sabato 4 aprile 2015

Ancora sul giornalismo post-aennino
Quattro sfumature di nero



Qualche  giorno fa abbiamo pubblicato il  "meta-menabò"  del  giornalismo post-aennino (*), per provare che il lupo, pur perdendo il pelo (del potere),  non  ha  perduto  il vizio (della camicia nera). Ciò  però  non significa che le capacità mimetiche, acquisite nel ventennio della pacchia, (Tedeschi  padre docet),  stavolta quello  berlusconiano,  siano andate perdute. Anzi. 
Pubblichiamo quattro coccodrilli, scritti dalla stessa mano,  piuttosto brava,  dove il fascismo acclarato del De cuius,  cambia tono  in base alla linea editoriale della testata.  Si può parlare,  per essere alla moda,  di quattro sfumature di nero:  si  passa dal nero-tartufo, dico non dico, dove la si butta sul “ribelle” (“il Tempo.it”) al  classico  nero-orbace, duro e puro, quello del “Presente!”  (“Barbadillo.it”);  dall’elegante nero-oro accademizzante  del “Fascista senza Mussolini”, titolo di un libro  che però, concettualmente, va contromano, rispetto al pensiero dell'articolista...(“Totalità.it”) al  nero-blu  dalle  sfumature conservatrici , dove, quando si dice il caso, sparisce, con abilità degna del mago Silvan, il termine fascista ("Destra.it").  Si potrebbe anche parlare di "meta-coccodrillo".
Nulla di personale, perché non conosciamo l’estensore degli articoli, come del resto  lo scomparso che,  stando a quel che  si legge,  doveva essere, professionalmente, molto in gamba. Che la terra gli sia lieve.    
Come  usano fare gli etnologi che indagano le  tribù primitive,  abbiamo  raccolto manufatti (verbali) e studiato i rituali (post mortem, in tutti sensi) del giornalismo neofascista, altri ne verranno (in vista di un libro).  Per l'antropologo  non conta  il singolo  ma  la subcultura collettiva del gruppo  tribale analizzato: una  destra che pareva aver conseguito,  grazie al “culto del cargo” berlusconiano,  un certo grado di civilizzazione liberal-democratica.  E invece…
Carlo Gambescia

Nero-Tartufo (“il Tempo.it”)

