giovedì 10 ottobre 2024

Meglio un parlamento che ride e deride di nessun parlamento

 


Mattia Feltri si rende conto dell’aiutino offerto ai fascisti?

Veniamo subito ai fatti. Nel “Buongiorno” di questa mattina sembra mettere  sullo stesso piano lo stile criptico del Ministro della Cultura e la risposta derisoria di Gaetano Amato, parlamentare di Cinque  che evoca  la “supercazzola” di Alessandro Giuli.

Qui la domanda è alla Marzullo: è meglio fingere di sapere (Giuli, poi spiegheremo perché)? O ridere del proprio non sapere (Amato)?

Feltri, ne approfitta, e gli perdoniamo la solita citazione su quanto erano colti Togliatti e Croce, che  dibattevano in latino, per parlare male di un aspetto delle istituzioni parlamentari: quello della selezione delle élites. Oggi precipitata così in basso… Insomma, “Non dura, non dura minga…”.

In realtà si tratta di un problema molto più generale. Connaturato al parlamentarismo.

In Italia la storia della democrazia rappresentativa, fin da quando i primi socialisti vennero eletti alla camera, verso la fine dell’Ottocento, ha visto combattersi due tendenze: da un parte si proclamava lo scollamento tra paese reale ( gli elettori) e paese legale (gli eletti), dall’altro, per così dire l’ “incollamento” più verso il  basso che verso l'alto.

Tra i primi c’erano coloro che votavano per i socialisti, tra i secondi i nemici del suffragio universale. Sullo sfondo un’Italia, di eletti ed elettori, che da allora non è mai del tutto cambiata, se non nella distribuzione del reddito e del tempo libero.

Cosa vogliamo dire? Che, dall’Unità ad oggi, come mostrano gli storici, la percentuale dei laureati in parlamento ha sempre ruotato intorno al 2, 2 e mezzo, su 3. Con punte più elevate nel Senato per nomina reale (fino al 1946).

Va osservato che nel frattempo la cultura da elitaria si è fatta di massa. Però, nonostante l’alfabetizzazione pressoché totale della popolazione, il latino, non lo si capiva cento anni fa e non lo si capisce neppure oggi. Anche in parlamento. E quindi è inutile evocare Croce e Togliatti.

Mattia Feltri sogna il mondo perfetto. E sulla base di queste coordinate idealizzanti traccia linee immaginarie di un Parnaso parlamentare mai esistito. Come le vecchie zie di Longanesi.

Però, fino a un certo punto. Perché, sotto sotto, difende Giuli, deriso, come nel 1922 si deridevano, anche giustamente, i fascisti ex combattenti, che proprio perché tali, avevano goduto all’università di una specie di “scivolo” patriottico per i reduci di guerra. E c’era chi rideva, e fragorosomente, della laurea in legge ( e degli strafalcioni) di Farinacci e di altri camerati, passati direttamente dalle elementari all’università.

Per Giuli si potrebbe parlare di “scivolo” governativo. Ma non è neppure questo il punto. Giuli, pur essendo a suo modo acculturato rispetto alla media dei “buca…sasso… buca con acqua...”, commette il solito errore del miracolato. Con una aggravante: come molti intellettuali del suo ambiente, “esule in patria” non si accontenta di vincere, vuole stravincere puntando sui paroloni (“tanto sono tutti ignoranti o minorati, eccetera, eccetera”). Diciamo “nobile nella sconfitta”, meno nobile nella vittoria.

La pensa ancora come i contrari al suffragio universale. Tratta il parlamentare medio come una merda (pardon). Che poi è lo stesso errore in cui incorre Mattia Feltri.

In ogni caso, Giuli prova di non essere migliore di coloro che l’hanno deriso. Quel che stiamo per dire, può apparire presuntuoso, ma non meno utile per capire, anche più in generale, quanto sia superficiale e confusionario il raffazzonato mondo culturale da cui proviene Giuli.

Non è stato notato che il Ministro della cultura parla di “ontologia intonata alla rivoluzione permanente”. Qualsiasi professore di filosofia di scuola media (non parliamo di Togliatti e di Croce) inarcherebbe subito il sopracciglio. E ce ne sono tuttora anche in parlamento. Ma tacciono.

Perché? Innanzitutto, spieghiamo la castroneria. L’ontologia come dice l’etimologia della parola stessa, è un discorso sull’ Essere, non sul Divenire. Ergo: l’ Essere non è il Divenire. A non è B. Quindi non si può fissare (ontologia) ciò che è non è possibile fissare (rivoluzione permanente). Un laureando in lettere dovrebbe conoscere il principio aristotelico di non contraddizione.

Ma per quale ragione non se n’è parlato ? Perché resta più facile da capire per tutti (quindi anche all’esterno, tra la gente), la metafora della supercazzola usata da Gaetano Amato, deputato di Cinque Stelle.

Ecco il vero punto, la colpa non è del parlamento, o della cattiva selezione delle élites, ma della cultura di massa. Segno distintivo, da almeno un secolo della nostra società. Con la quale la politica deve comunque rapportarsi.

Croce, sapeva scherzare, e farsi capire da tutti. Quando i fascisti, gli entrarono in casa, disse che aveva ricevuto la visita dello Stato Etico… Togliatti non era da meno. Si ricordi la polemica, contro Vittorini, che “se n’ è ghiuto”…

Ma non è neppure cosa di cultura di massa. O almeno non del tutto.

Il problema, ripetiamo, non è il parlamento della Seconda o Terza Repubblica italiana, ma  il  rapporto odio-amore tra eletti ed elettori che ha sempre caratterizzato fin dall’inizio la storia dei parlamenti liberali. Si leggano le cronache politiche del Settecento britannico, piene zeppe di insulti e accuse, le più varie: e quella non era ancora una società di massa.

L’elettore, di suo, non ama l’eletto. L’equilibrio è difficile: si va dall’amore folle, all’odio delle piazze. Dentro l’elettore c’è l'invidia, l’ egoismo, il malanimo, il risentimento.  Spesso ricambiato. 

Il parlamento, sotto il profilo esistenziale, è una specie di camera di compensazione delle passioni, spesso le più cattive. E una risata è sempre meglio di una pistolettata.

Pertanto, battute sdramatizzanti come la supercazzola, vanno accettate. Senza idealizzazioni. O lagne. Il buon tempo antico non è mai esistito. Bisogna esserne consapevoli. Soprattutto quando questo atteggiamento da laudator temporis acti, come nel caso di Mattia Feltri (che capisce il latino), rischia di favorire una parte politica, quella da cui proviene Giuli, che fece strame del parlamento. E che ancora non ha chiarito nulla.

Insomma, il principio da osservare è molto semplice: meglio un parlamento che ride e deride di nessun parlamento.

Carlo Gambescia

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