mercoledì 6 dicembre 2006


Il libro della settimana: Sergio Ricossa, La fine dell'economia. Saggio sulla perfezione, Rubbettino - Leonardo Facco 2006, pp .232, euro 15,00.

http://www.store.rubbettinoeditore.it/la-fine-dell-economia.html

Ci sono due tipi di economisti: quelli che con l’economia hanno un rapporto di amore-odio, e quelli che invece laicamente vi convivono. Nell’Ottocento Marx, che economista in senso stretto non era ( ma fa lo stesso), pur di liberarsi dall’economia, paradossalmente ridusse la realtà alla sola componente economica. Pareto, qualche decennio più tardi, pur provenendo dall’amata economia pura, si accorse che da sola non bastava. Di qui il suo crescente interesse per la sociologia.
Si dirà, che significa questo volo pindarico… Presto detto: Marx, con la nobile scusa di seppellire l’economia, spinse i suoi epigoni a privilegiare la mano visibile dello Stato nel campo della redistribuzione dei redditi. Mentre Pareto, lungi dal demonizzare produzione e scambio di beni, fu portato nel tempo a sopravvalutare, come sociologo, il ruolo della mano invisibile delle passioni collettive (anche l’interesse è una passione…), nell’ambito del mercato, portando acqua al mulino del neoliberismo.
E così, tanto per fare un esempio, l’attuale dibattito tra socialdemocratici e liberisti, o se si preferisce tra chi vuole più o meno tasse, rinvia al duello ideale tra Marx e Pareto : i socialisti vogliono tassare chi ha di più, per poi ridistribuire attraverso la mano visibile dello Stato, mentre i liberisti vogliono ridurre le tasse per produrre di più, e dare così più spazio alla mano invisibile delle passioni umane. Insomma, al mercato come armoniosa macchina redistributrice.
Come vedremo, Sergio Ricossa, uno degli economisti italiani più originali, non sta con gli uni né con gli altri: cerca una via propria. Come Adam Smith, apprezza il mercato ma non deifica vizi e passioni. Quindi detasserebbe ma con juicio, senza favorire ingordi e ignavi. E’ vero che Ricossa è un liberale vicino alle costruzioni, talvolta astratte, della Scuola Austriaca, ma non disconosce le concrete lezioni della storia. Nato a Torino nel 1927, vi ha trascorso tutta la sua carriera universitaria, fino a diventare professore emerito. E’ socio della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei e membro dell'Accademia di Agricoltura. I suoi articoli sono apparsi su famose riviste scientifiche. Ma ha anche collaborato con importanti quotidiani: dal Giornale alla Stampa. E’ tra i fondatori ed animatori del CIDAS di Torino. Ha scritto testi importanti come il Dizionario di Economia (Utet) e tra gli altri, è anche autore di un piccolo gioiello, come I grandi classici dell’economia. Cento Trame (Bompiani), dove genialmente sintetizza le opere che hanno innervato e vivificato l’economia moderna. Un altro suo libro molto interessante, che andrebbe letto come contraltare alla Ragione aveva torto? di Massimo Fini, è Storia della fatica (Armando), dove cifre alla mano, dimostra, se ci si passa il gioco di parole, che si stava peggio quando si stava peggio…
Un’ottima occasione per approfondirne il pensiero è leggere La fine dell’economia. Saggio sulla perfezione ( Rubbettino - Leonardo Facco 2006 , prefazione di Enrico Colombatto, pp. 232, euro, 15,00), uscito in prima edizione nel 1986 (Sugarco), ora riedito nell’interessante collana “Mercato. Diritto e Libertà”, promossa dall’Istituto Bruno Leoni - www.brunoleoni.it ). Un libro dove la dicotomia da noi tracciata, per così dire, tra economisti “puri” ed economisti “impuri”, si interseca, integrandola, con quella tra “perfettisti” e “imperfettisti”.
Ma diamo la parola a Ricossa: “Per intenderci, diremo perfettismo ogni dottrina che predichi un regno mondano di perfezione, senza il dominio dell’economico; e imperfettismo [ogni dottrina] che ritenga il perfetto indesiderabile, più che impossibile, e l’economico un aspetto come gli altri della nostra vita, non un ramo della demonologia” (p. 12). Il che significa, per tornare a noi, che Marx era un perfettista e Pareto un imperfettista. Marx sognava la fine dell’economia e l’avvento della società perfetta, mentre Pareto vedeva nell’economia, uno strumento di regolazione, spesso imperfetto, di una società imperfetta e, soprattutto, destinata a rimanere tale. Se il primo aspirava a cambiare tutto, il secondo non voleva mutare nulla.