IL RICORDO

Rubei, il ribelle scanzonato tra i Campi Hobbit e il Jazz

Oggi alle 10 a Monteverde i funerali del fondatore dell'Alexanderplatz


Secondo un aneddoto molto diffuso a Roma, che deve essere qualcosa di più di un aneddoto se non altro perché Giampiero Rubei me lo confermò personalmente più di una volta, l'Alexanderplatz di via Ostia a Roma, il primo Jazz Club d'Italia, a cui il suo nome è ormai indissolubilmente legato, nacque da un equivoco.
A metà degli anni '80 Rubei - già segretario della sezione del MSI di Monteverde, fondatore a fine anni '70, insieme a Generoso Simeone, dei famosi "Campi Hobbit" in cui almeno due generazioni di militanti di destra avevano provato a misurarsi davvero con la modernità e i suoi linguaggi, dalla musica al fumetto, dalle radio libere all'ecologia - era ancora un esponente autorevole del partito e fu a lui che il Segretario Nazionale, Giorgio Almirante, chiese di dare vita a un circolo culturale nel centro della Capitale. Peccato che Almirante avesse a modello il Circolo degli Scacchi e che Giampiero decidesse invece di mostrargli un seminterrato, proponendogli di dare vita a un Jazz Club, secondo una formula di successo all'estero, ma ancora inapplicata in Italia. Inutile dire che Almirante disapprovò l'idea, ma a quanto pare la cosa non solo non scoraggiò Rubei, ma anzi gli fu di incentivo.
D'altronde cosa aspettarsi da un uomo che, senza per questo mai contraddire una limpida e inossidabile coerenza e una precisa visione del mondo, è sempre stato prima di tutto curioso, creativo, audace, senza pregiudizi e senza paraocchi, insomma in una parola un uomo profondamente libero?
Giampiero non era un esperto di Jazz nel 1984, ma con passione, determinazione, entusiasmo ha saputo diventarlo; ha saputo fare dell'Alexanderplatz un locale celebre in Italia e nel mondo, da cui sono passati tutti - senza eccezione - i grandi talenti del Jazz nazionale, da Di Battista a Bollani, da Roberto Gatto a Enrico Pieranunzi e molte stelle del Jazz internazionale, come Michael Brecker, Chick Corea, "Chet" Baker. Anzi, come da un albero rigoglioso, dall'Alexanderplatz sono germogliate negli anni manifestazioni diventate altrettante pietre miliari, a cominciare dal Festival Jazz di Villa Celimontana, autentica icona dell'Estate Romana e che è all'origine della viva amicizia che fino all'ultimo lo ha legato a Gianni Borgna, un uomo da cui lo separavano totalmente le idee politiche, ma in cui ha sempre riconosciuto uno spirito affine. Senza dimenticare naturalmente il Festival Jazz di Montalcino o la splendida avventura - che ebbi la fortuna di condividere - di portare una vera e propria squadra di grandi interpreti italiani del Jazz a suonare in alcuni dei più famosi Jazz Club di New York.
Con Rubei (i funerali si terranno oggi alle 10 in Piazza Rosolino Pilo), Roma e l'Italia hanno perso un grande organizzatore e imprenditore culturale, un uomo stimato ovunque, ma anche una persona esemplare nel senso letterale del termine, cioè da prendere ad esempio. Un ribelle sorridente e scanzonato, ironico e autoironico e nello stesso tempo un uomo capace di restare per tutta la vita fedele a se stesso, alla propria storia, a tutti i propri amici.
Quanti, in coscienza, possono dire lo stesso di sé stessi?
Alex Voglino 
Nero-orbace ("Barbadillo.it")

Giampiero Rubei il cuore grande di un ribelle con il sorriso che sdoganò il jazz a destra

Superò gli ostracismi e inventò a Roma il celebre Alexander Platz. Poi creò gli incontri estivi di villa Celimontana


Se ne è andato Giampiero Rubei. Se ne è andato all’improvviso, lasciandoci – lasciandomi – a bocca aperta e con il cuore a pezzi.
E’ davvero un pezzo di storia che se ne va (e un pezzo di me stesso, anche se questo è un fatto privato e giustamente non interessa agli altri).
Un pezzo di storia di Roma, prima di tutto, sia per chi lo ricorda fra gli scaffali pieni di libri di via degli Scipioni, dove mi convinse 40 anni fa a comperare il libro di Dumezìl sulla tripartizione funzionale dei popoli Indoeuropei, sia per la straordinaria avventura – culturale e imprenditoriale – dell’Alexander Platz e del Festival di Villa Celimontana che ne fu naturale spin off, diventando un appuntamento storico dell’Estate Romana.
Ricordo ancora come fosse ieri le appassionate discussioni al primo Campo Hobbit, nel ’77, dove io e Marzio Tremaglia (che rispetto a loro eravamo ragazzini) ragionavamo di tradizione e modernità, di valori fondanti e di strategie politiche con lui e Rutilio Sermonti.
Poi ci siamo persi di vista per parecchio tempo, fino a quando – proprio insieme a Marzio Tremaglia, che era diventato nel frattempo assessore alla Cultura della Regione Lombardia – comincai nel ’95 a occuparmi, dalla parte della Pubblica Amministrazione, di politiche culturali.
Fu l’inizio di una straordinaria avventura quasi quotidiana e durata oltre 15 anni, intensificatasi anzi a partire dal 2002, quando passai alla Regione Lazio e con Giampiero ci inventavamo una cosa al giorno: Celimontana on the road, i concerti jazz sulle isole, Buon Anno Jazz, Jazz&Books e chi più ne ha più ne metta. Una straordinaria avventura e – suprattutto – una avventura irripetibile e non solo perché Giampiero non c’è più, ma perché tutto un mondo a cui aveva dato così tanto (in termini di energia, di passione, di intelligenza, di coraggio fisico e intellettuale, di esempio) gli è naufragato intorno in questi ultimi anni, mettendo miseramente fine a una stagione che i pochi uomini come lui avevano reso eroica, ma che tanti altri hanno invece vanificato e condannato a una fine miserabile.
Chissà se Giampiero continuerà a guardare ogni tanto alle nostre cose terrene o se questo trapasso – per noi così tremendamente precoce – lo ha invece preservato da ulteriori e ancora più grandi delusioni.
Conoscendolo continuerà ad arrabbiarsi, ma senza mollare mai, anche nella sua nuova forma di esistenza.
Giampiero Rubei, presente! Mi manchi già da morire.

