sabato 17 dicembre 2005


 L' Iraq al voto
La democrazia 
parlamentare e i suoi amici




Il 70 per cento degli iracheni ha votato. La stampa ha trasformato il fatto in evento. Ovviamente per i giornali favorevoli alla politica di Bush l'alta affluenza alle urne comproverebbe il successo della strategia americana, per quelli contrari, solo stanchezza e voglia di "normalità" a ogni costo. Ma (ecco il dato interessante), per tutti i giornali l'alta percentuale di votanti rappresenta comunque un segno di adesione alla democrazia parlamentare di tipo occidentale.
Resta però incomprensibile, come si possa sostenere una tesi del genere, per un paese che non ha mai conosciuto la città-stato greca, il diritto privato romano, il cristianesimo, il libero comune, le carte dei diritti, e che ha scoperto lo stato-nazione, ma nella versione socialista-nazionale, solo con Saddam.
Certo i media hanno la vista corta e comunque interessi (pro o contro) da difendere, ma resta difficile spiegare l'acquiescenza pressoché totale, a una tesi del genere. A meno che non si riconosca il peso di una mentalità di tipo colonialistico, che continua a far vittime a destra come a sinistra.
La democrazia, e soprattutto quella parlamentare, è un prodotto storico dell'Occidente. E' frutto di una precisa tradizione storica e di una mentalità socioculturale che non ha eguali altrove. Ciò non significa che sia la migliore, ma che richiede precise condizioni storiche, culturali, sociali ed economiche. E soprattutto che non va mai "imposta" con le armi.
Pertanto sull'Iraq sarebbe meglio non farsi troppe illusioni, anche perché si tratta di una democrazia parlamentare introdotta dall'alto e sulla punta delle baionette. Non è il caso neppure di fare raffronti con la rivoluzione kemalista in Turchia, che tra l'altro sfociò in dittatura militare, frutto di una rivoluzione interna, e che comunque si rivolgeva e rappresentava interessi militari ed economici "nazionali" (gli alti quadri militari e i ceti economici emergenti). In Iraq l'esercito è stato completamente ricostituito, e "snazionalizzato", e dunque non può essere portatore di alcun interesse collettivo. Quanto alla borghesia irachena, saranno necessarie almeno due generazioni, perché possa riprendersi dallo shock di un conflitto disastroso (iniziato nel 1991). E in ogni caso, visto il peso che sta assumendo il capitale straniero in campo petrolifero, rischia di trasformarsi in borghesia "compradora" e parassita.
Quanto al popolo che avrebbe "votato in massa", si tratta di una reazione di sostegno passivo, ma sempre revocabile, al processo politico in corso. La popolazione è praticamente priva di tutto e vive la guerra civile in una condizione di paura. Di qui l'adesione passiva, non tanto ai principi delle democrazia parlamentare, quanto a una promessa di normalità.
Pertanto la stampa anti-Bush ha in parte ragione, ma sarà molto difficile trasformare, la paura in consenso ragionato, e il consenso ragionato nella scelta democratica del cittadino "equilibrato e informato", celebrato dalla politologia liberale. In primo luogo per le ragioni storiche di cui sopra, e in secondo luogo, perché se la guerra civile in atto dovesse inasprirsi, anche a causa di un eventuale conflitto Usa-Iran, il ritorno alla "normalità" diventerebbe impossibile.
Di più: le aspettative di "pace" tradite potrebbero trasformarsi in boomerang per le autorità politiche locali e i paesi occidentali che le appoggiano con le armi.
E il passo "indietro" dalla democrazia parlamentare al terrorismo generalizzato sarebbe brevissimo.

Carlo Gambescia

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