Secondo articolo su Pasolini in due giorni? Il lettore non scappi…
In realtà, Pasolini è una specie di gancio per parlare della macchina mitologica, che si forma e ruota intorno alle morti violente delle persone importanti.
Secondo Furio Jesi, autore di un prezioso trattatello, Il mito, si tratta di regole e procedure che, partendo da un evento, potenzialmente mitologico, generano senso e acquistano forza propria, incidendo sulla mentalità collettiva.
Per essere più chiari: la possibile riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini, l’ennesima, verrebbe da dire, non è una notizia giudiziaria: è un sintomo (*).
In Italia – ma il discorso rimanda all’uomo come animale mitopoietico prima che politico – quando si tratta di un morto eccellente, la verità processuale non basta mai. Serve sempre altro: un movente più grande, un nemico più potente, una trama più degna del personaggio. E così l’ “evento” morte di Pasolini, a cinquant’anni di distanza, continua a rigenerarsi ciclicamente come un rito collettivo. Il morto non riposa: lo teniamo in vita noi.
Questa interpretazione “atea” di Jesi, che rifiuta una causa prima antropologica, va però completata. Pareto, nel suo famoso Trattato di sociologia generale, parlò di “istinto delle combinazioni”, cioè, semplificando, dell’enorme potere, talvolta devastante, della fantasia umana. Tema presente anche nella Scienza nuova di Vico.
Insomma, non solo procedure, come ritiene Jesi, ma “anche” fatto antropologico. Secondo Pareto e Vico la fantasia, come capacità di mescolare, combinare, creare e ricreare, è il motore, o comportamento invariante, con cui l’uomo interpreta il mondo e costruisce i miti: attraverso la capacità immaginativa si creano divinità, eroi e leggende, spesso nere, che riflettono i bisogni e le paure di una società. Così è, così sarà.
Piaccia o meno, ma l ’uomo non è solo un essere razionale, politico o sociale, è innanzitutto un creatore di miti:una perfetta macchina mitologica.
Trasforma la realtà in narrazione simbolica, attribuendo senso agli eventi e alle vite altrui. La mitopoiesi non è decorativa: struttura la cultura, la politica e l’identità collettiva.
Ogni mito riflette noi stessi, più che il mondo oggettivo. E questo nel bene come nel male. Dall’ipotesi, per i più fantasiosa, che porta a una grande scoperta, ad esempio la leggendaria “mela” di Newton che lo aiutò a scoprire la forza di gravità, alle accuse di stregoneria che portarono a centinaia di processi e condanne nel Seicento, o alla leggenda del “complotto ebraico” che alimentò pogrom e antisemitismo.
Poche figure si prestano al culto funebre quanto Pasolini. Intellettuale, politico senza partito, visionario scomodo a destra e a sinistra, omosessuale in un paese di farisei che fingeva di non saperlo e che, quando sapeva, condannava: un cocktail ideale perché la sua morte non potesse essere percepita come una fatalità, dovuta a un incontro sbagliato in un luogo sbagliato.
Purtroppo sono cose che capitano. Per le persone famose: Johann Joachim Winckelmann docet, purtroppo, già tre secoli fa. Per i non famosi, parla invece la cosiddetta cronaca nera. Però la banalità del male non è contemplata. È vista quasi come un’offesa.
A questo si somma una verità giudiziaria debole sul piano simbolico: uno scapestrato, Pino Pelosi, che prima confessa, poi ritratta, poi ricambia versione. Niente di epico. Niente di “politico”. L’Italia – si sa – sopporta tutto, tranne le verità povere.
Da qui, l’invasione sistematica della macchina mitologica: i fascisti, i servizi, la mafia, il romanzo delle stragi, le verità nascoste, il dossier inesistente. Retoriche, spesso dell’intransigenza, che non spiegano Pasolini: spiegano gli italiani. E più in generale l’esattezza, probabilmente metapolitica, delle tesi di Pareto e Vico.
