martedì 25 novembre 2025

Profeti dell’apocalisse. Da Mosè a Chomsky (passando per Occhetto)

 


Nelle politica contemporanea si può rilevare una tendenza curiosa  e devastante al tempo stesso: la retorica dell’apocalisse. 

A destra e sinistra è tutto un parlare di mondo allo sfascio, società in rovina, civiltà sull’orlo dell’estinzione. Con replica, per effetto di ricaduta, sul mondo social. Dove si celebra, pur tra vacanze, torte, ricordi, felini e selfie, la prossima fine del mondo.

Poco importa se, in mezzo, esistono anche guerre vere, problemi veri, crisi vere. Quelli sono fatti. Invece ciò che interessa ai profeti dell’ultimo giorno è la narrazione totale, l’idea che il sistema nel suo complesso sia marcio, irredimibile, destinato al collasso. Per questo si chiamano profeti: non analizzano, annunciano.

A dire il vero capitalismo e società liberale hanno sempre civettato con i propri nemici. Molti dei quali, come fascisti, nazisti e comunisti sono passati all’azione. Quindi la retorica apocalittica, quando varca il limite del galateo liberale può essere molto pericolosa.

Il caso Occhetto è emblematico. Ieri sera, invitato da Marco Damilano a commentare un voto regionale chiuso in sostanziale pareggio – tre a tre, o quattro a tre se si include la Valle d’Aosta – è riuscito a trasformare una discussione tecnica in una predica biblica, tipo la sinistra deve occuparsi degli ultimi… Sembrava Mosè.

 


Un pezzo di folclore politico, certo. Che però indica bene la deriva del discorso pubblico: anche chi non conta più nulla politicamente, come Occhetto, continua a diffondere l’idea che solo una parte – ovviamente la propria – possa salvare il mondo dal disastro.

E qui c’è da fare un’osservazione interessante. Le email di Epstein hanno rivelato una fitta rete di relazioni che attraversa sia la destra sia la sinistra: da Noam Chomsky (icona radical progressista) a Steve Bannon e Peter Thiel (figure conservatrici / libertarian), fino a Elon Musk. Questa trasversalità mostra che Epstein non era solo un reietto oscuro, ma un nodo di potere globale, capace di agganciare intellettuali, imprenditori e politici di ogni schieramento. Politicamente, queste connessioni smontano la retorica moralistica dei “profeti puri”: la critica al sistema convive con rapporti con l’élite, dimostrando come l’establishment non sia semplicemente “l’altro” da combattere, ma una rete che permea anche chi lo denuncia.

Si dirà americanate. In realtà, anche in Italia, la rete di complicità non conosce schieramenti. A destra, figure come Gianni Letta – storico consigliere di Berlusconi e nodo nei rapporti tra politica e grandi media – o Marcello Pera, filosofo, ex presidente del Senato con ampi contatti culturali, dialogano con imprenditori e intellettuali progressisti; più in là, esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia, da Salvini a Meloni, girano negli stessi circuiti internazionali che li portano a incrociare grandi nomi americani: sì, quelli che hanno avuto a che fare con Trump ed Epstein. A sinistra, Prodi e D’Alema, Schlein e Conte, non sono da meno, con legami stretti con aziende, fondazioni e reti globali. E nel mondo dei media, conduttori e giornalisti di ogni colore condividono contatti, convegni e board editoriali: un club ristretto, autoreferenziale, dove tutti si conoscono e si influenzano a vicenda.

Il punto non è scandalizzarsi per il contatto in sé (scriversi con Epstein o incontrarlo non significa commettere un reato), ma smascherare l’ipocrisia di chi, a destra e a sinistra, predica contro il “sistema” come se vivesse in un eremo. Le élite sono reti, non blocchi: ci si conosce, ci si influenza, ci si usa. Funziona così. È il potere della rete bellezza…

 


E quando questa normalità viene negata per costruire narrazioni apocalittiche – il mondo alla rovina, gli ultimi contro i potenti – allora il populismo prospera e la politica smette di essere normale. E per dirla tutta, cresce il pericolo fascista.

Il problema? Questo linguaggio apocalittico che accomuna tutti. La sinistra vede la rovina prodotta dal capitalismo; la destra vede la rovina prodotta dal globalismo. Due apocalissi, stesso schema. E nessuna funzionale alla costruzione di un’immagine di società normale. La normalità non è un optional: è il presupposto della politica liberal-democratica. Senza un’idea condivisa di “società ordinaria”, liberale, in cui i problemi si risolvono per gradi – c’è una cosa che si chiama riformismo – tutto diventa eccezione, e l’eccezione è il terreno naturale di ogni populismo.

Insomma, a peggiorare le cose c’è l’ipocrisia della classe intellettuale. E il problema non è solo italiano.

Ad esempio, come dicevamo, le recenti email su Chomsky -amichevole corrispondente di Epstein, snodo torbido tra Clinton, Trump e mezzo mondo elitario – hanno tolto definitivamente il sipario. Chi predicava l’etica contro il potere viveva perfettamente a suo agio nei salotti del potere. Nulla di nuovo, si dirà. Anzi deve essere così. Però, per dirla brutalmente, perché sputare nel piatto in cui si mangia? 

Il che non significa dover difendere ciecamente il potere, ma soltanto la necessità di prendere atto che la carne è debole. E che, come scappatoia, esistono i sentieri dell’autoironia. In fondo per tornare a Occhetto, anche Mosè, inciuciava con i faraoni e con le élite egiziane.



Altrimenti, se si persevera nell’ideologia della purezza a tutti i costi, ogni volta si rischia un danno simbolico enorme: che consiste nello sgretolare quel minimo di fiducia pubblica che permette alle società di distinguere la critica dalla propaganda. Il che poi implica il puntalissimo: “Signora mia, anche i profeti non sono più quelli di una volta”.

E quel che è peggio sussiste il rischio di farsi risucchiare – parliamo dell’intellettuale – dal vortice dell’inautenticità: più cala la credibilità, più cresce la retorica dell’apocalisse. Quando mancano gli argomenti, resta la paura; quando manca l’autorevolezza, resta il tono messianico. È il ciclo autodistruttivo di un sistema politico che preferisce l’allarme permanente alla responsabilità quotidiana. Mosè, alla fine, riuscì a far liberare gli ebrei. Occhetto abbaia alla Luna.

La verità è semplice. Per fare buona politica liberale non serve evocare la fine del mondo: basta tornare a riconoscere che la normalità è un valore (cioè stato di diritto, mercati globali, élite transnazionali, buoni affari). La normalità non è una resa, non è un tradimento degli ultimi. È la base materiale e simbolica della democrazia liberale. Mosè era liberale senza saperlo.

Il resto,  dagli anatemi di Occhetto alle amicizie dei guru radicali,  è solo rumore.

Carlo Gambescia

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