due inconsistenti posizioni “teoriche” va sommata la violenza mediatica, che quotidianamente penetra nelle case attraverso la televisione, favorendo passivamente negli stessi bambini e adolescenti, di cui però si teme il bullismo di ritorno, l’ accettazione della violenza, spesso più feroce, come normale componente dei rapporti sociali.
In tale contesto, a dir poco schizofrenico, “Apocalypto” di Gibson è stato attaccato da tutte le parti, e in modo particolare, da certa sinistra buonista, che pur odiando a parole la violenza, non si sarebbe dispiaciuta di una fine stile Piazzale Loreto per Saddam… Ma c’è dell’altro: questa sinistra “libertaria”, non era fino a poco tempo fa contraria a ogni forma di censura? O ha cambiato idea appena è uscito il film di Mel Gibson?
Propendiamo per la seconda ipotesi. Infatti, all’attore e cineasta americano la cultura “liberal” mondiale non ha ancora perdonato il successo di un film integralista, come "The Passion" . E perciò alla prima occasione ha chiesto a gran voce, come sta avvenendo in Italia, l’intervento della censura cinematografica.
Si tratta di una posizione che brilla per la sua ipocrisia. Vediamo perché
In primo luogo, libertà vuole, che sia lo stesso spettatore a decidere, e per il minore, i genitori. Se ci si batte per la libertà individuale, e si ritiene l’individuo libero di scegliere, la libertà deve valere per tutti e sempre. Non può essere condizionata dalle simpatie o antipatie culturali. E ciò la dice lunga sulla vera natura dello spirito libertario di cui certi “progressisti” si sono nominati depositari.
In secondo luogo, invocare il ruolo decisivo della censura cinematografica, significa fare un passo indietro. Vuol dire reintrodurre una specie di tutorato pubblico, e perciò anteporre, nel caso dei minori, una specie di Stato-Padrone alle famiglie. Il che fa dubitare sull’autenticità del liberalismo che anima la sinistra al caviale.
In terzo luogo, la violenza, che come abbiamo notato, viene veicolata quotidianamente dai media, e in particolare dalla televisione (perfino nei cartoni animati…), non può essere esorcizzata a colpi di divieti. Andrebbe invece studiata in rapporto al contesto in cui la si rappresenta: il vero punto della questione è costituito dal pericolo di rappresentarla - magari nelle sue forme estreme e sadiche - come una componente normale dei rapporti sociali. L’esempio classico è quello dell’incoraggiamento a farsi giustizia da soli per futili motivi… Un “approccio” che caratterizza in larga parte la cinematografia hollywoodiana, popolata appunto di serial killer, giustizieri della notte, eroi negativi, quasi sempre guardati con occhio benevolo, se non del tutto compiaciuto. Tutti film per i quali, i “liberal” delle due sponde dell’Oceano, difficilmente hanno invocato divieti.
Nel film di Gibson la violenza è contestualizzata nel quadro di una società, come quella Maya, dove come mostrano gli studi antropologici, la violenza più efferata, come totale monopolio delle classi dominanti, vi svolgeva un ruolo pari a quello che la “forza pubblica” (che non è altro che “violenza istituzionalizzata, o legale) svolge nelle nostre società. Insomma, Gibson descrive la “violenza dei Maya in modo esattamente contrario, a come in genere viene rappresentata la violenza dell’antieroe pulp. Nel caso dei Maya, la violenza scende dall’alto, e come tale viene contestualizzata visto che si tratta di una società castale. Mentre in certe truculente pellicole hollywoodiane, dove invece la violenza sale dal basso, l’omicidio finisce per acquisire una sua pericolosa “normalità democratica”…
Tuttavia la diversità non è solo nelle due società, ma anche nello sguardo del regista. Quello di Gibson, pur indulgendo su certi cliché del cinema americano, non è mai benevolo. Il suo è l’occhio dell’antropologo che fissa, senza ipocrisie, il Leviatano Maya. Come in precedenza ha fissato, senza assolverlo, quello di Roma antica.

Carlo Gambescia

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