venerdì 31 maggio 2019

Augusto Del Noce secondo Marcello   Veneziani
Barzellette a colazione



Oggi Veneziani  sulla “Verità”  scrive, tra le altre cose,  della necessità di  tornare al pensiero di Augusto Del Noce.  Inciso pettegolo:  da trentenne l’intellettuale di Bisceglie  riuscì  a strappare una prefazione a Del Noce,  pochi giorni prima che morisse, al suo libercolo intitolato Processo all’Occidente.  Roba  che tra i neofascisti  del tempo, affamati di considerazione nonostante il dichiarato  ribellismo romantico,   faceva curriculum.

In realtà,  Del Noce, morto il 30 dicembre 1989, filosofo stupidamente marginalizzato dai progressisti di vario orientamento, si ritrovò, come compagni di strada indesiderati piazzisti delle idee come  Veneziani.  Ben diverso invece fu il rapporto di Del Noce  con Giano Accame, di tipo paritario, senza alcuna ipoteca  utilitarista o leccarda, alla maniera di quelle vaschette per raccogliere il grasso delle appetitose carni cotte al forno...   
Del Noce, come notato da Gianfranco Lami e dallo stesso Accame,  era uomo psicologicamente fragile,  solo  testa (  e che testa...),  divenuto professore ordinario  quasi in età di pensione a causa di ostracismi accademici. A lui dobbiamo libri problematici, ricchi di sfumature, intuizioni, prospettive folgoranti.  A chiunque lo studi seriamente, una volta  giunto alla fine della  densa pagina delnociana,  ricchissima di citazioni, capita di interrogarsi  su  dove inizi il pensiero di un  autore citato e dove  cominci  quello di Del  Noce... 
E questo perché  il filosofo  reinventava  continuamente  l’altrui pensiero,  alla luce -  ecco  la differenza con il pensiero conservatore  e reazionario -  di un’antropologia filosofica aperta che condivideva l’idea cristiana di uguaglianza come punto di partenza della  visione liberale dell’uomo. Per inciso, e a proposito di assonanze  tra  cristianesimo e  liberalismo   si veda l'eccellente sintesi appena uscita  del filosofo politico spagnolo Dalmacio Negro, La tradición  de la libertad (Uníon Editorial - Centro Diego de Covarrubias, Madrid 2019), 
Il percorso delonociano  fu un viaggio al termine dell’Occidente, non una celebrazione del suo declino, come piace  tuttora propugnare  a certa destra, soprattutto neofascista. Se si dovesse dare una definizione cognitiva  del cammino intellettuale di Del  Noce, il termine giusto potrebbe essere  quello di individualismo  metodologico: un approccio lontanissimo dalle derive oliste del tradizionalismo paganeggiante alla Veneziani.  Società aperta contro società chiusa, per semplificare. 
Manca tuttora  un studio approfondito  del liberalismo delnociano, che, crediamo,  si riallacci  al liberalismo giobertiano,  tutto  rivolto, quest'ultimo,  a coniugare  individuo e nazione,  anteponendo alla nazione l'individuo  visto come persona alla luce del cristianesimo ugualitario. Il che vale per Gioberti come per Del Noce. 
Dunque parliamo di un’interpretazione della nazione  assolutamente opposta a quella del fascismo, che vedrà  nello stato-nazione,  complice il travisamento orbaceo  di Gioberti (ma anche di Mazzini) compiuto da Gentile,  un’ entità  che precede,  ingloba e sottomette  l’individuo. 

Quel che pseudo-interpreti come Veneziani fanno finta di dimenticare ( o proprio non sanno), è che Del Noce  estende la sua  dirompente  critica all’azionismo, come forma di costruttivismo (tesi che ci rinvia a Hayek  e molto  prima a Gioberti e  Rosmini),  agli eccessi ideologici non solo del  liberalismo, del marxismo ma anche del  fascismo.  In particolare Del Noce critica a fondo la pretesa azionista  di  costruire a tavolino, e se necessario con la forza, l’italiano nuovo. Un utopismo perfettista, giacobino, ignoto a Gioberti,  che giunge fino  a Gobetti, Mussolini e oltre.     
A detta di  Del Noce,  sotto questo profilo,  il  Risorgimento  tradisce se stesso quanto più ipostatizza e  naturalizza,  via stato,  l’idea di nazione, anteponendola a un uomo che invece  è immagine di dio. E dunque per questo  uguale ai suoi simili,  sia nelle comune origini segnate dal peccato originale,  sia  nell'opportunità,  tipica di un  liberalismo ante litteram,   racchiusa  nella tomistica  libertà di poter sempre scegliere tra il bene e il male.  Il tutto, senza alcun falso orgoglio pelagiano o prometeico. Ma in semplicità.  Di qui la  possibilità di un  riscatto interiore che rinvia a Dio e non alla Nazione. O peggio ancora a una nazione deificata.
Ovviamente, nel pensiero delnociano  sussiste  una critica radicale alle derive della tecnica, della politica, del relativismo, ma sempre in chiave di spiritualizzazione cristiana dell’uomo. E, attenzione, volontaria, ragionata e ragionevole. Mai imposta dall'alto, da uno stato onnisciente come Dio e ridotto a serbatoio della razza. 
Che poi, come spesso ripetono i neofascisti,  la visione della razza di Mussolini sia di tipo  spiritualista  non biologico  suona come  una  barzelletta che lasciamo volentieri ai cabarettisti. Come Veneziani, Che ora ci vuole proporre, per dirla tutta, addirittura un Del Noce sovranista.  Magari, vista l’ora,  per farsi quattro risate, a colazione...
 Carlo Gambescia     

giovedì 30 maggio 2019

La Piattaforma Rousseau e la  legge ferrea dell' oligarchia
Luigi  Di Maio verrà sfiduciato?
Non è questo il punto…




Ci sbilanciamo. La  Piattaforma Rousseau probabilmente confermerà Luigi  Di Maio. Tuttavia, anche se non  dovesse confermarlo,  dal punto di vista della scienza politica non cambierebbe nulla.  Quindi la sfiducia o meno  non rappresenta il vero punto della questione.  Per quale ragione?    Perché, anche nel caso del Movimento Cinque Stelle, nonostante la retorica ultrademocratica, la scienza politica ci dice che  siamo dinanzi  al classico schema della mozione degli affetti. Uno schema  retorico che rinvia  al  concetto di un' oligarchia che si chiude su se stessa, soprattutto nelle fasi di crisi, per difendersi meglio e poi contrattaccare, valorizzando il valore della fedeltà,  a prescindere dai momentanei insuccessi.    