Alex Voglino  

Nero-oro ("Totalità.it")

Giampiero Rubei il cuore grande di un ribelle con il sorriso che sdoganò il jazz a destra

Superò gli ostracismi e inventò a Roma il celebre Alexander Platz. Poi creò gli incontri estivi di villa Celimontana


Come ben sanno quelli che gli sono stati davvero amici, Giampiero Rubei amava raccontare un aneddoto (che poi aneddoto non è, ma pura tradizione orale) circa la nascita dell’Alexander Platz (il mitico locale jazz di via Ostia a Roma, da cui sono passati tutti i grandi del jazz italiano degli ultimi trent’anni, da Di Battista a Gatto, da Danilo Rea a Enrico Pieranunzi e molti grandi di quello internazionale, da Chet Baker a Chick Corea e Michael Petrucciani).
L’allora Segretario del MSI, Giorgio Almirante, aveva chiesto a Giampiero - che era un autorevole esponente del partito nella Capitale – di organizzare un circolo culturale nel cuore della città e Rubei era saltato fuori con lo scantinato di via Ostia e l’idea di creare il primo jazz club d’Italia, mutuando una fortunata formula anglosassone.
Almirante inorridì, spiegando a Rubei che quello che aveva in mente lui era una sorta di Circolo degli Scacchi e non certo un locale fumoso ed equivoco in cui si facesse musica afroamericana.
Rubei – che era Rubei – se ne fregò altamente e perseguì per conto proprio quella intuizione, destinata a dimostrarsi per decenni un’idea vincente, sia tramite il successo indiscusso del locale, oggi noto a livello internazionale, sia attraverso fortunatissimi spin off quali il Festival Jazz di Villa Celimontana - diventato un’icona dell’Estate Romana – e il Jazz Festival di Montalcino.
Ho voluto ricordare questo aneddoto, tanto caro a Giampiero, perché secondo me racconta in modo esemplare l’uomo Rubei: un ribelle geniale, un uomo profondamente libero, un uomo di cultura e di azione nello stesso tempo, secondo un modello antropologico che dal secondo dopoguerra in avanti in Italia non si è più visto.
Un uomo soprattutto – e ci tengo in maniera particolare a sottolinearlo – che a differenza di tanti altri ha saputo dimostrarsi imprenditore, organizzatore culturale e di spettacolo, interlocutore di artisti e intellettuali, uomo d’avanguardia, senza mai tradire se stesso, la propria storia, il proprio passato che – per Giampiero – è stato sempre identico al presente.
Per affermarsi e perseguire il suo trentennale successo personale, Giampiero Rubei non ha avuto bisogno di smarrirsi in labirinti intellettuali e onanismi accademici, sputando nel piatto in cui per tanto tempo aveva mangiato; non ha dovuto avventurarsi in improbabili Imrama fra verdi, forcaioli, nuovi e vecchi marxisti; non ha dovuto fare ostentazione di qualunquismo come qualche resistibile spacciatore di canzonette.
No, Giampiero Rubei è sempre serenamente, limpidamente, inequivocabilmente rimasto un “fascista senza Mussolini” (per mutuare il fortunato titolo di un libro di Giuseppe Parlato), anzi un fascista malgrado Mussolini: uno di quelli che avevano capito per tempo e da tempo che c’è più fascismo in “Carta da Visita” di Ezra Pound che in tutti i discorsi e gli scritti del Duce; più viatico rivoluzionario nel “Processo alla Borghesia” di Sulis e Berto Ricci che nell’intero “Capitale” di Marx.
E questa consapevolezza in Giampiero si è sempre trasformata non solo in una straordinaria carica vitale, ma anche in quella capacità di ironia e di autoironia che ne ha fatto un uomo “esemplare” proprio nel senso in cui Eliade usava questo aggettivo a proposito del Sacro.
Il mondo con e senza Giampiero Rubei non è lo stesso. 
L’ho capito davvero solo giovedì, quando la notizia della sua morte mi ha fulminato al telefono.
Che stupido sono.
Chissà se il cuore grande di Giampiero mi perdonerà ancora una volta
Alex Voglino  


