La visita di Crosetto a Washington, rinviata all’ultimo minuto, doveva servire a discutere l’ennesimo escamotage: comprare armi americane per poi girarle all’Ucraina, spesso facendole pagare a Kiev stessa, direttamente o indirettamente.
E non si pensi che con Biden o con i presidenti precedenti fosse diverso: il meccanismo è quello di sempre: si compra dagli Stati Uniti e poi si girano le armi a chi ne ha bisogno. E in tempi normali può anche funzionare. Ma applicarlo a un Paese sotto bombardamento, come se fosse un cliente da servire in leasing, è il vero cortocircuito morale dell’Occidente.
Però una differenza c’è. E sta nel presidente ( ma non solo come vedremo): Biden, Obama e tutti i leader atlantici lo hanno usato per rafforzare gli alleati, perché sanno e sapevano che la NATO vive solo se gli Stati Uniti mantengono la parola data. Trump no: per lui le alleanze non sono valori ma contratti a termine, da stracciare se non gli convengono; considera l’Ucraina un peso, la NATO un affare in perdita e gli autocrati dei partner preferibili agli europei.
Ecco allora una prima differenza: con Biden gli strumenti servono a difendere l’Occidente, con Trump servono a ricordargli che nulla è garantito, nemmeno la solidarietà fra alleati.
Non solo però. Che cos’è l’alleanza atlantica? L’atlantismo è la politica di alleanza e cooperazione tra i Paesi occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, basata su fiducia reciproca nell’ambito della NATO. Esso comprende non solo la collaborazione militare, ma anche la condivisione di valori democratici, l’impegno politico comune e la solidarietà strategica tra gli Stati membri. In sintesi la difesa della modernità liberale. Quindi l’atlantismo ingloba culturalmente la NATO
Pertanto la vera differenza sta nel valore coesivo attribuito all’atlantismo. Per Biden e i presidenti ‘classici’, la NATO e le alleanze non sono un optional: sono pilastri strategici e morali, e gli strumenti militari servono a difendere questi valori. Per Trump, invece, l’atlantismo è un contratto negoziabile: se non conviene, si ignora, si abbandona o si ricatta. Stesso sistema, intenzioni opposte: uno sostiene l’Occidente, l’altro lo tratta come un mercato delle vacche.
Diciamo quindi che esiste un atlantismo vero e un atlantismo fasullo. Sotto quest’ultimo aspetto l’atlantismo, tra l’altro neppure evocato, di Trump è sparito dai radar.
E in Italia? L’Atlantismo di Giorgia Meloni è poco più di qualche ghirigoro retorico: sotto sotto, funziona alla maniera trumpiana. Senza la concretezza culturale di un De Gasperi, lo stesso apparato di alleanze viene ridotto a vetrina, opportunità negoziabile e palco mediatico. Perché altrimenti — per fare un esempio tra Alcide De Gasperi e Giorgia Meloni — non ci sarebbe alcuna differenza sostanziale. Come del resto tra proclamare valori (Meloni) e praticarli (De Gasperi). O per dirla fuori dai denti: tra un antifascista cattolico, ma laico in politica, come De Gasperi, è una fascistella, come Giorgia Meloni, che tuttora sostiene che Mussolini fece cose buone.
Non dimentichiamo infine il coraggioso primo viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti nel 1947, accolto con diffidenza ma capace di conquistare fiducia e sostegno, altro che le seratine di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago, ospite di Trimalcione-Trump...
Insomma da quasi quattro anni ripetiamo che “l’Ucraina combatte per noi”, che “è la frontiera della libertà europea”, che, tutti insieme difendiamo “i valori dell’Occidente”. Tutto molto nobile. Poi, però, quando si passa dalla retorica ai fatti, il quadro si svela per ciò che è: una fiera di paese non un’alleanza.
Gli europei non producono abbastanza munizioni, non hanno linee industriali adeguate, e quando devono sostenere militarmente Kiev finiscono per bussare a Washington come clienti, non come partner. Comprare sistemi d’arma dagli Stati Uniti e poi girarli all’Ucraina può essere necessario — la guerra non aspetta — ma il modo in cui lo facciamo racconta una verità scomoda: non abbiamo una strategia. Abbiamo solo pezze e rattoppi, sempre all’ultimo minuto.
E mentre ci attorcigliamo in queste alchimie contabili, sul versante politico arriva anche la ciliegina: l’appello di Mattarella contro i “dottor Stranamore” del nucleare. Parole moralmente impeccabili, come un omaggio domenicale al multilateralismo di un tempo che non esiste più. Ma che, nel mondo reale del 2025, suonano come un ciclone di idealismo inconcludente. Perché la deterrenza atomica non è un’aberrazione teorica: è la spina dorsale della NATO, cioè di quel sistema di sicurezza che permette all’Italia di fare discorsi elevati senza rischiare invasioni. E diciamolo pure dell’Atlantismo, come comunità morale e geopolitica da difendere a ogni costo. Anche con la minaccia di usare l’atomica.
Messaggi così, slegati dalla duplice concretezza nei principi e nella strategia, non aiutano nessuno, tantomeno l’Ucraina. Che oggi si ritrova schiacciata tra l’aggressione russa e la goffaggine occidentale: America distratta, Europa disorganizzata e oratoria che rimbalza tra Bruxelles, Roma e Parigi come in un seminario di buone intenzioni senza seguito.
E qui resta sospesa una domanda brutale: se davvero l’Ucraina combatte per difendere noi, perché siamo noi a farle pagare il conto? Ammesso, non concesso, che nessun pasto sia gratis — armi comprese — allora c’è una differenza cruciale fra trattare con chi ispira fiducia e farlo con chi potrebbe tradirti: gli Stati Uniti di Trump.
La domanda diventa inevitabile: in quale di questi due scenari ci stiamo realmente impegnando? Il secondo crediamo. Purtroppo.
Così, a forza di idealismo sterile e pragmatismo dimezzato — di un atlantismo fasullo — rischiamo non solo di perdere l’Ucraina, ma di compromettere per sempre la credibilità del fronte occidentale. E una volta che quella fiducia sarà spezzata, nessun comunicato potrà mai ricostruirla.
Carlo Gambescia




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