Ne parlò Roberto Michels  più di cento  anni fa  in un’opera classica di scienza politica: La sociologia del partito politico (*), dove si provava, analizzandone le strutture, come in realtà il partito socialdemocratico, all’epoca  giudicato da tutti ultrademocratico,  si piegasse alla legge ferrea dell' oligarchia. Principio politico-organizzativo, che secondo Michels, dominava ( e domina),  al di là del bene e del male,  qualsiasi forma  politico-sociale: dal partito allo stato. Perché per le leggi dell'organizzazione sociale, se una società vuole conservarsi, soprattutto se ampia e complessa,  non possono che essere in pochi a comandare. Altrimenti, a prescindere dal regime politico, si finisce nel caos. Chi dice società dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia. Di qui, la legge ferrea, eccetera, eccetera.  Tesi sostenuta anche da altri  due giganti della scienza politica otto-novecentesca:  Mosca e Pareto.
Cosa abbiamo allora sulla tavola imbandita della politica di oggi?  Un partito, il Movimento Cinque Stelle, che persino nel  nome,  per civetteria democratica, non vuole però dichiararsi tale.  Un partito-antipartiti,  si dice,  che però  dopo una legnata  elettorale non può non  interrogarsi, come qualsiasi altro partito,  sulle capacità del proprio leader.  Il punto è che,  per ragioni politiche, sui cui contenuti è  inutile indagare, i reali leader del Movimento, Casaleggio jr e Grillo,  da quando si apprende, sembrano  essere  d’accordo  sul nome di Di Maio è sulla necessità  di far durare il governo. 
Su quest’ultimo punto si notino le rassicurazioni di Conte, già adeguatamente imbeccato,  al Presidente della Repubblica.  Scelta che  fa  il paio, con la mossa di Luigi Di Maio, evidentemente concordata con i vertici, di rimettersi,  “lui che  ha dedicato la sua vita al Movimento”  (ecco la mozione degli affetti), alla mitica Piattaforma Rousseau. Più  o meno a cinquantamila militanti, una pura minoranza, manovrabile dal mago digitale, Casaleggio jr,  a fronte dei milioni di elettori che domenica, liberamente,  hanno sfiduciato Di Maio.

Attenzione, da parte nostra non c’è alcun intento moralistico.  Tutti i partiti, come tutte le  forme di organizzazione politica, proprio perché tali,  si comportano inevitabilmente, soprattutto nelle situazioni di crisi, in termini di logica oligarchica. Ovviamente, secondo scale comportamentali, insite nel Dna ideologico delle diverse concezioni politiche. Culture differenti che però operano sempre in chiave auto-conservativa.  O comunque secondo ciò che i dirigenti ritengono utile alla conservazione del potere  del partito, conservazione che  inevitabilmente collima con il  mantenimento del loro potere. 
Coincidenza che spesso viene meno, oggettivamente parlando (dal punto di chi studia questi fenomeni). Il difetto di coincidenza spiega la natura ciclica del potere, i suoi alti e bassi insomma.  Perché  non sempre  le previsioni politiche  soggettive (di coloro che sono  studiati ) sono esatte.  Dal momento che tra ciò che la politica è,  e ciò che dovrebbe essere secondo le varie  ideologie politiche esiste un’enorme distanza. E non tutti,  tra gli attori politici, sono in grado  di comprendere e stabilire  fin dove ci si può spingere sul piano dei contenuti, dunque di coincidenza tra percezioni soggettive e realtà oggettiva. Ecco perché  chi studia la politica (chi studia gli attori...) deve prima concentrarsi sulla forma oligarchica dei fenomeni (la realtà oggettiva) ed eventualmente  dopo  sulle idee volte a giustificarla (la rappresentazione soggettiva della realtà).
Ora, per tornare in argomento, se un altissimo dirigente viene ritenuto utile, a torto o ragione, all’autoconservazione del potere interno ed esterno al partito,  dall’elite che governa il partito lo si conserva al potere. In  caso contrario lo si depone.

Evidentemente, Luigi Di Maio, per ragioni che qui non interessano, viene ancora ritenuto utile alla strategia politica del Movimento Cinque Stelle, che, probabilmente, visti i risultati di domenica, non è la strategia  gradita all’elettorato.    
Inutile però qui  discutere di strategie. Di contenuti. Quel che ci interessa provare è  come la legge ferrea dell’oligarchia -  autentica costante metapolitica -   continui a colpire, nonostante ogni retorica politica di tipo democratico.
Ci si può pure dichiarare ultrademocratici ed evocare il valore delle tecniche di espressione del voto più sofisticate, come fa il Movimento Cinque Stelle,  quando però si giunge al dunque, come nel caso Di Maio, non sono più  gli elettori che devono scegliere e  giudicare, come recita la retorica democratica, ma  il partito, e nel partito, le oligarchie che lo controllano. Altrimenti, le dimissioni di Luigi Di Maio sarebbero state immediate e irrevocabili.   Come dire? A furor di popolo (elettorale).
Attenzione però, come dicevamo all'inizio,   anche la  mancata  conferma non inficerebbe la legge michelsiana,  perché a decidere  è  comunque una  minoranza.   Il che ripetiamo è  un fatto di fisiologia politica:  non c’è nulla di male.  Se non il nasconderlo  dietro una retorica ultrademocratica che disorienta gli elettori  facilitando il lavoro dei demagoghi e dei nemici della democrazia.  Proprio come fa il Movimento Cinque Stelle.
Ma questa, almeno per oggi, è un’altra storia. 
Carlo Gambescia



(*) Roberto Michels, La sociologia del partito nella democrazia moderna (1911, 1° ed. in lingua tedesca),  Introduzione di Juan.J. Linz, Il Mulino, Bologna 1966.  Opera esaurita da anni,  che andrebbe ristampata.   Per una sintesi della teoria michelsiana  si veda il suo  Studi sulla democrazia  e sull'autorità. Qui:   https://www.edizioniilfoglio.com/copia-di-liberalismo-triste .                                                 

mercoledì 29 maggio 2019

La sconfitta del Movimento 5 Stelle
Nessuna illusione, l’Italia è populista più di prima 




Un tempo  l’esame dei flussi elettorali era materia esoterica. Oggi se ne parla perfino dal barbiere. E in modo, ovviamente, superficiale. Come?  Secondo la logica calcistica del famigerato  popolo italiano dei commissari tecnici.  Quel che è grave è che  gli stessi media tradizionali e i social (cosa già più scontata)  ne discutano altrettanto corrivamente. 