La macchina mitologica, alla fin fine, è una forma di “razionalizzazione” ex post dei fatti. Cioè qualcosa che serve a giustificare una interpretazione diversificata (diciamo così) della realtà. Quindi siamo davanti a una regolarità metapolitica. Come detto, a un’invariante comportamentale.
Ma veniamo alla questione generale: quando la morte diventa specchio? Pasolini non è un caso isolato. In Italia, la “morte eccellente” svolge una funzione: aiuta a raccontare il Paese più di quanto racconti la vittima. Ogni personaggio importante diventa un prisma identitario.
Alcune morti non possono essere banali, anzi non “devono”: Pasolini, certo. Ma anche Caravaggio. La società rifiuta l’idea che un grande artista possa morire come un anonimo: in mezzo al fango, per mano di balordi, in circostanze degradate. Per mantenerne intatto il valore, si costruisce una morte simbolica alla loro altezza.
Ci sono morti, come detto, che devono spiegare una storia d'Italia, per forza contorta. Diciamo, in senso programmatico, a tesi. Ad esempio Mattei e Moro. Qui siamo oltre la mitologia: la morte diventa allegoria del sistema politico. Il Paese si racconta attraverso l’assassinio. È la versione laica della Passione: ogni generazione rilegge, aggiorna, riscrive.
E che dire delle morti che alimentano la contro-versione dei fatti? Piazza Fontana, Ustica, i misteri della Repubblica. In questi casi la “versione alternativa” funziona come arma politica. Non importa la verità: importa la verità utile. E, andando all’estero, il discorso vale anche per figure come John F. Kennedy, Martin Luther King, Che Guevara o Malcolm X, rappresentano morti che “spiegano” la società e la politica.
Infine c’è la morte pop, feticcio emotivo. E anche qui è scala mondiale: Marilyn Monroe, Lady Diana, John Lennon. Il mito è globale, un grande melodramma collettivo. La dinamica è identica: la fine non può essere accidentale. Serve un colpevole “alto”, una cospirazione degna del personaggio.
Insomma, più grande è il personaggio, più grande e misteriosa dev’essere la sua fine, ancora meglio se violenta. Il meccanismo metapolitico è semplice. La società tende a rifiutare la dissonanza cognitiva tra l’elevatezza culturale di una figura e la miseria materiale della sua morte. Per questo il mito è irresistibile: colma lo scarto, ricostruisce l’armonia: “razionalizza” E qui si torna all’enorme potere della fantasia umana individuato da Pareto e Vico.
Pertanto il personaggio famoso da morto serve continuamente a riflettere ansie, non solo italiane. Riconducibili all’istinto delle combinazioni che sua volta interseca: a) la paura del potere occulto; b) la fascinazione per la dietrologia; c) l’incapacità di accettare la brutalità del caso;d) il bisogno di riscrivere il presente attraverso il passato.
Ogni riapertura, ogni “nuova pista”, ogni micro-indizio è un modo per alimentare la macchina mitologica. Non cerchiamo la verità. Cerchiamo una verità che racconti noi stessi, frutto della nostra volontà…
E così, ogni volta che resuscitiamo un “morto eccellente”, non stiamo davvero parlando di lui. Parliamo di noi, del nostro bisogno di elevare il caos a racconto, la casualità a destino, la miseria a dramma nazionale. In fondo è questo il punto: le morti eccellenti non tornano mai perché c’è qualcosa da scoprire, ma perché c’è qualcosa che non vogliamo accettare.
La realtà non ha stile. Il mito sì. E noi, ostinatamente, scegliamo sempre il secondo.
Carlo Gambescia
(*) Qui, sull’istanza di riapertura depositata in Procura: https://www.adnkronos.com/cronaca/pasolini-depositata-istanza-in-procura-a-roma-per-riaprire-indagini-su-omicidio_BOIzwHj1gC6yzVf5DLhmh .





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