Pena di morte
Perdono, giustizia, vendetta
Gaetano Gandolfi ( 1734-1802) , "Caino uccide Abele". |
La condanna a morte di Saddam risponde a motivazioni di
tipo politico, interne ed esterne all’Iraq. In sostanza, per dirla bruscamente,
siamo davanti a un vero e proprio regolamento di conti. Con gli Stati Uniti che
hanno praticamente preteso dalla magistratura irachena la testa dell’ ex rais.
Ma non è di questo trionfo dell’ipocrisia politica che desideriamo parlare. Vorremo invece riflettere sul problema della pena di morte in quanto tale.
Si tratta di una domanda antica quanto l’uomo: è giusto uccidere chi ha ucciso? La risposta altrettanto antica, non è mai stata univoca. Per quale ragione? Perché la società ha leggi e dinamiche proprie, e soprattutto differenti, da quelle morali: la società si difende, invece la morale perdona. Di qui quel ricorrente conflitto che spesso divide società e individuo (morale) sulle scelte valoriali.
Dobbiamo però ora spiegare le ragioni di questa asserzione.
Può sembrare politicamente scorretto, ma sotto l’aspetto sociologico la pena di morte, in qualsiasi tipo di società (antica o moderna), rappresenta (oggettivamente) il momento dell’autodifesa: come un organismo malato, o che tema di ammalarsi, ogni società respinge, eliminandoli, i microrganismi patogeni. Certo, si tratta di persone, e non di “microbi”, ma il meccanismo è analogo. Eliminando chi si è reso colpevole, la società si autodifende. In modo animalesco o istintivo, protegge se stessa e, di riflesso, con la repressione cerca di impedire, penalizzandoli, la diffusione di comportamenti devianti tra i suoi membri. Può piacere o meno, ma alla base della pena di morte vi è un fortissimo “residuo” sociologico (se ci passa l’espressione, si tratta di una specie di “richiamo della foresta” collettivo). Una “residualità” che ne spiega la persistenza, anche nelle società “evolute”. E di solito, i fautori della pena capitale invocano l’argomento sociologico della spontanea autodifesa sociale.
Sotto l’aspetto morale le cose però mutano completamente. Qui è posto in primo piano l’individuo. E viene perciò sacralizzata la vita dell’individuo e non quella della società. In ogni epoca, spesso in nome di valori culturali e morali differenti se non opposti, alcuni uomini e donne si sono battuti contro il potere sociale di vita e di morte. Secondo questa impostazione, non sociologica ma culturale e morale, l’ ultima decisione, di volta in volta, sarebbe storicamente spettata agli dei, a Dio, e infine a uomini sacralizzati o “costituzionalizzati” (dai re ai moderni legislatori, magistrati e capi di stato). In questo modo, si è cercato di proteggere l’individuo (rispetto alla società), che come auspicano, pur su basi diverse, le tradizioni cristiane e illuminista, oggi maggioritarie in Occidente, va rieducato e reinserito nella vita sociale. E di solito, l’argomento culturale e morale viene utilizzato da chi è contrario alla pena capitale.
A questo punto è evidente che il problema della liceità o meno della pena di morte riguarda il contrasto tra individuo e società, o se si preferisce, tra cultura morale (individuale) e società: tra derivazioni e residui, per dirla con Pareto ( senza però assegnare alle derivazioni, in quanto ideologie o razionalizzazioni sociali, alcun significato negativo, e dunque senza seguire il grande sociologo fino in fondo …).
Per quel che ci riguarda siamo contrari alla pena di morte perché favorevoli, come dire, alla triade individuo- cultura- morale.
Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la società ha le sue leggi o costanti. E’ un dato col quale dobbiamo fare i conti. Ma, chi scrive, se si tratta di vita o di morte, preferisce stare sempre dalla parte dell’ individuo. Per quale ragione?
Perché - e ci sembra sia provato (ecco un’altra “costante”) - l’uomo può modificare (magari lentamente, e con ricadute allo stato ferino), se stesso e la società in cui vive. Certo, il “residuo” sociologico di cui sopra, ha un suo “peso”, e non potrà mai essere eliminato completamente, pena la scomparsa di ogni traccia vita sociale, ma può essere governato e “ingentilito”. Del resto, e questa è ancora un’altra “costante” sociologica, la vita è conflitto tra individuo e società, tra valori morali e istituzioni sociali, tra perdono e vendetta.