Nero-blu  ("Destra.it")

Giampiero, il cuore grande di un ribelle con il sorriso

 Come ben sanno quelli che gli sono stati davvero amici, Giampiero Rubei amava raccontare un aneddoto (che poi aneddoto non è, ma pura tradizione orale) circa la nascita dell’Alexander Platz (il mitico locale jazz di via Ostia a Roma, da cui sono passati tutti i grandi del jazz italiano degli ultimi trent’anni, da Di Battista a Gatto, da Danilo Rea a Enrico Pieranunzi e molti grandi di quello internazionale, da Chet Baker a Chick Corea e Michael Petrucciani).
L’allora Segretario del MSI, Giorgio Almirante, aveva chiesto a Giampiero – che era un autorevole esponente del partito nella Capitale – di organizzare un circolo culturale nel cuore della città e Rubei era saltato fuori con lo scantinato di via Ostia e l’idea di creare il primo jazz club d’Italia, mutuando una fortunata formula anglosassone.
Almirante inorridì, spiegando a Rubei che quello che aveva in mente lui era una sorta di Circolo degli Scacchi e non certo un locale fumoso ed equivoco in cui si facesse musica afroamericana.
Rubei – che era Rubei – se ne fregò altamente e perseguì per conto proprio quella intuizione, destinata a dimostrarsi per decenni un’idea vincente, sia tramite il successo indiscusso del locale, oggi noto a livello internazionale, sia attraverso fortunatissimi spin off quali il Festival Jazz di Villa Celimontana – diventato un’icona dell’Estate Romana – e il Jazz Festival di Montalcino.
Ho voluto ricordare questo aneddoto, tanto caro a Giampiero, perché secondo me racconta in modo esemplare l’uomo Rubei: un ribelle geniale, un uomo profondamente libero, un uomo di cultura e di azione nello stesso tempo, secondo un modello antropologico che dal secondo dopoguerra in avanti in Italia non si è più visto.
Un uomo soprattutto – e ci tengo in maniera particolare a sottolinearlo – che a differenza di tanti altri ha saputo dimostrarsi imprenditore, organizzatore culturale e di spettacolo, interlocutore di artisti e intellettuali, uomo d’avanguardia, senza mai tradire se stesso, la propria storia, il proprio passato che – per Giampiero – è stato sempre identico al presente.
Per affermarsi e perseguire il suo trentennale successo personale, Giampiero Rubei non ha avuto bisogno di smarrirsi in labirinti intellettuali e onanismi accademici, sputando nel piatto in cui per tanto tempo aveva mangiato; non ha dovuto avventurarsi in improbabili Imrama fra verdi, forcaioli, nuovi e vecchi marxisti; non ha dovuto fare ostentazione di qualunquismo come qualche resistibile spacciatore di canzonette.
Alex Voglino 

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