martedì 4 febbraio 2020

Ignazio La Russa e il saluto romano
Come si continua a  giocare  sull’equivoco


Ignazio La Russa è un vecchio militante del Movimento Sociale.  Negli Anni di Piombo, da  avvocato,  difese, “con dedizione i camerati finiti in prigione”, secondo la vulgata diffusa negli ambienti missini, probabilmente vera.  Da politico, assai abile, La Russa  ha fatto una buona carriera, rimproveratagli però dai duri e puri. La Russa,  sopravvivendo allo sbriciolamento di Alleanza Nazionale  e Forza Italia,  ora   è  con  Giorgia Meloni.  Di sicuro,  la consiglia  con  discrezione.  Se  si volesse definire La Russa con un aggettivo - a parte il “Digiamo” di Fiorello -   “prudente” resta  quello migliore, più vicino alla realtà.
Il nostro cappello  non è una captatio, più semplicemente  una piccola premessa  al fenomeno politico dell’ "integrazione passiva" (tradotto: “Liberal-democrazia sì ma con riserva mentale”). Una ambigua dinamica, conosciuta in letteratura, che avrebbe contraddistinto la  trasformazione del Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, quale  forza sistemica e di governo. La cui eredità, dopo il tracollo finiano, non casualmente avvicinato a Badoglio anche dai postaennini meno sospetti, è toccata  a Fratelli d’Italia. Perciò  parliamo di una forza presente e attiva che capta consensi crescenti su posizioni politiche, economiche e sociali  che lo stesso Almirante, pur gestendole in modo più elegante, oggi  sposerebbe senza grandi  problemi.    
Pertanto la battuta di  La Russa  che in un post  invitava gli italiani a fare il saluto fascista come profilassi contro il Coronavirus  non poteva passare inosservata, soprattutto a sinistra.  
Vi sono state critiche.  La Russa, ovviamente si è scusato, chiamando in causa un collaboratore, eccetera, eccetera.  L’uomo è prudente, come detto. I social meno, perché si sono subito divisi pro o contro, legittimando così, nel bene come nel male, lo  "spirito fascista" del post.   
Si  è trattato allora solo  di una battuta infelice?   

In realtà il post di La Russa  rivela che dal punto di vista dell’immaginario della destra postmissima e postaennina, anche ai piani bassi dell’umorismo da bar ( e da social), il richiamo del fascismo è sempre forte.  A prescindere.
Facciamo subito notare una cosa:   Come mai a  sinistra  - parliamo dei politici, dei parlamentari,  -  non è  venuto in mente a nessuno di fare la stessa battuta, invitando però a usare il pugno chiuso?  
Si dirà che la sinistra non ha il senso dell’autoironia, eccetera, eccetera.  Può darsi. Però qui il  vero problema riguarda  la  destra di ascendenza missina. E qual è?   Di non avere mai metabolizzato politicamente il fascismo. Cioè non di non avere mai  preso le distanze - attenzione -  dalla dittatura.  O meglio,  da un modo autoritario di definire le relazioni politiche tra stato e cittadino e tra cittadino e cittadino.  Non parliamo delle leggi razziali, dell’alleanza con Hitler,  della guerra (o comunque non solo), ma  dell’apprezzamento  della dittatura  come  essenza stessa della politica.  La svalutazione postmissina della democrazia  non è frutto di una concezione  liberale, bensì  di una visione autoritaria della politica. Certo,  sempre più spesso  li  si vede usare  la democrazia strumentalmente contro  "la bancocrazia", contro "i poteri forti",  contro "i nemici dell’Italia",    ma sempre in chiave populista. E in fondo per chiunque abbia letto i libri di Roberto Vivarelli sul rapporto tra populismo e fascismo questa "vocazione sociale" non è una novità.   
Quando i politologi parlano di integrazione passiva della destra  missina si riferiscono proprio  alla mancata introiezione dei valori liberal-democratici.  Il che spiega il  frequente ricorso  a un immaginario composto  di parole d’ordine, e anche battute, che rimandano al fascismo, direttamente, come nel caso del saluto romano, o indirettamente, come  a proposito  della roboante retorica sovranista. 

Di recente Giorgia Meloni,  che proviene dal mondo missino, vivendone gli ultimi fuochi, meno intensi ma sempre fuochi, sembra aver  sposato posizioni apparentemente defilate rispetto  a quelle  di Matteo Salvini per catturare il voto moderato. Riteniamo invece  sia puro marketing elettorale. Siamo purtroppo davanti all’ennesima operazione trasformista che rimanda al concetto di integrazione passiva. Quindi attenzione.
Tornando al saluto fascista,  sulle cui ragioni igieniche, ironizzò  già  Trilussa in un sonetto,  siamo davanti  a  una precisa forma di riconoscimento politico-identitario.   Che nel 1925  il fascismo introdusse, se  ricordiamo bene,  nelle amministrazioni civili, favorendone in seguito la diffusione all’esterno. Pertanto si tratta di qualcosa che rinvia inevitabilmente a un periodo infausto della storia d’Italia.
Che ovviamente, ecco il nodo, non può essere ritenuto tale   solo  da chi abbia una visione autoritaria della politica, in particolare antiliberale.  Mosca e  Croce,  inizialmente videro nel fascismo una momentanea reazione liberale. Mussolini stesso giocò sull’equivoco, per conquistare il potere. Dopo di che, in particolare in  seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti,   le strade si divisero.  Fu loro chiaro  che  il  liberalismo era  una cosa il fascismo un’altra.
Ecco, Meloni e La Russa  continuano tuttora a giocare sull’equivoco… 

Carlo Gambescia