lunedì 14 luglio 2025

Sinner. Wimbledon non basta se non fai tappa nei palazzi del potere e parli tedesco

 



Evviva! Jannik Sinner ha vinto. Ancora. Ieri, sul prato verde di Wimbledon, ha offerto al mondo una lezione di tennis e, senza volerlo, anche una lezione di civiltà.

Ma non aspettatevi, da certa stampa organica al potere, prime pagine dedicate, celebrative, titoli a tutta larghezza o inni al talento italiano. No, perché per la destra italiana – quella che oggi governa e si autoproclama “patriottica” – Jannik Sinner non è un simbolo da esaltare. È, semmai, un fastidio da silenziare.

Concediamo che “La Verità”, “il Giornale”, “Libero” ricordano la vittoria. Però a denti stretti. Il peggiore, vendicativo come la sua “padroncina”, è il “Secolo d’Italia”, foglio storicamente legato al mondo missino, oggi megafono disciplinato di Fratelli d’Italia.

Un disprezzo reso plastico e inequivocabile sulla prima pagina: zero notizie sulla vittoria di Sinner a Wimbledon. Nulla. Neanche una piccola foto di taglio basso. Neanche un titolo.

E che c’è al suo posto? Una roboante celebrazione dei “volontari eroi” che hanno salvato il bambino disperso nel Viterbese, con tanto di incensamento della “macchina dei soccorsi”.

Tradotto: prefetto, protezione civile, governo. Un’operazione di propaganda tipica, perfettamente in stile: quando non possono appropriarsi di un simbolo, lo ignorano. E intanto servono il potere.

Che ne sarebbe della libera informazione, se questa gente, parliamo di Fratelli d’Italia in particolare, controllasse tutti i giornali, come controlla il “Secolo d’Italia”?

Ma torniamo a Sinner. Da dove nasce tanta freddezza? Perché questo risentimento, se non addirittura una sottile ostilità? Per comprenderlo, basta ripensare alle polemiche scatenate dalla sua riluttanza a partecipare alle celebrazioni ufficiali.

Per questa ragione diversi commentatori dell’area conservatrice lo hanno  duramente critcato.  Vittorio Feltri lo ha bollato come “ingrato” e “snob”; Marcello Veneziani  ha parlato di “diserzione istituzionale”; Francesco Giubilei, altro opinionista orbitante nell’universo meloniano, lo  ha accusato  di “scarso rispetto per le istituzioni”.

Eppure, Sinner non ha mai fatto una dichiarazione politica. Non ha mai espresso un’opinione anti-governativa. Ha semplicemente seguito l’agenda rigorosa di un professionista dello sport ad altissimo livello, lontano dalle teatrali liturgie del potere italiano. E questo, alla destra, non va giù.

Quanto alla sua residenza a Montecarlo, non c’è nulla da contestare né da scandalizzarsi. Sinner ha scelto Montecarlo ben prima di diventare famoso, nel 2020, come base per la sua crescita sportiva, approfittando delle opportunità offerte da un ambiente internazionale, professionale e stimolante. In una società libera e democratica, ogni individuo ha il diritto di scegliere dove vivere e lavorare, senza dover essere accusato di mancanza di “patriottismo” o di “tradimento”. È una scelta personale e strategica, dettata da esigenze professionali, non da ideologie o schieramenti politici. Attaccare Sinner per questo significa più che altro dimostrare una mentalità chiusa e provinciale, incapace di riconoscere la complessità del mondo moderno e le libertà che esso garantisce.

Perché Sinner è – agli occhi della destra etnica e nazionalista – un italiano sbagliato. È nato a San Candido, in Alto Adige, da famiglia di madrelingua tedesca. Parla italiano con lieve inflessione. È riservato, educato, quasi “nordico” nello stile e nei modi. Non urla, non ostenta, non si presta alla retorica patriottarda. È un italiano moderno, europeo, radicato ma non chiuso. Un italiano che esiste, e vince, nonostante l’idea di italianità tribale e muscolare che la destra continua a proporre.

Dietro il fastidio verso Sinner c’è una pulsione più profonda, e antica: una forma di razzismo sottile, una paura dell’alterità interna, tipica delle destre con radici “missineggianti”, quindi neofasciste. Una destra che non ha mai elaborato davvero il tema della diversità culturale dentro i confini della nazione né fatto i conti con la liberal-democrazia multiculturale. Sinner è “altro”, e quindi non può essere celebrato. Punto.

E così, anche nella vittoria, si cerca di sminuirlo, di raffreddarne l’impatto, di marginalizzarlo. Nessuna prima pagina, nessun titolo.

Nel passato, invece, quando i protagonisti dello sport – come Matteo Berrettini o Marcell Jacobs – sembravano più allineati alla retorica nazionalista o più disponibili ai rituali del potere, la destra non si faceva problemi a usarli come simboli da esibire. Di conseguenza si glorificano, a dispetto, i soccorritori come fossero i nuovi centurioni della patria, e per contro si ignora l’uomo che sta portando l’Italia in cima al tennis mondiale.

Per quale ragione? Perché non serve alla retorica identitaria della destra. Non è utile al romanzetto italiota, tanto per fare alcuni nomi, vergato da Meloni, La Russa (a proposito, “auguri” al figlio, Geronimo, neopresidente dell’Aci, antico presidio democristiano), Lollobrigida, Mollicone. E quindi va messo da parte.

Ma Jannik Sinner continua a vincere. A rappresentare un’Italia che non ha bisogno di divise, bandiere sventolate, o strette di mano col potere per esistere.

Un’Italia che lavora, che studia, che rispetta le regole e che sa competere con il mondo senza urlare, senza piangersi addosso, senza cercare l’applauso di partito.

Un’Italia che parla magari con accento altoatesino, ma esprime valori profondamente nazionali: serietà, merito, dignità. Però anche aperta al mondo: che crede in una società universalista, moderna, quindi nell’ubi bene, ibi patria, dove l’identità non è un recinto ma un ponte.

Un’Italia che non ha bisogno di sventolare tricolori per sentirsi nazione.

Concludendo, è proprio questa normalità che manda in crisi una destra che nulla ha imparato, nulla ha dimenticato, abituata al culto dell’identità come esclusione.

Carlo Gambescia

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