sabato 29 novembre 2025

Troppo Novecento. Sciopero generale e sinistra: tra welfarismo e rituali pacifisti

 


A proposto dello sciopero generale c’è qualcosa di stonato, quasi fossile, nel sentir parlare di "finanziaria di guerra" e "di miseria". 

 Parole grosse. Troppo.

Ieri è toccato ai “sindacati di base” (le principali sigle autonome), di solito i più arrabbiati.  Il 12 dicembre sarà il turno di quelli di “vertice”, ufficiali diciamo, più politici (cioè Landini & Co. ).  In realtà, visione e slogan, sono più o meno gli stessi. Stesse idee, stesso massimalismo. Di sinistra.

Insomma è una retorica, che accomuna sindacati di “base” e di “vertice”, e che sembra provenire direttamente cuore del Novecento. Più precisamente dal 1914:  dai tempi del pacifismo massimalista incapace di distinguere tra aggressione e autodifesa, e che finì per provocare la dissoluzione della Seconda internazionale dinanzi alla Prima Guerra mondiale. E così consegnare un intero pezzo di socialismo europeo all’ingenuità geopolitica che spianò la strada a Lenin. Che a Zimmerwald, 1915, sotto la candida veste del pacifismo ufficiale, fece circolare la seguente parola d’ordine: “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Il che in seguito, come insegna Nolte, favorì, pur con portate differenti, la reazione di Mussolini e Hitler.

Oggi lo schema, almeno mentale, si ripete: un pacifismo d’accatto che scambia ogni spesa militare per militarismo, senza chiedersi chi stia sparando e morendo. Oggi a essere aggredita è l’Ucraina, non qualche impero coloniale. Sostenere Kiev non è un vezzo moralistico: è una necessità politica per chiunque viva in Europa. Se l’Ucraina cade, crolla il principio della sovranità territoriale, e la Russia avrebbe un precedente pronto da replicare.

 


Eppure si continua a chiedere “pace”, come se bastasse una parola d’ordine per risolvere una guerra di aggressione. È curioso che proprio chi urla “pace subito” finisca – magari in modo inconsapevole – sulle stesse posizioni di Donald Trump, Orbán e di tutta la galassia sovranista, parafascista, che sogna un’Europa debole. Una sinistra che, invece di farsi liberale, si ritrova affiancata alla destra più illiberale non per convinzione, ma per riflesso ideologico.

Il discorso si fa ancora più evidente sul fronte israelo-palestinese. Anche qui la parola “pace” viene usata dagli organizzatori dello sciopero generale come scorciatoia morale, senza guardare alla complessità degli attori in campo né alle responsabilità reciproche.

Si sciopera “anche” per mostrare solidarietà verso il popolo palestinese. Cosa umanamente comprensibile. Ma se si riduce tutto a “cessate il fuoco subito, senza se e senza ma”, si ripete lo stesso errore commesso sull’Ucraina: si cancella il fatto che esiste un’aggressività concreta, strategica, organizzata.

 


Anche qui il pacifismo da rituale manifestazione del sabato diventa un alibi che impedisce di vedere la realtà: la pace non si ottiene chiedendola come un atto di fede, ma creando condizioni politiche, militari e diplomatiche che la rendano possibile. Il che vale per Gaza, vale per Kiev. E invece? Si continua a usare lo stesso vocabolario emotivo e sbrigativo, sempre più lontano dalla complessità del mondo.

Sia chiaro: la nostra contrarietà al governo Meloni è totale. È un governo di estrema destra, con figure profondamente nostalgiche del fascismo: basta guardare a Ignazio La Russa, che non è esattamente un fan della cultura democratica antifascista. Ma essere anti-Meloni non può significare rifugiarsi nella retorica di un socialismo romantico, diciamo pure vintage, che non ha fatto i conti con la modernità. Non basta urlare contro “le armi” per essere progressisti; basta vedere chi applaude dall’altra parte dell’oceano per capire che qualcosa non torna.

