(Meta)poltical comics
Romano Prodi e il doktor Spengler
Spengler e vivo e lotta insieme a noi (sì quello del Tramonto
dell’Occidente).
Che vogliamo dire? Un po’ di pazienza…
Innanzitutto che il dibattito sulla “fase due” (quella delle riforme liberiste) è legato a doppio filo a quello sul declino italiano… Un declino da fermare a ogni costo: anche al prezzo di licenziare tutti. Così scriveva ieri Giavazzi-Cavallo Pazzo sul Corriere.
Si tratta di un tormentone che risale all’ultima fase del passato governo Berlusconi. Ci si accapiglia - e ci si accapigliava - su mezzo punto in meno o in più di Pil o di tasse. C’è chi vorrebbe più licenziamenti e concorrenza. Chi più America nell’economia, Chi meno tasse, eccetera.
Ma tutti ripetono pappagallo: Ripresa-economica-ripresa-economica-ripresa-economica… Oppure Fase due-fase due- fase due… O ancora: Riforme-riforme-riforme… Come se parlassero a macchine e non a uomini e donne vivi e vegeti ( e pure incazzati..): facendo finta di ignorare che, se proprio di declino si deve parlare, il declino è culturale e non economico.
Ci spieghiamo.
Punto primo, gli economisti, come Giavazzi, Boeri e company, quando sentono pronunciare la parola cultura ( a meno che non si parli di “filosofia delle vendite”), se avessero una pistola la userebbero subito. Ad esempio, per l’economista medio, un tasso di disoccupazione del 4-5 % è fisiologico o “frizionale” (frutto della spontanee “frizioni” del mercato… Spontanee? Ma de che aoh???). Mentre per il lavoratore che è “dentro” quel 4-5 % è un casino. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata da denaro e ratei, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma gli economisti, come detto, guardano altrove. Quel che conta è la crescita del Pil, e se poi qualcuno è mandato a spasso, “ma che ce frega, ma che ce importa…”
Punto secondo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse. Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda… Ma nessuno parla di investimenti sociali. Qui, di nuovo, quel che conta è la crescita economica, per fermare il “declino produttivo” . Appunto. Ammesso pure che vi riescano… Se poi uno chiede, ad esempio, un’ università all’altezza dei tempi. Anche il politico, guardando altrove, si mette a canticchiare “ma che ce frega, ma che ce importa...”.
Ecco questo “menefreghismo” per la “geeente”, quella in carne e ossa, e non quella del mezzo pollo a testa dei grafici di Boeri, è un autentico segno di declino: culturale. Perché crescere, moltiplicando le fratture economiche e il numero dei socialmente incazzati non porta da nessuna parte. Significa solo chiudere la porta in faccia alla cultura della socialità.
Però attenzione: c’è pure la possibilità che la “geeente” esasperata possa, all’improvviso svegliarsi e intonare in coro, indovinate un po’? “Ma che ce frega, ma che ce importa…”. E, questa volta, all’indirizzo di economisti e politici. Invocando il castigamatti. Come appunto sosteneva il vecchio doktor Spengler, quando parlava del "Cesarismo", come stazione d’arrivo dell’autobus Occidente, proveniente da Roma antica con destinazione Berlino (Porta di Brandeburgo)…
Il che, tuttavia sarebbe spiacevole per tutti.
Che vogliamo dire? Un po’ di pazienza…
Innanzitutto che il dibattito sulla “fase due” (quella delle riforme liberiste) è legato a doppio filo a quello sul declino italiano… Un declino da fermare a ogni costo: anche al prezzo di licenziare tutti. Così scriveva ieri Giavazzi-Cavallo Pazzo sul Corriere.
Si tratta di un tormentone che risale all’ultima fase del passato governo Berlusconi. Ci si accapiglia - e ci si accapigliava - su mezzo punto in meno o in più di Pil o di tasse. C’è chi vorrebbe più licenziamenti e concorrenza. Chi più America nell’economia, Chi meno tasse, eccetera.
Ma tutti ripetono pappagallo: Ripresa-economica-ripresa-economica-ripresa-economica… Oppure Fase due-fase due- fase due… O ancora: Riforme-riforme-riforme… Come se parlassero a macchine e non a uomini e donne vivi e vegeti ( e pure incazzati..): facendo finta di ignorare che, se proprio di declino si deve parlare, il declino è culturale e non economico.
Ci spieghiamo.
Punto primo, gli economisti, come Giavazzi, Boeri e company, quando sentono pronunciare la parola cultura ( a meno che non si parli di “filosofia delle vendite”), se avessero una pistola la userebbero subito. Ad esempio, per l’economista medio, un tasso di disoccupazione del 4-5 % è fisiologico o “frizionale” (frutto della spontanee “frizioni” del mercato… Spontanee? Ma de che aoh???). Mentre per il lavoratore che è “dentro” quel 4-5 % è un casino. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata da denaro e ratei, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma gli economisti, come detto, guardano altrove. Quel che conta è la crescita del Pil, e se poi qualcuno è mandato a spasso, “ma che ce frega, ma che ce importa…”
Punto secondo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse. Chi la vuole cotta, chi la vuole cruda… Ma nessuno parla di investimenti sociali. Qui, di nuovo, quel che conta è la crescita economica, per fermare il “declino produttivo” . Appunto. Ammesso pure che vi riescano… Se poi uno chiede, ad esempio, un’ università all’altezza dei tempi. Anche il politico, guardando altrove, si mette a canticchiare “ma che ce frega, ma che ce importa...”.
Ecco questo “menefreghismo” per la “geeente”, quella in carne e ossa, e non quella del mezzo pollo a testa dei grafici di Boeri, è un autentico segno di declino: culturale. Perché crescere, moltiplicando le fratture economiche e il numero dei socialmente incazzati non porta da nessuna parte. Significa solo chiudere la porta in faccia alla cultura della socialità.
Però attenzione: c’è pure la possibilità che la “geeente” esasperata possa, all’improvviso svegliarsi e intonare in coro, indovinate un po’? “Ma che ce frega, ma che ce importa…”. E, questa volta, all’indirizzo di economisti e politici. Invocando il castigamatti. Come appunto sosteneva il vecchio doktor Spengler, quando parlava del "Cesarismo", come stazione d’arrivo dell’autobus Occidente, proveniente da Roma antica con destinazione Berlino (Porta di Brandeburgo)…
Il che, tuttavia sarebbe spiacevole per tutti.
Carlo Gambescia
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