Ma Ricossa a chi è vicino, o quasi? Ovviamente a Pareto e agli impefettisti: “Chi scrive queste pagine - nota - è tendenzialmente un imperfettista: lo confessa subito, e non pretende che il suo lavoro sia perfettamente oggettivo e neutrale (tanto meno completo e senza errori). Egli riconosce di schierarsi con la minoranza, poiché è invece il perfettismo, nelle sue molteplici varianti, che domina nella nostra cultura e costituisce una tradizione ininterrotta da Platone a Keynes, verso la quale anche i pochi avversari imperfettisti trovano un rispetto ammirato” (p. 13).
Rispetto, che in realtà, Ricossa non nutre affatto. Come ogni buon piemontese tira dritto per la sua strada. L’intero libro è una dissezione, ma a colpi di ascia del perfettismo (ed è lo stesso Ricossa ad ammettere di non poter fare a meno di “semplificare e schematizzare” una materia altrimenti ingestibile): uno dopo l’altro, da Platone a Marx e anche dopo, cadono sotto i suoi colpi, tutti i costruttori di impossibili Città del Sole.
Ricossa, in particolare, si accanisce su Keynes, al quale oppone Luigi Einaudi, altro piemontese… Il passo è interessante: se Keynes sostiene che gli uomini grazie allo sviluppo tecnologico lavoreranno sempre meno, “Einaudi (…) in polemica col perfettista Keynes scriverà nel Problema dell’ozio : ‘Se la macchina libererà gli uomini dalla fatica di produrre i beni usuali delle vita…, altri beni saranno inventati dagli uomini e li indurranno alla fatica… Venga meno lo stimolo al lavoro: e in poche generazioni il livello di vita dell’uomo medio discenderà rapidamente, ben più rapidamente di come si è innalzato… Il lavoro inutile? Non dice il proverbio che l’ozio è il padre di tutti i vizi?’ ” (p. 86). La sinistra pauperista è perciò avvisata…
Da novello aristocratico, il perfettista odia il lavoro, cosicché non può essere un vero liberale. Il quale invece scorge nel lavoro, la più alta forma di libertà individuale e morale. In questo senso “Einaudi era un liberista [mentre] Keynes non lo era” (p. 87).
Ora, il libro di Ricossa è un buon vaccino, contro ogni forma di utopia, oltre che un’introduzione al ricco pensiero di un economista, che oggi sembra condurre vita appartata, lontano dai clamori, provocati dai liberisti di fresca nomina… In effetti, un libro è così denso di citazioni, stimoli e spunti, rappresenta un’ autentica e insostituibile enciclopedia critica dell’utopismo economico. Ma quando Ricossa passa alla teorizzazione dell’imperfettismo, cui dedica l’ultimo capitolo, risulta meno convincente, probabilmente perché si inerpica troppo in alto, lungo i tortuosi sentieri della filosofia morale. Scelta, probabilmente obbligata, perché l’autore diffida pure del perfettismo liberista. “La “smithiana mano invisibile - scrive - divenne il simbolo di un meccanismo deterministico, che portava a un immancabile equilibrio tutti gli operatori di mercato, il cui comportamento si faceva quindi prevedibile, non appena fossero conosciute le loro preferenze (…). Il ramo austriaco della scuola neoclassica tentò di restituire agli operatori di mercato un libero arbitrio meno limitato, affrancando il più possibile la loro condotta da cause predeterminabili, e attribuendo loro delle finalità soggettive (…). Ma pure così restava talvolta qualche eccessiva semplificazione della nostra psicologia, mentre occorreva mirarne tutta la complessità per arrivare all’uomo imperfettistico, imprevedibile perché suscettibile di errori, irrazionalità, esitazioni, pentimenti, conflitti fra esigenze alternative (tra il dovere e il piacere e il dovere per esempio)” (p.192). La destra neoliberista ed economicista è avvisata…
E allora? Secondo Ricossa non resterebbe che puntare sul libero arbitrio dell’uomo e dunque sul fatto “che gli uomini si sentano individualmente, moralmente responsabili” , Ma di che cosa? Delle proprie scelte anche se sbagliate… Per imparare dai propri errori. “Sulla scia di Hayek assegniamo una responsabilità alle persone non per asserire che esse avrebbero potuto scegliere diversamente, ma per renderle differenti, per cambiare le persone stesse” (p.193).
Ora, Marx voleva cambiare l’uomo, Pareto conservarlo così com’era, il Ricossa “filosofo morale”, almeno così ci sembra, cambiarlo e conservarlo al tempo stesso.
Probabilmente un po’ troppo. Ma comunque sia, auguri sinceri, professore.

Carlo Gambescia

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