Ma sta a noi scegliere.
Ma non è di questo trionfo dell’ipocrisia politica che desideriamo parlare. Vorremo invece riflettere sul problema della pena di morte in quanto tale.
Si tratta di una domanda antica quanto l’uomo: è giusto uccidere chi ha ucciso? La risposta altrettanto antica, non è mai stata univoca. Per quale ragione? Perché la società ha leggi e dinamiche proprie, e soprattutto differenti, da quelle morali: la società si difende, invece la morale perdona. Di qui quel ricorrente conflitto che spesso divide società e individuo (morale) sulle scelte valoriali.
Dobbiamo però ora spiegare le ragioni di questa asserzione.
Può sembrare politicamente scorretto, ma sotto l’aspetto sociologico la pena di morte, in qualsiasi tipo di società (antica o moderna), rappresenta (oggettivamente) il momento dell’autodifesa: come un organismo malato, o che tema di ammalarsi, ogni società respinge, eliminandoli, i microrganismi patogeni. Certo, si tratta di persone, e non di “microbi”, ma il meccanismo è analogo. Eliminando chi si è reso colpevole, la società si autodifende. In modo animalesco o istintivo, protegge se stessa e, di riflesso, con la repressione cerca di impedire, penalizzandoli, la diffusione di comportamenti devianti tra i suoi membri. Può piacere o meno, ma alla base della pena di morte vi è un fortissimo “residuo” sociologico (se ci passa l’espressione, si tratta di una specie di “richiamo della foresta” collettivo). Una “residualità” che ne spiega la persistenza, anche nelle società “evolute”. E di solito, i fautori della pena capitale invocano l’argomento sociologico della spontanea autodifesa sociale.
Sotto l’aspetto morale le cose però mutano completamente. Qui è posto in primo piano l’individuo. E viene perciò sacralizzata la vita dell’individuo e non quella della società. In ogni epoca, spesso in nome di valori culturali e morali differenti se non opposti, alcuni uomini e donne si sono battuti contro il potere sociale di vita e di morte. Secondo questa impostazione, non sociologica ma culturale e morale, l’ ultima decisione, di volta in volta, sarebbe storicamente spettata agli dei, a Dio, e infine a uomini sacralizzati o “costituzionalizzati” (dai re ai moderni legislatori, magistrati e capi di stato). In questo modo, si è cercato di proteggere l’individuo (rispetto alla società), che come auspicano, pur su basi diverse, le tradizioni cristiane e illuminista, oggi maggioritarie in Occidente, va rieducato e reinserito nella vita sociale. E di solito, l’argomento culturale e morale viene utilizzato da chi è contrario alla pena capitale.
A questo punto è evidente che il problema della liceità o meno della pena di morte riguarda il contrasto tra individuo e società, o se si preferisce, tra cultura morale (individuale) e società: tra derivazioni e residui, per dirla con Pareto ( senza però assegnare alle derivazioni, in quanto ideologie o razionalizzazioni sociali, alcun significato negativo, e dunque senza seguire il grande sociologo fino in fondo …).
Per quel che ci riguarda siamo contrari alla pena di morte perché favorevoli, come dire, alla triade individuo- cultura- morale.
Tuttavia non bisogna mai dimenticare che la società ha le sue leggi o costanti. E’ un dato col quale dobbiamo fare i conti. Ma, chi scrive, se si tratta di vita o di morte, preferisce stare sempre dalla parte dell’ individuo. Per quale ragione?
Perché - e ci sembra sia provato (ecco un’altra “costante”) - l’uomo può modificare (magari lentamente, e con ricadute allo stato ferino), se stesso e la società in cui vive. Certo, il “residuo” sociologico di cui sopra, ha un suo “peso”, e non potrà mai essere eliminato completamente, pena la scomparsa di ogni traccia vita sociale, ma può essere governato e “ingentilito”. Del resto, e questa è ancora un’altra “costante” sociologica, la vita è conflitto tra individuo e società, tra valori morali e istituzioni sociali, tra perdono e vendetta.
Ma sta a noi scegliere.
Carlo Gambescia
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