Sicché la valanga di  voti perduti da Cinque Stelle in favore della Lega e del Partito Democratico ha subito fatto parlare  della prossima  fine del movimento pentastellato. 
Il che, attenzione,   potrebbe essere vero.  Però, se fosse così  - ecco il punto che sfugge ai barbieri della politica  -  si tratterebbe di una semplice operazione di  giroconto elettorale. 
Un trasferimento di voti  da un conto corrente politico  a un altro, ma tutti e due  intestati alla stessa persona. Chi? Il Signor Populismo Italiano. Che sembra godere, nonostante la polvere di cinquestelle, ottima salute. Esageriamo? Basta aprire i giornali di oggi.  Salvini evoca una flat tax da trenta miliardi. Tradotto, per coloro che frequentano il barbiere sotto casa,   l’importo di  un’intera legge di  stabilità. Fantapolitica.  Populismo allo stato puro. E cosa più grave ancora, ciò accade, anzi scivola via  nel silenzio della  stampa responsabile, soprattutto a grande tiratura, che, pur conoscendo l'enormità di una stupidaggine del genere,  preferisce tacere. O comunque di  rimanere neutrale, accettando implicitamente  il nuovo politicamente corretto populista.          
I flussi elettorali,  per metterla sul tecnico,  sono forme di analisi quantitativa della politica, tra l'altro abbastanza di superficie, perché  non indugiano sugli aspetti qualitativi. Per farla breve:  ci dicono come si è votato in tempi diversi,  ma non sfiorano le ragioni profonde  delle differenze di voto. 
L'esame qualitativo  impone invece  analisi più raffinate. Occorrono questionari più articolati  e  riscontri stratificati sui giudizi politici e programmatici degli elettori,  prima e dopo il voto.  Serve più tempo, insomma.   Al momento perciò si possono fare solo ipotesi.   E qual è la nostra?  
Crediamo che  il  populismo sia  più vivo di prima, perché la fuga dal Movimento Cinque Stelle in direzione di Lega, che promette tutto a tutti,  e Partito democratico rikeynesizzato,  rappresenta un voto di protesta  verso le mancate  realizzazioni delle promesse  populiste sbandierate in particolare dai pentastellati.  Si tratterebbe dunque  di populismo al quadrato. Altro che il ritorno della ragione...

Un' ipotesi crediamo confermata dal pesante clima populista che continua ad animare il dibattito politico, al cui centro resta  Salvini: il mago di Oz del populismo italiano.  
Una tensione  che  infiammerà  ancora di più, cuori e cervelli nei prossimi messi, soprattutto  se si andrà alle elezioni. Avremo così modo  di assistere a una vera e propria radicalizzazione populista del quadro sistemico. E la riprova della nostra ipotesi  è data dalla sconfitta dell’unico partito chiaramente liberale ed europeista, +Europa. Gli italiani, ormai infatuati del nuovo "capo", di normalità liberal-democratica  non ne vogliono proprio sapere. Dispiace dirlo, ma è così. Almeno per ora.
L’analisi  dei  flussi  adombra  l'ipotesi  di un astensionismo  penalizzante  verso  Cinque Stelle. E sia pure.  Diciamo però che si tratta dell’astensionismo vendicativo di coloro che si aspettavano con l'acquolina in bocca di veder  giungere a casa,  "caldo caldo",  un  bel   Reddito di Cittadinanza per intero. Nullafacenti esigenti. Oppure si pensi  alla rabbia dei descamisados che sognavano l’immediata fuoriuscita dall’Unione Europea.   Insomma,  gli scontenti riuniti  del populismo soft  di  Luigi Di Maio. Ai quali piace invece il piglio da caudillo di Salvini.
Pertanto, se ci si  passa l’espressione, siamo caduti dalla padella nella brace. L’Italia lunedì si è svegliata più populista di prima.
Sarà dura.

Carlo Gambescia  
                                               

martedì 28 maggio 2019

 Rosari e navi
Le elezioni europee  e l’importanza di leggere Braudel (per non dare retta a Salvini) 




Partiamo da  un’osservazione banale, o quasi.  Su una rivista con pretese di nobilità, ricostruendone sommariamente  il profilo,  si definisce Fernand Braudel  (nella foto)  “poco conosciuto”.  Parliamo del  maggiore storico del Novecento,  il  reinventore della storiografia moderna.  
Un' affermazione che ci ha fatto sobbalzare sulla sedia,  perché Braudel dedicò la sua vita di studioso alla storia  dell’Europa.  Certo, da un punto di vista molto particolare: ad esempio,  del Mediterraneo, come struttura geo-economica  profonda. Di qui però la grande originalità  dell' approccio.   
Il suo capolavoro è una storia del Cinquecento dal punto di vista del Mediterraneo e non delle Monarchie.  Semplificando, per il lettore di oggi, una storia  dell' UE  dal punto di vista della  geo-economia europea.          
Sicché, definire un gigante come Braudel   “poco conosciuto” indica due cose:  la prima, scientifica,  che  chi scrive non sa di quel scrive, perché ne  parla  come di un eccentrico, e da sempre. La seconda,  politica,  che in questo modo,  si fa un favore ai nemici dell’unificazione europea,  (sempre che non  si parteggi per la causa avversa).      
Come si può dinanzi alla marea populista, frutto di autentico analfabetismo storico,  attribuire alla eccentricità di Braudel la colpa di essere poco conosciuto?   Come si può  pretendere di  sposare la causa europea, senza aver letto  una riga di Braudel?   
Il grande storico francese è invece tuttora conosciutissimo, ovviamente da  una cerchia  di specialisti.  Infatti,  storici  e sociologi  non possono fare a meno di confrontarsi con la sua struttura tripartita del tempo storico e con la ricchezza interpretativa  e documentaria  dei suoi lavori sul capitalismo e sul Mediterraneo.  Pertanto diciamo che è corretto asserire che Braudel  è  poco conosciuto da politici e giornalisti.  Dunque si tratta di un’altra questione.  Quella del rifiuto dello studio serio e della predilezione per le scorciatoie culturali.  Due fattori, che tra gli altri, hanno favorito, grazie all’indebolimento culturale delle élite, di certe élite facilone e superficiali, l’ascesa dell’analfabetismo populista.

