Morte di
un calciatore
La morte in campo del calciatore Piermario Morosini, di appena venticinque
anni, dal punto di vista delle reazioni, è uno specchio perfetto. Di cosa?
Della nostra "società del benessere": un universo di uomini e donne
connotato da un "attaccamento" alla vita che non ha precedenti. Ci
spieghiamo meglio: nessuna società storica del passato si era mai occupata del
benessere del singolo, in termini di diritti, assicurazioni e medicina sociali,
come la presente. E con l’unico scopo di allungare la durata della vita media,
per usare un vocabolo caro agli studiosi di statistica.
Non solo vivere più a lungo. Ma anche prolungare, finché possibile, la
giovinezza: quell’età della vita in cui si è proverbialmente al meglio delle
condizioni fisiche. E con tutti i mezzi, anche della chirurgia estetica, e
spesso con quei risultati penosi e ridicoli che sono sotto gli occhi di tutti
Perciò quando muore un giovane atleta, per giunta un calciatore (lo sport più
seguito in Italia), l’impatto sociale è massimo: titoloni di apertura, dibattiti,
analisi… Non doveva morire, i medici dovevano sapere, eccetera. I clamori
mediatici intorno a Morosini dureranno qualche giorno. Ma di certo non a lungo,
perché la nostra società è costruita su valori, come dire, vitalistici. Si vive
come se non si dovesse morire mai. Di qui, quella volontà sociale diffusa, tesa
a rimuovere, costantemente, l’idea stessa della morte. E in particolare della
sua “naturalità”: si nasce, si vive, eccetera. Certo Piermario era troppo
giovane… Ma come insegnano gli antichi, muore giovane colui che gli dei amano.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento