giovedì 5 aprile 2012


Il libro della settimana: Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis, Tea Party. La rivolta populista e la destra americana, I libri di Reset, Marsilio 2012, pp. 160, euro 12,00.

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Negli Stati Uniti, ma non solo, il termine populismo ha un significato negativo, spesso teratologico. Si veda per tutti, ad vocem, l'accreditato Urban Dictionary ( http://www.urbandictionary.com/define.php?term=populism ). Eppure, il richiamo al popolo sovrano è parte integrante di tutte le costituzioni moderne, compresa quella americana. Per stabilire una distinzione, diciamo che per il liberal il popolo è chiamato a decidere (scegliere) chi dovrà decidere (di qui, la democrazia rappresentativa), per il populist è il popolo stesso che deve decidere (di qui, la democrazia diretta). Ovviamente, parliamo di differenze, come dire, filosofiche, di massima. Tuttavia, al populismo americano, come evidenziano le tuttora citatissime ricerche di Richard Hofstadter, si rimprovera uno stile politico patologico, una specie di peccato originale: niente mediazioni, niente tolleranza, niente raffinatezze culturali. Il populista sarebbe un uomo-contro che scorge continuamente complotti e nemici, in particolare a Washington e nei consigli di amministrazione delle grandi società per azioni. Insomma, un isolazionista, un razzista e, culturalmente parlando, un becero.
Siamo davanti a una caricatura? In effetti, Hofstadter, da buon avversario del romanticismo politico, non ha mai apprezzato gli estremismi politici ( o quelli che per lui erano tali). Di qui la sua voglia di intingere la penna nell'inchiostro del ridicolo. Per contro, studiosi, meno politicamente corretti, come ad esempio Paul Piccone, hanno presentato il populismo, partendo dagli studi di Lasch e di altri storici, sotto una luce diversa: non come malattia infettiva e contagiosa, ma quale movimento politico giustamente attento alla questione dell’autogoverno locale e della democrazia diretta. Secondo Piccone, il populista, pur essendo nemico di Washington e Wall Street, resta un uomo-per la democrazia, che vuole difendere dai suoi nemici: i burocrati federali e gli affaristi delle grandi corporations .
Ovviamente, abbiamo semplificato, sorvolando sulle sfumature storiche che hanno contraddistinto il populismo americano dall' Ottocento ad oggi. E per una semplice ragione. La dicotomia interpretativa, sulla quale ci siamo dilungati (forse troppo), permette di collocare, magari all'ingrosso, Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis, autori di Tea Party. La rivolta populista e la destra americana ( I libri di Reset- Marsilio), tra i seguaci di Hofstadter e dell'approccio teratologico. Il che non significa che il libro non sia degno di lettura. Tra l'altro, di Borgognone, studioso di storia americana, ricordiamo un ottimo volume su Burnham. Tuttavia, il lettore simpatizzante dei tea partiers, come dire, non gioca in casa. E quindi rischia di non trovarsi a suo agio. Piccola citazione, per chiarire lo Zeitgeist del libro: «Nella nuova versione del populismo statunitense rappresentata dal Tea Party, in ultima analisi, la questione centrale era il rifiuto del sistema economico e politico vigente. Il fattore chiave che determinava questa situazione era la percezione che le grandi istituzioni, tanto quella governative quanto quelle private, si fossero oramai rivelate fallimentari nel tentativo di affrontare le nuove sfide, che fosse peraltro in corso una fase di declino dell’egemonia economica americana a livello internazionale e che fosse ancora più in declino la posizione del cittadino comune statunitense di fronte al governo del proprio paese.». I Padri Fondatori, continuano Borgognone e Mazzonis, tentando di calarsi, certo da par loro, nella mentalità dei tea partiers, « avevano insegnato che ogni forma di oligarchia politica ed economica era contraria allo spirito americano: in quanto aristocrazia “artificiale”, infatti, rappresentava la minaccia di un’influenza maligna dell’Europa da cui si sarebbe dovuta preservare la vita del nuovo continente. Nel Vecchio Mondo vigeva il “governo dei lupi sugli agnelli”, mentre un tratto essenziale dell’ “eccezionalità” americana era l’autogoverno del popolo, inteso quale fondamentale pilastro in difesa della libertà dall’ingiustizia e dal privilegio. Questo ovviamente era per i tea partiers un insegnamento prezioso e irrinunciabile» (pp. 68-69).