Ad esempio, questa mattina  si discute, per dirla con Braudel, solo di storia événementiel (politica), del  tempo di superficie della storia: in parole povere, dei seggi conquistati dalle diversi forze politiche.  Ma  non si parla dell’importanza dell’unificazione europea.  Che, ecco il punto,  stando  al grande storico francese  risiede nelle  strutture  profonde, geo-economiche della storia  europea: segnate  dagli altri due tempi della storia,  quelli  della geografia e dell’economia.  
Riepilogando,  politica, economia, geografia: i tre tempi della storia, secondo un ordine di importanza crescente, dal primo al terzo. Il lettore prenda nota.   
Pertanto il vero problema   non  è  il rosario baciato in pubblico da Salvini (la storia événementiel) ma quell'equilibrio geo-economico, strutturale, profondo, dettato  dal  fisiologico andirivieni di  razze e  popoli nel Mediterraneo. Un fenomeno  dipinto invece dall’ignoranza populista, come  patologico, contrario  a una tradizione cristiana, di cui, in realtà, Lepanto, per venire all'età di Filippo II tratteggiata da Braudel, è  solo una parte, e politicamente  ridotta,  della storia europea.
Va ricordato che fin dall'inzio Braudel  venne accusato  di determinismo  geo-economico.  In realtà,  lo studioso  francese richiamava, indirettamente,   l’  attenzione  delle élite politiche  sui duri fatti della geografia e dell’economia. Egli documentava  un’Europa  da millenni geo-economicamente  unita, dall’Atlantico all’Adriatico,   ma legata,  attraverso le  lingue di terra culturali (gli  “istmi”,  teatro delle  capacità inventive europee),  a  tutti gli altri popoli:  dagli slavi a turchi e  cinesi, dai popoli d’Oltreceano fino a quelli del Pacifico.
In soldoni cosa  dice Braudel?  Che geografia e mercati hanno generato attraverso un gioco di azione e reazione una  mentalità aperta. Qualcosa  che resta  il più importante lascito storico della tradizione intellettuale europea come sistema aperto.  Si tratta, tra l’altro,  di un’idea, quella dei blocchi culturali, ripresa dalla cultura marxista, Wallerstein ad esempio,  in chiave però di riduttivo  conflitto di classe tra economie-mondo egemoni, buttandola quindi,  se ci si passa l’espressione,   “ in caciara” conflittualista.   Ma questa è un’altra storia. 
Peraltro si potrebbero dire cose interessanti anche sulla pelosa  attenzione che Huntington, sul versante conservatore,  riservò  a Braudel,  all’interno della sua tassonomia sui conflitti di civiltà, buttandola anche lui, se ci si perdona la seconda caduta di stile,  nella  “caciara” dei  conflitti   tra i popoli. Certo,  non tra le classi come in Wallerstein.  Però  se non è zuppa, eccetera, eccetera.  


Ora, pur non sopravvalutando il ruolo della cultura e della sociologia del conflitto,  fare politica, che è conflitto  sulla base di idee forti,  soprattutto se basate sui fatti,   senza aver letto Braudel significa arrendersi  senza combattere, all’ignoranza populista.  Gente, come Salvini, che bacia i rosari ma ignora le ragioni  profonde dell' unità europea, dettate  non da un pugno di cattivi,  ma dalla storia stessa, come insegna Braudel.  Perciò fondate sui sui fatti.   Qui il limite cognitivo  dello sbrigativo “poco conosciuto” al suo riguardo,  cui accennavamo all’inizio.  
Braudel spiega  sulla base di radici fattuali  profondi  che  l’unità europea è  un dato  strutturale. Se si vuole un destino geo-economico.  Certo, è storia di conflitti.  Ma soprattutto  di cooperazione, suggerita dalla sua stessa geografia ed economia.  Quindi  storia  di navi che libere veleggiano  e   non di porti chiusi. 
Ciò vuol dire che senza idee forti, e soprattutto senza la consapevolezza  - e sia pure... -   di un “determinismo” europeo,  la guerra  contro il populismo è perduta in partenza. Perché non è questione di seggi e rosari.  O comunque non solo.     

Carlo Gambescia                 

lunedì 27 maggio 2019

Elezioni europee 2019
Ha vinto il modello Orbán



Oggi,  anche se abbastanza  prevedibile, non  è una buona giornata politica per i veri europeisti e per i veri liberali.  Inutile girarci intorno  ha vinto il modello Orbán, e non solo in Ungheria dove il  partito populista dell’uomo forte ha superato il 50 per cento,  ma anche  in Francia  e in Italia.
Che cos’è il modello Orbán? Un mix di filo spinato, tolleranza zero, protezionismo e assistenzialismo.  Una specie di super-partito del paternalismo sociale con forti accenti razzisti e antisemiti.  Di liberale non c’è nulla, se  non  i  modesti sgravi fiscali  per il  ceto medio "piccolo piccolo"  che rappresenta il nerbo del  nazional-populismo ungherese. 


