giovedì 26 marzo 2009

Il libro della settimana: Isaiah, Berlin, L’età romantica. Alle origini del pensiero politico moderno, a cura di Henry Hardy, con una introduzione di Joshua L. Chermiss, Bompiani, Milano 2009, pp. 431, euro 25,00. 

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Non è facile definire il liberalismo sulla base di una pura e semplice contrapposizione tra individuo e stato. O ancora peggio su quella tra stato e mercato. La questione infatti è piuttosto complessa. Sotto questo aspetto un valido aiuto interpretativo è sicuramente rappresentato dall' opera di Isaiah Berlin. Presentiamolo.
Isaiah Berlin (1909-1997) è un pensatore liberale “diverso”, al quale Norberto Bobbio rimproverava che per argomentare il suo liberalismo, ricorresse ad autori poco liberali come Machiavelli, Vico e Sorel… In effetti Berlin, da autentico storico delle idee, si è sempre mosso a suo agio, tra i pensatori più diversi, cogliendone genialmente contraddizioni e potenzialità.
Nato a Riga, ma presto trasferitosi con la famiglia in Gran Bretagna, che diverrà la sua patria d’adozione e d’insegnamento, Berlin era e resta un modello di raffinato “saggismo” universitario. Ma rimane anche un instancabile critico del dogmatismo: da quello comunista a quello liberista. Ha pubblicato ottimi libri come Il riccio e la volpe (Adelphi 1986), Il legno storto dell’umanità (Adelphi 1994), Il senso della realtà (Adelphi 1998), i Four Essays on liberty (raccolti poi nel volume La libertà, Feltrinelli 2005).
Va perciò accolta con vero piacere la pubblicazione de L’età romantica. Alle origini del pensiero politico moderno ( a cura di Henry Hardy, introduzione di Joshua L. Cherniss, Bompiani, Milano 2009, euro 25,00). La cui stesura definitiva, legata a un corso di lezioni americane tenute da Berlin nel 1952, doveva sfociare in un testo, in realtà trascinatosi per anni, fino a trasformarsi nel classico libro della vita, uscito postumo in lingua originale nel 2005.
Innanzitutto il volume è utilissimo per chiunque voglia accostarsi al pensiero di Berlin, perché, come nota nell’introduzione Joshua L. Cherniss, è possibile ritrovarvi, “una accanto all’altra”, e non disperse nell’immensa produzione saggistica di Berlin, “ in forma embrionale gran parte delle (sue) concezioni” e degli “interessi speculativi che avrebbero dominato il lavoro di Berlin nelle successive tre decadi”: il suo concetto di libertà; la critica del determinismo storico; l' analisi, dell’Illuminismo, anche in relazione alla successiva critica romantica, reazionaria, storicista e socialista.
Ma il libro è particolarmente importante per un'altra ragione. Sul piano della storia delle idee L'età romantica offre ai lettori un magistrale ritratto del pensiero politico romantico come culla del liberalismo, ma con le sue luci e ombre. Al punto che andrebbe letto insieme a Romanticismo Politico di Carl Schmitt. Un testo famoso, quest'ultimo, dove il giurista e politologo tedesco criticò l'occasionalismo politico del romanticismo: un atteggiamento che, a suo avviso, spingeva l’intellettuale romantico a sposare "all'occasione" cause politiche anche opposte (progressiste e reazionarie), pur di cambiare il mondo esistente. Magari con la forza.
L'esatto contrario della tesi di Berlin. Per il quale l'idea liberale invece si rafforzò proprio attraverso il conflitto storico con l'esistente. Coagulandosi intorno alla dicotomia, tutta liberale, tra libertà positiva, frutto di certo pregresso illuminismo costruttivista rivolto a "fabbricare" istituzioni capaci di liberare l'uomo e libertà negativa, legata invece più propriamente alla visione romantica, e dunque antideterministica e creativa. E dominata da un uomo in perenne conflitto con qualsiasi forma di vincolo istituzionale.
Semplificando: dove Schmitt scorge il conflitto per il conflitto, inglobando liberali e reazionari, tutti romanticamente in lotta con il proprio tempo, Berlin nota un conflitto tra paradigmi liberali differenti. O per farla breve: tra Rousseau e Tocqueville; tra libertà giacobina e libertà liberale: da un lato la libertà come accettazione di vincoli per favorire il libero sviluppo dell’individuo, dall’altro libertà come assenza di vincoli, per conseguire lo stesso obiettivo. Insomma tra liberalismo cattivo e liberalismo buono.