Di qui però, la convinzione che «il populismo dei tea partiers discende da quello di analoghi movimenti novecenteschi di destra, in particolare dall’opposizione al New Deal rooseveltiano». Anche se, proseguono gli autori, « le sue radici sono ancora più profonde e possono essere fatte risalire ad Andrew Jackson (settimo presidente degli Stati Uniti e per molti versi padre del moderno Partito Democratico), il quale ostentò pubblicamente il proprio essere allineato con l’ “uomo comune” contro le oligarchie; alla successiva parabola del People’s Party di fine Ottocento, che, in difesa degli agricoltori del Sud e dell’Ovest, denunciava la corruzione delle élite politiche finanziarie e il pericolo di un generale decadimento morale (…); a Woodrow Wilson, abilissimo nel ricorso a una retorica americanista e localista (contro la burocrazia e l’establishment), anche se nei fatti egli fu il presidente artefice di quell’ampliamento dei grandi apparati federali che pose per certi versi le premesse del New Deal di Franklin Roosevelt». Ciò significa che « i più evidenti antecedenti della rivolta dei tea partiers, come si è detto sono comunque rintracciabili nella variante “di destra” del populismo sorta negli anni della Grande Depressione, quando si diffuse l’ostilità nei confronti delle iniziative per fronteggiare la crisi economica da parte del governo federale, ritenuto colpevole di introdurre il socialismo in America» (p. 111). Le stesse accuse che oggi i tea partiers rivolgono a Obama, usando gli epiteti più coloriti.
Insomma, gli autori escludono, come per gli altri populismi, che il movimento possa giocare in futuro un ruolo positivo nella vita politica americana. Ecco le conclusioni: « Non sembra (…) adeguata quale autentica “risorsa coesiva” la molla anti-politica dei tea partiers. Significativa come si è visto, delle frustrazioni della middle class nazionale ma, proprio in quanto incentrata primariamente intorno a paure derivate dal senso di precarietà dello status socioeconomico, incapace di andare veramente oltre un generico risentimento nei confronti della politica tradizionale, facilmente manipolabile dai poteri organizzati». Viene mostrata grande sfiducia anche sul nesso fra il movimento del Tea Party e i nuovi media: questi ultimi « non sembrano in grado di incidere significativamente su un reale potere decisionale da parte del popolo, autentico senso della nozione di “democrazia” che pare tuttavia confinato nella sfera degli ideali» (p. 149). A dire il vero, si tratta di un giudizio, che Borgognone e Mazzonis estendono anche a Obama e al network politico, culturale e mediatico che ruota ai Democratici, poco attento a «ridare un senso di dignità alle persone».
Ma non è ciò che si propone il movimento del Tea Party? Di raccogliere la protesta dell'ordinary citzen americano, come avvenne nel 1773, contro le vessazioni stataliste? Certo, ora si tratta di Washington e non di Londra. Ma non è la prima volta che nella storia americana ci si appella ad "uso interno" all'episodio del Boston Tea Party. Da ultima, la sinistra studentesca negli anni Sessanta del Novecento contro la guerra del Vietnam (si vedano le belle pagine in argomento scritte da Bairati, americanista troppo presto dimenticato ne Gli orfani delle ragione. Illuminismo e nuova sinistra in America, Sansoni, 1975, pp 65-70). Certo, nel caso del Tea Party il senso di dignità rinvia alla quadricromia, non propriamente progressista, Costituzione-Dio-Famiglia-Proprietà. Ma che c’è di male? Parliamo di una nazione ideocratica in cui Bibbia e Carta costituzionale si intrecciano continuamente. Si pensi ai dotti lavori di Berman, dove si prova l’impatto delle riforme protestanti sulla tradizione giuridica occidentale e quindi anche americana. Anzi, il movimento del Tea Party, per certi aspetti, è fin troppo laico. Il “populista” è un patriota costituzionale, ma in chiave isolazionista. E isolazionismo per molti negli Usa non è una ingiuria… Il "populista" accetta lo stato, ma respinge lo statalismo... Certo, crede nella Costituzione perché i Padri Fondatori, profondamente credenti, vi scorsero trasposti e sublimati i valori cui abbiamo accennato. E, di conseguenza, qualunque violazione o attacco ai "sacri principi" non può non colpire la sua dignità di cittadino-americano, credente, genitore, proprietario-lavoratore. Provocando reazioni. Certo, spesso brusche, forse troppo. Ma la politica è solo di questione di stile?


Carlo Gambescia

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