mercoledì 17 gennaio 2007

I libri della settimana: Alain Caillé,  Serge Latouche, Francesco  Gesualdi,  Alain de Benoist, alcuni titoli sull'idea di decrescita. 




A certe correnti di pensiero che amano costruire castelli in aria, si potrebbe rispondere, chiedendo scusa a Lorenzo il Magnifico, Quant’è bella concretezza/che si fugge tuttavia… Oppure ricordare, che nella Scienza Nuova, Giambattista Vico sostiene che “l’ordine delle idee deve procedere secondo l’ordine delle cose”. Ma probabilmente, l’intellettuale utopista, da buon erede di certo illuminismo sognatore, farebbe finta di nulla, pur di continuare a progettare irrealizzabili Città del Sole.
Certo, non è neppure accettabile l’elogio del realismo spicciolo, che alcuni oppongono alle fantasticherie sociali Dal momento che pensare “secondo l’ordine delle cose” non significa ignorare i problemi, ma solo cercare di risolverli adeguando le idee alle risorse. Senza per questo fare sconti, a chi poi confonda la realtà con i propri esclusivi interessi.
Un caso tipico è quello della cosiddetta ideologia della decrescita economica. Di recente propugnata da un gruppo di intellettuali francesi, tra i quali spiccano gli economisti-sociologi Serge Latouche e Alain Caillé, fondatori del Mauss (Mouvement anti-utilitariste dans le sciences sociales). E in Italia da Francesco Gesualdi, già allievo di Don Milani, e ora coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo.
La tesi difesa, che ha indubbiamente una sua nobiltà, asserisce che l’Occidente, dando per primo il buon esempio, dovrebbe smettere di crescere. Dal momento che qualsiasi idea di crescita delle forze produttive sarebbe nociva per l’ambiente naturale. Di qui la necessità di produrre e consumare pochissimo: lo stretto necessario. Allo sviluppo dovrebbe perciò seguire un desviluppo, e poi una specie di società stazionaria, basata su un sobrio, se non proprio spartano, tenore vita.
Passiamo ora in rassegna qualche titolo in argomento.
Serge Latouche, molto attivo in Italia come guest della sinistra radicale, ha pubblicato Come sopravvivere allo sviluppo (Bollati Boringhieri 2005, pp. 105, euro 9,50). Si tratta di un testo paradigmatico: aiuta a capire quanto siano poco originali i ragionamenti “desviluppisti”. Infatti per due terzi del libro, Latouche critica, usando argomenti piuttosto scontati, qualsiasi concetto di sviluppo (sociale, umano, eccetera), e solo nelle ultime pagine affronta il problema di come “uscire dallo sviluppo”. Ma non va più in là di un fin troppo prevedibile pauperismo di derivazione gandhiana e tolstojana… Poche merci, pochi consumi, sviluppo locale (municipale e regionale), scambi di servizi, convivialità “vernacolare”, (per non definirla “comunitaria”, termine oggi non politicamente corretto). In conclusione, molte critiche, troppe buone intenzioni, nessuna proposta concreta.
Le stesse considerazioni valgono per Alain Caillé, autore di Dé-penser l’économique (La Découverte, 2005, pp. 316, euro 23,00). Un testo, che nonostante le ambizioni teoriche, risulta disorganico e contraddittorio. Fino a che punto è possibile conciliare, come propone Caillé, “Reddito di Cittadinanza” per tutti e decrescita economica? Dove trovare, in un’economia a bassa o nulla produttività, le risorse per finanziare un progetto così ambizioso? Certo, va riconosciuto, che negli anni Ottanta, Caillé e il Mauss dettero un rilevante contributo alla critica dell’ economicismo. Come molti ricordano, Caillé, giovane e spigliato direttore della “Revue du Mauss”, aprì un proficuo dibattito con Alain de Benoist. Oggi Caillé, è un togato professore che dirige il Géode (Groupe d’étude et d’observation de la démocratie), e pubblica libri con l’Unesco. E non dialoga più, almeno pubblicamente, con de Benoist. E purtroppo, anche la sua rivista ha perduto lo smalto di un tempo.