Salvini, Meloni,  Le Pen  e gli altri leader dei populisti europei   ripropongono tutti, più o meno, il modello politico, economico e sociale di   Orbán.  E di conseguenza,  come avviene nelle democrazie di massa dopo  le  elezioni, soprattutto a livello nazionale, anche le forze non populiste, pur di non perdere voti, saranno costrette a piegarsi ancora una volta  all' agenda populista.  Con conseguenze sul piano europeo, a prescindere dalla  futura composizione politica dell'Europarlamento e dalle sue alchimie provvisorie.  Purtroppo è cambiato il clima. Il modello  Orbán  implica che ogni nazione vada per la sua strada. Semplificando, al contratto si sostituisce la spada.  Politicamente parlando,  il Finis Europae è sempre più vicino.   
Del resto, chiunque abbia dato un’occhiata ai programmi  dei partiti socialisti, presunti liberali e verdi,  non potrà non aver notato lo stesso mix di assistenzialismo e protezionismo.  In realtà, a parte l’antirazzismo e l' europeismo declinato in modo differente (ma sempre riverniciando le idee populiste di buoni propositi democraticisti), le diversità tra il modello Orbán e il modello Sánchez  sono piuttosto ridotte.  Il minimo comune denominatore, che in realtà accomuna tutti i partiti, inclusi liberali e verdi,  è rappresentato da un costruttivismo di natura paternalistica, magari dalle  sfumature differenti,  ma paternalistico.  Insomma,  di autenticamente liberale, come netta separazione tra protezione e obbedienza,  non c'è nulla.   
Il Presidente Macron e la Signora  Merkel (quest’ultima, si dice,  prossima al ritiro) sono ciò che resta di un centrismo politico che si potrebbe definire liberale, ma che queste elezioni non hanno premiato. 
Quanto all’Italia, la vittoria di Salvini e della Meloni (che rosicchia altri  voti a Forza Italia, ormai in caduta libera),  indica che il modello Orbán, in caso di elezioni  politiche, soprattutto se a distanza ravvicinata,  potrebbe essere a portata di mano. Con oltre il 40 per cento dei voti, Lega e Fratelli d’Italia, grazie all’attuale sistema elettorale,  potrebbero riuscire a governare  insieme. 
Pertanto prepariamoci a mesi bollenti: Salvini, certo  di vincere eventuali elezioni anticipate,  renderà la vita di Luigi  Di Maio ancora più  difficile, tirando fuori il peggio delle idee e del linguaggio populista.
Di Maio, a sua volta,  timoroso di perdere altri voti,  non sarà da meno.  Anche se, altra osservazione, il ciclo politico pentastellato sembra volgere al termine per manifesto analfabetismo politico. Infatti, i voti in libera uscita, come provano queste europee, sembrano aver ritovato la strada di casa, quella di un Pd populista e antirazzista  al tempo stesso. Perciò, nonostante l’europeismo di maniera del Partito Democratico, si rischia la radicalizzazione populista tra i due contendenti: Salvini-Meloni, da una parte  e Zingaretti più i resti del Movimento Cinque Stelle, dall'altra.   Una specie di  bipolarismo selvaggio. A colpi di promesse economiche e politiche, difficilmente realizzabili.  Con debito pubblico alle stelle e titoli in picchiata. Uno scenario politicamente sfavorevole  sul quale i  mercati, per ora in attesa, non potranno non dire la loro. Infierendo.
Piaccia o meno, l’Europa oggi  si è svegliata  più populista di ieri.  A destra come a sinistra.  Pertanto celebrare, in perfetto allineamento  con  l’autolesionismo democratico, la maggiore affluenza alle urne, significa  aver perso di vista il nocciolo della questione. Che le democrazie, di massa o meno,  senza un centro liberale, forte e sicuro dei propri valori (libertà, responsabilità,  legalità e pubblicità), vanno più dritte di un treno verso la radicalizzazione. E con il consenso degli elettori. Da Napoleone III a Hitler, da Mussolini a Salvini. E dimenticavamo, da Horthy a  Orbán.   


Carlo Gambescia                                    

venerdì 24 maggio 2019

Da Tambroni a  Salvini e oltre...
Genova "per loro"


I lettori non si facciano imbrogliare  dai piagnistei  di Salvini, vero istrione politico, sempre pronto a dipingersi come la vittima designata del politicamente corretto.  Il clima politico, soprattutto nei ranghi della polizia, che dipende dal Giostraio Mancato,  è  cambiato. In Italia  nonostante l’ottimismo di alcuni inveterati seguaci di Marx  si rischia  una autentica svolta verso l' estrema destra,  soprattutto in caso di caduta dell’attuale governo giallo-verde. Al peggio non c'è mai fine. Purtroppo.   
Parliamo di una svolta che, soprattutto se Salvini e alleati dovessero ulteriormente indebolire economicamente e politicamente l’Italia,  rischia  di favorire l’ascesa dei duri e puri del  neofascismo. Ai quali inevitabilmente si rivolgerebbero elettori corrotti da almeno due  decenni di propaganda populista:  stanchi, si dice,   dei “riti” liberal-democratici.  Dunque  anche a prezzo di perdere la libertà. 
Esageriamo? Genova, parafrasando una famosa canzone, ora sembra essere  "per loro",  per le nuove destre populiste e soprattutto  post-populiste: quelle dei nuovi lupi mannari  antiumanitari.  Gli incidenti di ieri hanno valore simbolico, proprio in relazione al cambiamento di clima politico.   Ma procediamo con ordine. 
Nel  luglio del  1960  Genova,  città  Medaglia d’Oro della Resistenza, insorse collettivamente per impedire un congresso del Movimento Sociale, vissuto come sfida anche dal partito neofascista,  desideroso all’epoca di appoggiare il governo cattolico-populista di  Fernando Tambroni:  il Presidente del Consiglio famoso per   i tagli  ai  prezzi della benzina e dello zucchero.  I voti missini, graditi a Tambroni, avrebbero perciò spostato a destra, l’asse politico. E secondo la sinistra, pericolosamente.

L’esperimento fallì. Perché il clima politico e sociale era ancora saldamente antifascista e la sinistra fortissima nelle piazze e nel paese. Non si ribellò solo Genova, insomma.  Nulla a che vedere, tra l'altro, con gli incidenti del 2001, in occasione del G8, che non incendiarono altre regioni  come nel 1960.  
Ieri invece la polizia ha avuto facile gioco nel contenere i pochi estremisti  che  volevano  impedire il comizio di  CasaPound. E cosa, ancora più indicativa,  Genova, per non dire dell'Italia,   è rimasta  a guardare, indifferente.  Il clima è cambiato.  Oggi i giornali,  “Repubblica” a parte (perché ha avuto un cronista manganellato), hanno relegato la notizia nelle pagine interne.

Secondo Giano Accame, scrittore e storico dell’Italia repubblicana, a Genova nel 1960,  impedendo il congresso del Movimento Sociale,  si facilitò la nascita del Centrosinistra, nonché si impedì  - ipotesi confermata anche dal professor Giuseppe Parlato -  l’evoluzione del Movimento Sociale  verso  la sponda della  destra democratica.

