giovedì 22 dicembre 2005

Profili/5
John Kenneth Galbraith






I giudizi sull'opera di John Kenneth Galbraith (1908) sono discordanti. Per gli economisti di area liberale (nel senso europeo del termine), e ovviamente per i liberisti più accesi, l'economista americano resta un pericoloso teorico dell'interventismo statale. Per gli economisti non ortodossi (socialisti, marxisti, ecologisti, comunitaristi e per i nuovi teorici della "decrescita") rimane invece un fautore dello "sviluppismo" economico. Infine per la scuola istituzionalista americana (che, grosso modo, è su posizioni politico-economiche socialdemocratiche) resta un maestro. Con una eccezione: i "nuovi istituzionalisti" (attenti all'uso degli strumenti matematici) ne criticano il "romanticismo economico", e l'approccio più storico che modellistico.
La verità, come sempre, è nel mezzo. Galbraith, famiglia di origine scozzese, ma nato in Canada, Ontario, prima giovane studioso di economia agricola, e poi professore di economia tout court a Harvard (1948-1975), ha sempre ritenuto lo Stato l' istituzione (se non proprio la sola) capace di difendere progresso sociale, giustizia e sviluppo, minacciati dalle forze più retrive ed egoiste del capitalismo, rappresentate dalle grandi imprese monopolistiche.
A Galbraith si deve quello che ancora oggi è il miglior libro sul capitalismo americano: American Capitalism (1952), dove descrive realisticamente i processi di concentrazione del potere economico nelle mani di ristretti gruppi di capitalisti e la conseguente e preziosa opera di bilanciamento politico di Stato e Sindacato.
In certo senso Galbraith, che poi tornerà sul tema in libri importanti come The Affluent Society (1958), The New Industrial State (1968), Economics and the Public Purpose (1973), The Nature of Mass Poverty (1980), reputa che il mercato da solo non basti: occorrono correttivi pubblici. Il suo "teorema" è il seguente: senza Stato, non c'è sviluppo, e senza sviluppo, non c'è capitalismo. O meglio, se lo Stato non svolge il suo ruolo (di indirizzo e controllo), lo sviluppo si orienta verso la produzione di beni privati a danno di quelli pubblici. Il numero dei ricchi cresce, ma quello dei poveri ancora di più: all'opulenza privata si affianca lo squallore pubblico. Da questo punto vista Galbraith è straordinariamente vicino, anche se non lo ha mai ammesso, alle tesi di Marx sulla pauperizzazione della società capitalistica. Con una differenza: Marx la credeva ineluttabile, Galbraith gestibile, se non proprio superabile, grazie all'opera redistributrice (attraverso la leva fiscale) dello Stato, e dunque, di un più equo sviluppo economico.
Galbraith pone comunque un problema. Quello della necessità di macrostrutture "politiche" in grado di opporsi alle macrostrutture "economiche" del capitalismo: i "movimenti sociali" sono importanti, ma da soli non bastano... Però non ne vede un altro, ancora più importante: quello dei limiti (soprattutto ecologici) dello sviluppo economico "infinito".
Le sue opere in Italia sono tradotte da Etas, Einaudi, Bollati Boringhieri, Mondadori, Rizzoli. Galbraith è un autore prolifico ha scritto decine di libri e collaborato con i più diversi giornali e riviste, dal "New York Times" a "Palyboy". Su di lui si veda l'importante lavoro di Richard Parker, J.K.G: His Life, His Politics, His Economics, Farrar, Straus and Giroux, New York 2005, pp. 820 (sales@fsgbooks.com).

Carlo Gambescia

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