Problematico anche il testo di Francesco Gesualdi, Sobrietà. Dallo spreco di pochi ai diritti di tutti (Feltrinelli 2005, pp. 163, euro 9,00). Purtroppo, il testo è ricco di spunti, ( “consumismo che consuma” , “elogio della bicicletta”, “collettivo è bello”, “il mercato del baratto”) che però vengono poco sviluppati. Quanto alla sobrietà, un’idea in sé rispettabilissima, e che vanta padri nobili (da Platone a Franklin), Gesualdi propone addirittura una società, che ricorda quella tardo sovietica… Soprattutto, quando a proposito dell’economia sociale, scrive che “il pubblico potrebbe limitarsi a produrre generi essenziali per tutti, lasciando via libera al mercato per produzioni personalizzate”. E’ un po’ come dire che nella società stazionaria, ogni cittadino sarà lasciato libero di personalizzare il suo orticello… Il che è piuttosto inquietante.
Un buon antidoto è rappresentato dall’ultimo libro di Alain de Benoist, Comunità e decrescita (Arianna Editrice 2006, pp. 221, euro 12,95) che abbiamo già recensito (post dell' 11-1-2006) . Dove si “critica la ragione mercantile”, ma non in modo aprioristico. Il pensatore francese, come suo costume, va subito al cuore del problema: “E’ possibile indurre alla ‘semplicità volontaria’ senza attentare alle libertà, né uscire da un quadro democratico? E se non si può né imporre la decrescita con la forza, né convertire la maggioranza della popolazione alla ‘frugalità’ con le virtù della sola persuasione, cosa resta? La teoria della decrescita - conclude de Benoist - resta troppo spesso muta su questo punto”.
Un silenzio preoccupante. Perché è proprio qui il vero problema: fin quando la sobrietà resta una scelta individuale, e dunque priva di effetti sociali, la libertà non è in gioco. Ma se invece la si vuole imporre dall’alto, si rischia un nuovo totalitarismo, come dire, della decrescita: fondato sulla frugalità obbligatoria per tutti. E qui de Benoist fa un’ osservazione interessante: la deriva totalitaria può essere evitata, se in futuro certo l’ecologismo estremo riuscirà a rompere radicalmente “con l’ideologia dei lumi, ossia l’ideologia della modernità”. Ma un pensiero finora incapace di rinunciare a quel collettivismo giacobino che lo innerva, ne sarà in grado?
Comunque sia, forse è meglio tornare a Vico: far procedere l’ordine delle idee secondo l’ordine delle cose. L’idea di sobrietà, può essere valida come esperienza di arricchimento interiore. Ma va assolutamente respinta se presentata come un destino collettivo “obbligatorio”. Anche l’idea di decrescita, come principio regolativo, in sé non è sbagliata. E, tutto sommato, anche sul piano politico costituisce un utile contrappeso allo sviluppismo sfrenato di tipo liberista e capitalista. Il nodo fondamentale è però quello di trovare una via intermedia. E non c’è molto tempo da perdere perché i problemi ambientali sono piuttosto seri.
Non pensiamo, naturalmente a un rilancio del cosiddetto “sviluppo sostenibile”, spesso usato in modo gattopardesco o mimetico dai fautori della crescita economica a ogni costo. Ma a qualcosa di diverso, magari da reinventare. Ad esempio, si potrebbe valorizzare la classica distinzione introdotta da François Perroux. Quale? Quella tra crescita economica e sviluppo ( si veda L’économie du XXéme siècle, Puf 1964). L’ economista francese, scomparso nel 1987, per crescita intendeva la crescita economica (quella del Pil, ora giustamente criticata dai teorici delle decrescita), e per sviluppo, lo sviluppo morale e culturale dell’individuo: l’unico fattore capace di indicare il grado di progresso sociale realmente conseguito nel campo delle libertà civili.
Ora, secondo Perroux, senza crescita economica non c’è progresso civile, e viceversa: i due fattori procedono insieme. Per contro, i teorici della decrescita credono realizzabile il progresso civile senza la crescita economica. Il che è falso, come dimostra l’esperienza sovietica (progresso economico senza progresso civile,) e come proverà, prima o poi, anche quella cinese. Perciò il vero punto in questione non è cessare di crescere economicamente di colpo, ma trovare il giusto punto di equilibrio tra crescita economica e progresso civile. E non è affatto detto, stando allo stesso Perroux, che una società libera, civilmente progredita non possa, a un certo punto, autolimitare, in modo ragionato e democratico, certi consumi e favorirne altri, più socialmente importanti.
E quindi, (perché no?) decrescere.
Carlo Gambescia

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