Non neghiamo la fondatezza  dell’ipotesi storiografica  L’antifascismo, soprattutto quello comunista, all’epoca  era usato astutamente  dal partito di Togliatti, con il benestare della cultura azionista, per mettere fuori gioco tutte le forze politiche anticomuniste sulla base dell’equazione antifascismo uguale fascismo.  
A un patto però:  di non estendere in modo semplicistico l'ipotesi al comizio  di CasaPound. Asserendo che  manganelli e lacrimogeni favoriscono l' evoluzione di CasaPound  verso la destra liberal-democratica. Insomma, che sono a fin di bene...
A tale proposito,  ci  sembra già  di sentire l'eco delle omeriche risate dei fascisti del Terzo Millennio, risuonare tra le "granitiche" pareti del palazzone romano di Via Napoleone III,  occupato da  CasaPound.     
E che dire infine degli italiani? Nel lungo intervallo da Tambroni a Salvini,  vista l’ indifferenza genovese, se tanto ci dà tanto,  troppa acqua  sembra essere passata sotto i  ponti:  ponti crollati, ponti  ancora in piedi, ponti che costruirà il prossimo Uomo della Provvidenza. Che probabilmente  non sarà Salvini.  

Carlo Gambescia       
                                            

giovedì 23 maggio 2019

Radio3 Mondo
La stampa estera 
secondo la sinistra



Ieri dicevamo dello stato di diritto secondo la  sinistra: un fritto misto di Hobbes, Marx e Lenin.Oggi invece consigliamo a  chi voglia scoprire, in pillole, la visione della politica internazionale della sinistra nostrana, giornalistica e non, l’ascolto della rassegna stampa estera di Radio3 Mondo.  
Per capirsi:  prendete a caso un giornalista, ignorantello, qualche rudimento di lingue straniere,  con la zucca vuota ma  piena di socialismo,  pacifismo,   ecologismo,  e mettetelo a commentare la stampa estera. Che ne verrà fuori? Un fritto misto di Greta, Mandela, Papa Francesco.  Una specie di antologia della stampa liberal-socialista mondiale.  Dunque  un programma  radiofonico  a senso unico.   Il filtro è quello progressista. Con un pizzico di wiki-complottiosmo.  
Da chi può essere seguito?  Da altre  zucche vuote o faziose.  Gente che purtroppo si merita Salvini e Trump, perché ne sono l’Alter Ego Cretinizzato.  
Coloro che invece soffrono  sul serio sono i veri liberali e  chiunque desideri  informarsi seriamente. E correttamente,
Sarebbe interessante fare censimento delle fonti  degli articoli  commentati. Tornano sempre gli stessi giornali progressisti, o comunque di centrosinistra,  Guardian e Independent,  Libération  e  Le Monde,  El  Pais e  La Vanguardia,   Die Süddeutsche Zeitung e  Die Tageszeitung,  The New  York Times e Washington Post…   Mentre per Israele viene privilegiata  la versione inglese di Haaretz, dal momento che   The Jerusalem Post si è spostato, e da un pezzo, a destra.  Infine, la stampa interna  di paesi poco o punto democratici, come Russia, Cina, Cuba, viene valorizzata  quando parla male dell’Occidente. Altrimenti silenzio. Per  l'America Latina si privilegiano le cosiddetti voci   antimperialiste. Bolsonaro è nel mirino e Guaidò non convince.   Stesso discorso infine  per riviste e agenzie: The New Yorker è l'antico testamento, Al Jazeera English il nuovo. Ma sempre di libri sacri si tratta.
Per capirsi,  è come se la politica mondiale fosse vista esclusivamente attraverso le lenti di Repubblica, Espresso e  Manifesto.  Alla faccia dell’obiettività. 
Comunque sia,  chi  voglia cominciare male la giornata può sintonizzarsi ogni mattina, ore 6.50.   
Carlo Gambescia

           

mercoledì 22 maggio 2019

Un articolo di Ida Dominijanni
Lo stato di diritto secondo la sinistra



Sarebbe bello nutrire sulla situazione politica italiana  lo stesso ottimismo di Ida Dominjanni.   Beata lei.  Come fa ?  Pagando un prezzo che proprio liberale non è.  Perché   mette  insieme “stato di diritto”  e “pratiche di lotta” (*) .  Cioè il dritto  e il rovescio.  Sicché può  tornare a  guardare  al futuro con fiducia. Quasi come  Lenin  a Zurigo quando seppe che in Russia era iniziato il countdown per lo Zar.

Un esempio del Dominjanni-Pensiero?  La magistratura è indipendente, e dunque parte integrante dello stato di diritto, quando indaga Salvini, non lo è più quando indaga Mimmo Lucano.  Insomma, il famoso giudice a Berlino  va e viene  sulla scorta delle circostanze politiche, anzi ideologiche.  E qui, dal diritto, anzi dal dritto, si passa al rovescio: alle “pratiche di lotta”.  Ma esattamente cosa  intende,  Ida Dominjianni, con questo termine. Leggiamo.

Sono bastate due settimane di mobilitazione autorganizzata perché ciascuno di questi assunti andasse in frantumi. Riavvolgiamo il nastro dei luoghi e dei fatti: a Casal Bruciato il “popolo delle periferie” che si voleva compattamente sollevato contro una famiglia rom si è rivelato in larghissima parte solidale con quella famiglia e ostile a chi voleva cacciarla. A Catanzaro, dove è partita la “balconite” che ha poi contagiato tutta l’Italia, il “popolo del sud” ha dimostrato che non ci sarà nessuna annessione trionfale del Mezzogiorno al sovranismo nazional-secessionista della Lega. Alla Sapienza di Roma, e grazie alla mobilitazione degli studenti perfettamente orchestrata, l’incontro tra Mimmo Lucano e l’intera istituzione universitaria ha dimostrato che il rapporto tra “popolo” ed “élite” può assumere la forma di una salda alleanza politica e valoriale contro la barbarie di ritorno, e non quella della rivolta degli umori “di pancia” contro l’ipocrisia del “politicamente corretto” che ci è stata contrabbandata per mesi. E un messaggio analogo viene dalla mobilitazione in corso contro l’inaudita e inaccettabile sospensione dall’insegnamento di Rosa Maria Dell’Aria.