 


Quanto alla manovra economica, sulla quale ha posto l’accento soprattutto Landini, definirla “ingiusta” o “di miseria” è una scorciatoia propagandistica che non aiuta a capirla. Non è una finanziaria di miseria: è una finanziaria piatta. Una manovra che non cambia nulla, amministrativa, priva di visione. E che, paradossalmente, ripropone proprio quella logica welfarista che la sinistra e il sindacato difendono da decenni: bonus, micro-riduzioni del cuneo fiscale, mance alle minime, ritocchi sull’Irpef, nessuna vera politica industriale, nessuna riforma del welfare, zero strategia sulla produttività. È tutto dentro lo schema classico italiano: distribuire un po’ qua e un po’ là, senza mai mettere mano alle fondamenta economiche del Paese.

Il problema è che una parte del sindacato sembra ancora convinta che la ricchezza sia una variabile indipendente. Si parla solo di redistribuzione, quasi mai di produzione. Come se la ricchezza comparisse spontaneamente, per diritto naturale, e non fosse invece il risultato di investimenti, innovazione, lavoro qualificato, competitività, rischio imprenditoriale.

In Italia la produttività del lavoro è ferma da quasi trent’anni. Dal 1995 a oggi è cresciuta in media di appena +0,2% l’anno,  con oscillazioni intermedie, certo, ma senza mai imboccare una traiettoria solida. Nel quinquennio 2019-2024 è addirittura negativa (–0,1% annuo). È la performance peggiore tra i grandi Paesi europei. Con una produttività così stagnante, salari, welfare e investimenti non possono crescere seriamente: la ricchezza da redistribuire semplicemente non si crea (CNEL / elaborazioni su dati Istat, rapporti 2024-2025).

Capito il liberalismo selvaggio? O per meglio dire immaginario? Che la sinistra, sempre da trent’anni, tira regolarmente fuori dal cilindro? E che addirittura ora rimprovera al governo Meloni? Che invece, come detto, tira a campare secondo le consuete linee welfariste

Questa mentalità, da maghi della pioggia (dello sciopero generale) deriva davvero — e non è un’esagerazione — dalla cultura della Seconda Internazionale: la redistribuzione come gesto etico, non come esito di un processo materiale. È un approccio che può andare bene per un comizio, non per gestire un Paese avanzato.
 

Scioperare è giusto, il conflitto sociale è necessario, nessuna obiezione. Ma se la protesta è accompagnata da un vocabolario ideologico fermo al secolo scorso, allora non si sta difendendo il lavoro: si sta difendendo un’idea arretrata del lavoro. Non siamo nel 1914. Quando solo per dirne una: la giornata di lavoro di un operaio era in media fra le 10 e le 14 ore, 6 giorni a settimana.

 


Quanto al pacifismo dei sindacati, possibile che si sia dimenticato che, come allora, l’Europa rischia la disgregazione e l’Italia non è affatto al riparo? Continuare a parlare come se vivessimo in un mondo immobile, chiuso nelle vecchie categorie del Novecento, non aiuta nessuno: né i lavoratori né il Paese.Serve realismo, non nostalgia. E soprattutto serve il coraggio di misurarsi con la fase storica in cui siamo davvero e non con quella che fa più comodo evocare.

Il governo Meloni merita di cadere, certo. Ma non per tornare all’età della pietra socialista. Non basta essere contro qualcuno per essere moderni. Se davvero vogliamo costruire un’alternativa credibile dobbiamo liberarci tanto dei nostalgismi di destra quanto del pacifismo automatico e della liturgia redistributiva della sinistra. Serve un svolta liberale. Troppo Novecento. Ora basta.

Anche perché la modernità richiede altro: capire la geopolitica ( e la metapolitica), sostenere chi viene aggredito, innovare il welfare, aumentare la produttività, garantire diritti senza affossare la crescita.

È una sfida liberale, ripetiamo, che nessuno può affrontare con lo stesso linguaggio dei bisnonni. 


Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento