Il libro della settimana: Isaiah,
Berlin, L’età
romantica. Alle origini del pensiero politico moderno, a cura di Henry Hardy, con una
introduzione di Joshua L. Chermiss, Bompiani, Milano 2009, pp. 431, euro 25,00.
Non è facile definire il liberalismo
sulla base di una pura e semplice contrapposizione tra individuo e stato. O
ancora peggio su quella tra stato e mercato. La questione infatti è piuttosto
complessa. Sotto questo aspetto un valido aiuto interpretativo è sicuramente
rappresentato dall' opera di Isaiah Berlin. Presentiamolo.
Isaiah Berlin (1909-1997) è un pensatore liberale “diverso”, al quale Norberto
Bobbio rimproverava che per argomentare il suo liberalismo, ricorresse ad
autori poco liberali come Machiavelli, Vico e Sorel… In effetti Berlin, da
autentico storico delle idee, si è sempre mosso a suo agio, tra i pensatori più
diversi, cogliendone genialmente contraddizioni e potenzialità.
Nato a Riga, ma presto trasferitosi con la famiglia in Gran Bretagna, che
diverrà la sua patria d’adozione e d’insegnamento, Berlin era e resta un
modello di raffinato “saggismo” universitario. Ma rimane anche un instancabile
critico del dogmatismo: da quello comunista a quello liberista. Ha pubblicato
ottimi libri come Il riccio e la volpe (Adelphi 1986), Il legno
storto dell’umanità (Adelphi 1994), Il senso della realtà
(Adelphi 1998), i Four Essays on liberty (raccolti poi nel volume La
libertà, Feltrinelli 2005).
Va perciò accolta con vero piacere la pubblicazione de L’età romantica.
Alle origini del pensiero politico moderno ( a cura di Henry Hardy,
introduzione di Joshua L. Cherniss, Bompiani, Milano 2009, euro 25,00). La cui
stesura definitiva, legata a un corso di lezioni americane tenute da Berlin nel
1952, doveva sfociare in un testo, in realtà trascinatosi per anni, fino a
trasformarsi nel classico libro della vita, uscito postumo in lingua originale
nel 2005.
Innanzitutto il volume è utilissimo per chiunque voglia accostarsi al pensiero
di Berlin, perché, come nota nell’introduzione Joshua L. Cherniss, è possibile
ritrovarvi, “una accanto all’altra”, e non disperse nell’immensa produzione
saggistica di Berlin, “ in forma embrionale gran parte delle (sue) concezioni”
e degli “interessi speculativi che avrebbero dominato il lavoro di Berlin nelle
successive tre decadi”: il suo concetto di libertà; la critica del determinismo
storico; l' analisi, dell’Illuminismo, anche in relazione alla successiva
critica romantica, reazionaria, storicista e socialista.
Ma il libro è particolarmente importante per un'altra ragione. Sul piano della
storia delle idee L'età romantica offre ai lettori un magistrale
ritratto del pensiero politico romantico come culla del liberalismo, ma con le
sue luci e ombre. Al punto che andrebbe letto insieme a Romanticismo
Politico di Carl Schmitt. Un testo famoso, quest'ultimo, dove il giurista
e politologo tedesco criticò l'occasionalismo politico del romanticismo: un
atteggiamento che, a suo avviso, spingeva l’intellettuale romantico a sposare
"all'occasione" cause politiche anche opposte (progressiste e
reazionarie), pur di cambiare il mondo esistente. Magari con la forza.
L'esatto contrario della tesi di Berlin. Per il quale
l'idea liberale invece si rafforzò proprio attraverso il conflitto storico con
l'esistente. Coagulandosi intorno alla dicotomia, tutta liberale, tra libertà
positiva, frutto di certo pregresso illuminismo costruttivista rivolto a
"fabbricare" istituzioni capaci di liberare l'uomo e libertà
negativa, legata invece più propriamente alla visione romantica, e dunque
antideterministica e creativa. E dominata da un uomo in perenne conflitto con
qualsiasi forma di vincolo istituzionale.
Semplificando: dove Schmitt scorge il conflitto per il conflitto, inglobando
liberali e reazionari, tutti romanticamente in lotta con il proprio tempo,
Berlin nota un conflitto tra paradigmi liberali differenti. O per farla breve:
tra Rousseau e Tocqueville; tra libertà giacobina e libertà liberale: da un
lato la libertà come accettazione di vincoli per favorire il libero sviluppo
dell’individuo, dall’altro libertà come assenza di vincoli, per conseguire lo
stesso obiettivo. Insomma tra liberalismo cattivo e liberalismo buono.
A questo proposito scrive Berlin:
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“Ogni teoria giacobina o totalitaria che
consenta a singoli individui o a gruppi di individui di imporre la propria
volontà sugli altri, sia che a questi vada bene oppure no, non in nome di un
contratto cui gli altri abbiamo partecipato consapevolmente, né per ragioni
utilitaristiche, né in nome di astratti principi del tutto avulsi dalla volontà
umana, ma in nome del vero io di questi altri, che essi affermano di voler
liberare proprio con la coercizione -‘obbligare a essere liberi’ - è vera erede
di Rousseau. Ci possono essere molte valide ragioni per la coercizione, e in
circostanze eccezionali persino per i metodi de terrore (…), ma sostenere che
l’uso della forza e del terrore possa essere effettivamente voluto da coloro
contro i quali il terrore è diretto è un odioso insulto” ( pp. 241-242).
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In buona sostanza, secondo Berlin il nodo politico del
romanticismo liberale, come risposta all'illuminismo costruttivista giacobino,
ruota intorno alla questione delle questioni, proprio dal punto divista
liberale: se l’uomo debba essere educato o meno alla libertà; e se sì, da chi.
La risposta di Berlin, a differenza di quella di Schmitt, il quale da
antiliberale non seppe, o non volle, distinguere tra le due forme di libertà, è
che l’uomo debba essere lasciato libero di auto-educarsi alla e nella libertà.
Ferma restando, in Berlin, la visione realista. Si dirà anche Schmitt era
realista. Certo, ma il plusvalore di Berlin rispetto al pensatore tedesco è
rappresentato dall' essere liberale e realista al tempo stesso. Fedele,
insomma, a un liberalismo dei piccoli passi e in certo senso malinconico. Perché
consapevole dei limiti insiti nella natura umana e dell'importanza delle
istituzioni frutto della spontanea e intenzionale cooperazione tra uomini
liberi. E qui Berlin segue una linea di pensiero liberale che in chiave ideale
da Tocqueville giunge fino ad Aron e alla Arendt, passando per Ortega. Schmitt,
invece, per farla breve, pur nella sua grandezza, butta il bambino (liberale),
con l'acqua sporca della sua pur giusta critica al formalismo liberale.
Un approccio, quello di Berlin, consapevole della pericolosità del crudo
realismo politico alla Schmitt (come antidoto all'occasionalismo del
romanticismo politico), ma anche delle visioni salvifiche, pronte ad assumere
anche veste liberale... Come quella, oggi molto in voga, puramente
economicista, e ristretta alla sola libertà di mercato e al culto di una mano
invisibile, celebrata come una sorta di provvidenza laicizzata.
E, a questo punto dovrebbe esser chiara, la diffidenza di
Berlin verso le visioni liberali fondate sia sull'armonia naturale, o inintenzionale,
degli interessi individuali (Adam Smith) sia verso quelle basate sull'armonia
artificiale degli interessi privati, gestita dalle pubbliche istituzioni
(Jeremy Bentham). Un atteggiamento di pensiero che tuttavia ne rivela anche i
limiti: Berlin, infatti, finisce per diffidare di tutti. Persino degli stessi
liberali. Ne consegue la difficoltà, ripetiamo, di individuare nella sua opera
le linee ricostruttive di un liberalismo politico. Attento in chiave
ricompositiva alle questioni della decisione, dell'organizzazione e del
conflitto, poste - e giustamente - proprio da Carl Schmitt. Del resto a uno
storico delle idee, per quanto grande, non si doveva e deve chiedere troppo.
Comunque sia, un libro da non perdere. E soprattutto, per chiunque esiti ancora
a leggere Berlin, un'ottima occasione per scoprire un eccellente pensatore.
Liberale sì, ma con juicio.
Carlo Gambescia
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