mercoledì 3 gennaio 2007


Dei delitti e delle pene
Sulla pena di morte



Chi intona il mantra in onore Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, citandolo come esempio di moderno illuminismo giuridico, spesso glissa su un particolare. Che il giurista milanese, certo contrario alla pena di morte, non invocava ragioni umanitarie ( o comunque non solo), ma si appellava a motivi puramente utilitaristici, o di calcolata fisiologia della paura. A suo avviso, infatti, “la schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato”. Dal momento che l’idea di una pena prolungata, fino all’ergastolo, “spaventa di più chi la vede che chi soffre”. (Ibid., § XXVIII).
Ecco dunque un buon esempio di quell’ipocrita crudeltà di stampo utilitarista che ancora oggi innerva il diritto penale in molti paesi. Ci si batte contro la pena di morte di morte, fingendo di non sapere che anche i condannati all’ergastolo, o a lunghissime pene detentive, “muoiono” lentamente agli occhi del mondo, giorno dopo giorno.
Va comunque sottolineato, che sul piano empirico, dopo più di duecento anni, non si è ancora stabilito con chiarezza quale sia l’effettivo rapporto tra severità delle pene ( e quindi anche della pena di morte) e tassi generali di criminalità. Più certa invece, sempre sullo stesso piano, un’ altra linea di tendenza, che contraddice sia il Beccaria che i sostenitori della pena di morte: quanto più una società è coesa, tanto più bassi sono i tassi di criminalità, e minore la necessità di ricorrere a leggi draconiane. Uno degli esempi più classici è rappresentato dai differenti tassi di devianza (criminale) tra i grandi agglomerati urbani (assai elevati) e i piccoli (piuttosto bassi, e in alcuni casi nulli). Insomma dove è forte il controllo socioculturale del gruppo sull’individuo (come ad esempio in un piccolo centro, dove tutti si conoscono e condividono gli stessi valori sociali e culturali), difficilmente si avranno comportamenti devianti. Purtroppo, spesso, pare che prezzo da pagare per una vita ordinata e tranquilla, sia quello del conformismo sociale.
Si dirà: ecco le solite banalità sociologiche… Certo, non asseriamo nulla di particolarmente originale, ma le nostre tesi sono in piena controtendenza, visto che oggi si parla, per così dire, “del prodotto finito”: della durezza delle pene e della rapidità e certezza con le quali vanno inflitte. Mentre è assolutamente vietato discutere di prevenzione socioculturale, né di come reintegrare concretamente nella comunità chi esce di prigione. Alle nostre “banalità sociologiche” vengono opposte le “dure regole” di una società “che piuttosto che prevenire deve reprimere”.
Come è chiaro, si tratta di un atteggiamento molto rigido verso il crimine, che ritroviamo a destra e sempre più spesso anche a sinistra. Che però non paga: perché nell’Occidente, così civile e industrializzato, più si reprime, più cresce il tasso di criminalità.
Dov’è allora in problema? Probabilmente, come abbiamo già accennato, è nella mancanza di coesione sociale. O meglio in quell’eccesso di individualismo anomico (non regolato da norme) che segna il mondo occidentale. Ovviamente, in ogni società vi è e vi sarà sempre un gruppo di persone che “non si adegua”: un ½ per cento “fisiologico” di devianti. Tuttavia, nelle nostre società il loro numero sembra crescere senza sosta. Perché? In un contesto che dà troppo importanza al successo personale e al denari posseduti, ma che non offre a tutti eguali opportunità e mezzi “ per farcela”, è inevitabile che nascano conflitti e tensioni permanenti. Ora, alcuni si adattano (accettano i fallimenti, il conformismo o l’impiego di mezzi legittimi,); altri invece non si adattano (non accettano i fallimenti, e puntano sull’uso di mezzi illegittimi: furto, frode, violenza); altri ancora infine, pur non adattandosi, scelgono forme di comportamento rinunciatario e autolesionista, sprofondando nella nevrosi, nella tossicomania e nella violenza suicida, contro se stessi…
E quanto più la società diviene individualistica e basata sui miti del successo e del denaro, tanto più prolifera quel senso di frustrazione psicologica e culturale da “mancato” o “irraggiungibile successo sociale”, tanto più crescono i comportamenti devianti. Ovviamente, e per ragioni di spazio, non possiamo moltiplicare gli esempi, ma la situazione americana col suo mix di individualismo, repressione poliziesca, carceraria e pena di morte, è lì a dimostrare, visto che negli Usa, i crimini non diminuiscono, la necessità di un tessuto sociale forte. Che, appunto, in città come New York, Chicago, Los Angeles, manca totalmente.
Un società per cessare di essere “criminogena” ( o comunque per limitare i comportamenti devianti) deve puntare su valori come la libertà, l’amore, il disinteresse e l’onore. Certo, probabilmente, voliamo troppo alto. Ma è sempre meglio che basarsi soltanto sulla calcolata fisiologia della paura. E perciò volare basso, troppo basso.
Carlo Gambescia

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