Classici mitemi conflittualistici di una sinistra immobile.   Ferma, come si dice, nel guado, a metà strada tra la disobbedienza civile, teorizzata da Toreau ( e fin qui…),  e l’auto-organizzazione propugnata  da Sorel (e qui non ci siamo…).  Il tutto però  mescolato al  messianesimo di derivazione marxiana e marxista,  con  uno  tocco  di leninismo, come vedremo. Che, non guasta mai, perché  aiuta a confidare nel colpo gobbo storico-politico.
Tradotto: puro romanticismo politico, nella migliore delle ipotesi; incunaboli di  guerra civile nella peggiore. Un pastiche ideologico che con lo stato di diritto e la tradizione liberale continentale che si fonda sulla legalità non c’entra nulla.  Forse Toreau  (a piccole dosi). Ma   Marx e  Sorel   con Kant e Humbold c’entrano  come i cavoli a merenda… Per non parlare  della tradizione delle "grandi costruzioni scientifiche", ben descritta dal De Ruggiero, dei Mohl, Gerber, Gneist, Jellineck, eccetera.  Ida  Dominjianni, dello stato diritto liberale ha un’idea contigua a quella di coloro  che dichiara di combattere. Ascoltiamola.
 Il populismo è figlio diretto di quel neoliberismo che è stato e purtroppo rimane la religione indiscussa della costruzione europea, e della distruzione sistematica che esso ha innescato sull’intelaiatura delle democrazie costituzionali. Il sovranismo è la risposta reazionaria all’incompiutezza della Ue, al suo deficit di legittimità democratica, alla sua incapacità di dare soluzioni efficaci a problemi epocali come quelli delle disuguaglianze, delle migrazioni, della precarizzazione sociale.
Sono tesi condivise  non solo dai movimenti populisti, ma da quelli neofascisti. La differenza tra Ida  Dominijanni e Forza Nuova   è nel culto messianico e salvifico delle  migrazioni. Per  i fascisti sono  invasori, per  i nostalgici di Marx,  esercito rivoluzionario di riserva.  Sul resto,  la ricetta per l'Italia è stessa: assistenzialismo, ossia, protezione contro obbedienza. Si tratta, ridotta all’osso,   dell’ opposizione ideale tra  Hobbes e  Locke, tra stato leviatano e stato liberale. Altro che stato di diritto…

Infine, non va dimenticato il tocco leninista. Che si avverte quando Ida Dominijanni, a proposito della mobilitazione studentesca “perfettamente orchestrata” in occasione dell’incontro alla Sapienza  con Mimmo Lucano, sottolinea  che  il   “rapporto tra ‘popolo’ ed ‘élite’ può assumere la forma di una salda alleanza politica e valoriale contro la barbarie di ritorno”.
D'accordissimo sulla "barbarie di ritorno". Ma l’uso dell’aria compressa rivoluzionaria, insomma della "barbarie" che si gonfia o sgonfia alla bisogna,  rimanda direttamente a Lenin, che voleva impiccare i borghesi russi con la corda dello stato diritto. 
Concludendo, tra  neofascisti e populisti a destra, che di liberale non hanno nulla,  e pseudo-difensori dello stato di diritto come Ida  Dominijanni a sinistra,  c’è poco da essere allegri.   

Carlo Gambescia            

martedì 21 maggio 2019

Riflessioni
La Cina è vicina



Oggi  la Cina è  un groviglio di contraddizioni. Qualcosa che ricorda l’Inghilterra del Seicento e la Francia  del  Settecento:  due società in attesa delle rivoluzione liberal-democratiche,  ma in piena espansione economica  con una borghesia scalpitante.  Di qui, i conflitti interni  tra  poteri nascenti e morenti.
Probabilmente il raffronto storico può sembrare azzardato, dal momento che non poche sono le differenze storiche e culturali tra lo sviluppo della Cina e quello dell’Inghilterra e della Francia. Tuttavia esiste un elemento comune: quello della necessità di una  progressiva apertura dei mercati, dovuta a surplus produttivi, necessità  che segnò lo sviluppo  europeo  e che sta distinguendo quello cinese.  

Insomma, piaccia o meno, ma  i mercati aperti sono il  principale  motore delle  trasformazioni culturali. Diciamo il veicolo.  Si pensi  al fenomeno dello schiavismo: la risposta culturale che portò all’abolizione della tratta fu interna alla cultura liberal-democratica, frutto della  comunione di idee,  tra uomini di nazioni e culture diverse, entrati pacificamente in contatto grazie alla progressiva apertura di un  mercato mondiale. 
Una dottrina sociale che, pur tra alti  bassi ideologici, aveva dominato per migliaia di anni  fu sbaragliata, ideologicamente sbaragliata, da quel moltiplicatore rappresentato dalla crescita dello scambio intellettuale,  facilitato dallo sviluppo delle relazioni economiche, grazie a un processo di azione e reazione  e di interdipendenza  tra idee e affari, capace di inverare stoicismo e cristianesimo. Ovviamente, con contraddizioni, frenate, passi indietro, che possiamo osservare ancora oggi. Si pensi all’atteggiamento razzista nei riguardi del fenomeni migratori. Però l’ internazionale del commercio culturale, se ci si passa la definizione, ha finora avuto la meglio, apportando vantaggi per tutti. 
Cosa vogliamo dire? Che la Cina è vicina.  E che non si può  escludere che  il gigante asiatico  grazie all’apertura dei commercio mondiale, pur tra le contraddizioni, si  “liberal-democratizzi”.
Ovviamente sono processi  storici  lunghi, che richiedono secoli:  l'Inghilterra  di Carlo I e Giacomo  I, come la Francia di Luigi XIV, non erano rispettivamente come l'Inghilterra  della Regina Vittoria  e la Francia della Terza Repubblica. 
Di conseguenza,  protestare contro le politiche restrittive  dei diritti civili di Xi -  cosa comunque meritoria  -   dovrebbe però  far riflettere sul fatto che le politiche di Luigi XIV e di Carlo I non erano molto differenti.  Quindi, ripetiamo, la Cina è vicina. 