A questo proposito scrive Berlin:
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“Ogni teoria giacobina o totalitaria che consenta a singoli individui o a gruppi di individui di imporre la propria volontà sugli altri, sia che a questi vada bene oppure no, non in nome di un contratto cui gli altri abbiamo partecipato consapevolmente, né per ragioni utilitaristiche, né in nome di astratti principi del tutto avulsi dalla volontà umana, ma in nome del vero io di questi altri, che essi affermano di voler liberare proprio con la coercizione -‘obbligare a essere liberi’ - è vera erede di Rousseau. Ci possono essere molte valide ragioni per la coercizione, e in circostanze eccezionali persino per i metodi de terrore (…), ma sostenere che l’uso della forza e del terrore possa essere effettivamente voluto da coloro contro i quali il terrore è diretto è un odioso insulto” ( pp. 241-242).
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In buona sostanza, secondo Berlin il nodo politico del romanticismo liberale, come risposta all'illuminismo costruttivista giacobino, ruota intorno alla questione delle questioni, proprio dal punto divista liberale: se l’uomo debba essere educato o meno alla libertà; e se sì, da chi.
La risposta di Berlin, a differenza di quella di Schmitt, il quale da antiliberale non seppe, o non volle, distinguere tra le due forme di libertà, è che l’uomo debba essere lasciato libero di auto-educarsi alla e nella libertà.
Ferma restando, in Berlin, la visione realista. Si dirà anche Schmitt era realista. Certo, ma il plusvalore di Berlin rispetto al pensatore tedesco è rappresentato dall' essere liberale e realista al tempo stesso. Fedele, insomma, a un liberalismo dei piccoli passi e in certo senso malinconico. Perché consapevole dei limiti insiti nella natura umana e dell'importanza delle istituzioni frutto della spontanea e intenzionale cooperazione tra uomini liberi. E qui Berlin segue una linea di pensiero liberale che in chiave ideale da Tocqueville giunge fino ad Aron e alla Arendt, passando per Ortega. Schmitt, invece, per farla breve, pur nella sua grandezza, butta il bambino (liberale), con l'acqua sporca della sua pur giusta critica al formalismo liberale.
Un approccio, quello di Berlin, consapevole della pericolosità del crudo realismo politico alla Schmitt (come antidoto all'occasionalismo del romanticismo politico), ma anche delle visioni salvifiche, pronte ad assumere anche veste liberale... Come quella, oggi molto in voga, puramente economicista, e ristretta alla sola libertà di mercato e al culto di una mano invisibile, celebrata come una sorta di provvidenza laicizzata.
E, a questo punto dovrebbe esser chiara, la diffidenza di Berlin verso le visioni liberali fondate sia sull'armonia naturale, o inintenzionale, degli interessi individuali (Adam Smith) sia verso quelle basate sull'armonia artificiale degli interessi privati, gestita dalle pubbliche istituzioni (Jeremy Bentham). Un atteggiamento di pensiero che tuttavia ne rivela anche i limiti: Berlin, infatti, finisce per diffidare di tutti. Persino degli stessi liberali. Ne consegue la difficoltà, ripetiamo, di individuare nella sua opera le linee ricostruttive di un liberalismo politico. Attento in chiave ricompositiva alle questioni della decisione, dell'organizzazione e del conflitto, poste - e giustamente - proprio da Carl Schmitt. Del resto a uno storico delle idee, per quanto grande, non si doveva e deve chiedere troppo.
Comunque sia, un libro da non perdere. E soprattutto, per chiunque esiti ancora a leggere Berlin, un'ottima occasione per scoprire un eccellente pensatore. Liberale sì, ma con juicio.

Carlo Gambescia
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Eventi

Carlo Gambescia vi invita sabato prossimo 28 marzo al seguente evento: http://www.laquintastagione.com/wp/?p=102

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