martedì 17 aprile 2012




Morte di un calciatore



La morte in campo del calciatore Piermario Morosini, di appena venticinque anni, dal punto di vista delle reazioni, è uno specchio perfetto. Di cosa? Della nostra "società del benessere": un universo di uomini e donne connotato da un "attaccamento" alla vita che non ha precedenti. Ci spieghiamo meglio: nessuna società storica del passato si era mai occupata del benessere del singolo, in termini di diritti, assicurazioni e medicina sociali, come la presente. E con l’unico scopo di allungare la durata della vita media, per usare un vocabolo caro agli studiosi di statistica.
Non solo vivere più a lungo. Ma anche prolungare, finché possibile, la giovinezza: quell’età della vita in cui si è proverbialmente al meglio delle condizioni fisiche. E con tutti i mezzi, anche della chirurgia estetica, e spesso con quei risultati penosi e ridicoli che sono sotto gli occhi di tutti
Perciò quando muore un giovane atleta, per giunta un calciatore (lo sport più seguito in Italia), l’impatto sociale è massimo: titoloni di apertura, dibattiti, analisi… Non doveva morire, i medici dovevano sapere, eccetera. I clamori mediatici intorno a Morosini dureranno qualche giorno. Ma di certo non a lungo, perché la nostra società è costruita su valori, come dire, vitalistici. Si vive come se non si dovesse morire mai. Di qui, quella volontà sociale diffusa, tesa a rimuovere, costantemente, l’idea stessa della morte. E in particolare della sua “naturalità”: si nasce, si vive, eccetera. Certo Piermario era troppo giovane… Ma come insegnano gli antichi, muore giovane colui che gli dei amano.



Carlo Gambescia

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