Alcuni osservatori insistono  in particolare sul peso  degli interessi geopolitici,  dipingendo la Cina come un potenziale nemico  dell’economia euro-occidentale. Un tempo,  si diceva la stessa cosa dell'Inghilterra "dominatrice dei mari".   Eppure, grazie alle navi britanniche, il mondo, tutto il mondo, è cambiato in meglio. Comunque sia,  per affrontare gli esclusivismi economici esistono  istituzioni mondiali, commerciali ed economiche, oggi però messe in discussione dai nostalgici  del protezionismo. Che invece sognano di poter fare da soli, di stringere o denunciare trattati bilaterali, in nome dell'avventurismo politico. Alle maestose architetture multilaterali il protezionista preferisce il graffito bilaterale.
Sotto il profilo del multilateralismo andrebbe ristudiato attentamente un periodo di fortissimo sviluppo dell’economia mondiale come quello tra il 1815 e il 1914. Dove l’apertura mondiale dei mercati toccò il culmine. Quando oggi si parla di globalizzazione si dovrebbe riandare con la mente all’Ottocento,  che rappresenta veramente il secolo della  trasformazione epocale dell'Occidente.  
Parliamo di una gigantesca mutazione economica e culturale che però  fu  rimessa in discussione, nei suoi principi di libero commercio di uomini, idee, cose,  nel Novecento, che a parte alcune parentesi nella sua seconda metà,  può rivendicare il triste record del secolo dei nazionalismi. I populismi e i sovranismi di oggi  ne sono l'ultima incarnazione. Nulla di nuovo sotto il sole, purtroppo.
Ciò per contro significa che lo straordinario sviluppo della Cina può rappresentare, pur tra le contraddizioni, una sfida e un’opportunità a livello di effetti inintenzionali delle azioni sociali, come fu per la  Gran Bretagna e la Francia.  Ovviamente sempre in chiave multilaterale non bilaterale.  

Detto altrimenti,  la Cina, grazie alle aperture economiche e culturali,  può “liberal-democratizzarsi” suo malgrado. E, per contro, le economie euro-occidentali, possono ulteriormente crescere, rispondendo alla sfida economica cinese.  Nell’economia internazionale  aperta, vincitori, vinti e latecomers sono sempre andati  a collocarsi a un livello superiore al precedente.   E qui si pensi agli straordinari progressi di   Italia  e  Germania  all'inizio e nella seconda metà del Novecento.  Tesi del resto  comprovata  dallo sviluppo delle altre  economie oggi emergenti in Asia e perfino in Africa.  Insomma, tutto il sistema, se pur a livelli diversi, ha dato prova  di crescere, salendo di un gradino,  spesso più di uno,  sulla scala del progresso economico e culturale. 
Si dirà che il nostro è un atto di fede nella libertà di commercio e nei suoi effetti benefici. E sia. Una cosa però  è certa: le guerre commerciali  favoriscono  l'odio tra i popoli. E preparano le guerre vere.  

Carlo Gambescia                     

lunedì 20 maggio 2019

La guerra del rosario
Antonio Ferrer e  Matteo Salvini


Ma la nostra  non era  una società secolarizzata? Dove rosari e preghiere sono optional per il tempo libero?  Sappiamo già  cosa ci si potrebbe rispondere.  Che l’ “uso politico” della religione, e dunque del rosario, alla Salvini per intendersi, è invece  il   frutto avvelenato  di una società secolarizzata, dove purtroppo  la religione  - in particolare la pratica -   non è che una continuazione del marketing con altri mezzi.  Quelli della  pubblicità.  Pubblipolitica, insomma.    
Il Cancelliere Antonio Ferrer in un' edizione illustrata dei Promessi Sposi

Perfetto. Di conseguenza, allora, le Crociate furono il prodotto di  una gigantesca campagna pubblicitaria  di un Berlusconi dell'epoca, ma in vesti sacre:  un certo Urbano II…
Lo stesso discorso potrebbe valere anche  per le guerre religione, perfino quelle interne al mondo protestante, tra rivoluzionari e conservatori, come insegna la Prima Rivoluzione inglese. Nonché per i contrivoluzionari all'opera nelle infiammate  campagne  italiane e   vandeane.  E che dire dei crocifissi e in particolare dei  rosari avvolti intorno alla baionette franchiste  durante la guerra civile spagnola? Tutta pubblipolitica?  Anche in società non secolarizzate?  I conti non tornano.  
Carl Schmitt   ha sostenuto  che nonostante i moderni  dichiarassero il contrario, la politica, perfino nei parlamenti, è  una prosecuzione della teologia con altri mezzi.  Sia sotto il punto vista della regolare trasformazione del nemico in apostata, sia sotto quello dell’uso simbolico  del messaggio cristiano: veicolo di conservazione per gli uni, di progresso per gli altri. Insomma, di  teologie politiche in conflitto,  clericale e anticlericale.    E guai a  vellicarle.
Iconografia controrivoluzionaria  settecentesca

Schmitt non era un amico del liberalismo. Però, vivendo nell' epoca dei totalitarismi, intuì, come il liberale Benedetto Croce, che l’uomo non è ciò che mangia, ma ciò in cui crede, spesso in modo irrazionale.  Di qui, a suo dire,  il  rischioso ricorso alle ideologie salvifiche, di cui il populismo e solo l'ultima  incarnazione.  E cosa ancora più grave, l' uso improprio di tutta una segnaletica (la parola non è scelta a caso) simbolica. 
Se ci si perdona la metafora blasfema per un cattolico,  il rosario è come un semaforo che può indicare alle folle il rosso, il verde, il giallo… Dipende sempre e solo  dal detentore: il papa,  un dittatore,  un cattolico liberale,  una vedova ottantenne,  un anarchico, un arruffapopoli, eccetera, eccetera. 
Cosa vogliamo dire? Che, come la nitroglicerina, stando almeno alla lezione di Schmitt, il rosario andrebbe maneggiato con cura. Come insegnano sociologia e buon senso politico, le folle, secolarizzate o meno,  non vanno mai eccitate, in un senso come nell'altro. Proprio per evitare, ripetiamo, lo sviluppo di un meccanismo a spirale, capace  solo di moltiplicare  l'odio tra le opposte "teologie" clericale e anticlericale. Cosa, tra l'altro, da noi già  sottolineata nell' articolo a proposito dell'irrituale blitz populista  del cardinale Robin Hood (*). 
Manzoni, da buon cattolico liberale, immortalò l’astuto realismo politico di Antonio Ferrer, Gran Cancelliere (e personaggio storico),  che  si guardò bene dallo sfidare le folle milanesi inferocite dalla fame: “ Pedro, adelante con juicio”. 
Cosa insegna Manzoni?  Dal momento che la gente tende ciclicamente  a vedere  il mondo in bianco e nero,  diviso tra buoni e cattivi, dunque in chiave di conflitto teologico tra bene e male, il politico deve essere prudente.  Mai enfatizzare.
A prescindere dalle finalità, un buon politico non deve mai mettersi nella condizione di spargere inutilmente sangue.  Insomma,  come giustamente scrive Manzoni a proposito del Ferrer, “si può spendere  bene, una popolarità male acquistata”.
L’esatto contrario di quel che fa Salvini, che spende male una popolarità  male acquistata.