Il voto del 20 e 21 settembre
Un referendum che consacra il populismo
Cari
lettori, vi sembra politicamente normale
(nel senso della democrazia liberale) il
titolo del “Fatto Quotidiano”? Chiunque
usi ancora la testa non può che rispondere no. Per quale ragione? Perché siamo
davanti alla quintessenza del populismo, alla bieca e scorretta
giustificazione della forza
schiacciante del numero: dei molti
contro i pochi, ossia le “odiate” élite (parlamentari e non).
I populisti non credono nella forza di gravità politica, ritengono, per usare un’ abusata metafora,
che le acque di fiumi e torrenti risalgano dal basso verso l’alto. Insomma, in altri termini, credono che le élite siano
un’invenzione di qualche genio cattivo e non una costante metapolitica,
storicamente, sociologicamente e geograficamente constatabile ovunque, a prescindere dal regime politico. Di qui la balzana idea populista di invertire il corso delle acque della storia e della sociologia, puntando
sulla democrazia diretta e la soppressione, per ora fin dove possibile, delle élite dirigenti,
cominciando da quelle politiche. Una lotta, come detto, contro la forza di
gravità della politica. Una lotta che, storicamente parlando, è sempre sfociata nel potere assoluto di comitati di salute pubblica, dittatori e
tiranni.
Il
populismo, come si evince dal titolo del “Fatto Quotidiano”, rimanda
ideologicamente a un mix di demagogia,
complottismo, risentimento, arroganza, ignoranza. Ciò significa che il referendum del 20 e 21 settembre - attenzione, il solo porlo - rappresenta la "consacrazione" politica dell’ideologia
populista.
Entriamo
nei dettagli.
La
demagogia risiede nel far credere alla gente che il taglio secco di 345 deputati su 945 sia la via più breve
alla democrazia. Sul piano cognitivo ciò significa rifiutare
qualsiasi ragionamento astratto e complesso, per diffondere l’idea, molto concreta ma semplicistica, quindi
comprensibile per tutti, che tagliare una testa o delle teste, per ora in senso
metaforico, sia la via più facile per far funzionare un sistema politico. In realtà, dietro la demagogia si nasconde la
semplificazione cognitiva, tipica proprio delle forme referendarie: un Sì o un
No, senza tanti ragionamenti. O se si preferisce, siamo davanti al trionfo della democrazia emotiva sulla democrazia ragionata (e ragionevole), tipica della democrazia rappresentativa di ispirazione liberale.
Il
complottismo rinvia a una visione a
dir poco parziale e malevola della realtà economica e sociale. I sindacati non
sono forse un gruppo di pressione? Un “potere forte” che in larga parte è per il Sì ai tagli. Allora anche questo è un complotto contro il popolo? La
Rai monopolio pubblico e per due terzi abbondanti nelle
mani del Governo, quindi schierata per
il Sì, non è un potere forte? Anche qui
si tratta di un complotto ?
Il
risentimento rimanda a un
atteggiamento, a dire il vero assai
diffuso tra la gente, frutto di
una altrettanto estesa credenza
nell’obbligo che l’uguaglianza dei punti di partenza debba essere
sostituita dall’uguaglianza dei punti di arrivo. Un obiettivo impossibile da
conseguire, perché gli individui sono profondamente diversi, gli uni dagli
altri, per volontà, intelligenza e altre qualità morali. Si tratta di un’utopia che però serve a consolare
falliti e incapaci. Fantasie che tuttavia, piaccia o meno, contribuiscono alla crescita del risentimento sociale verso chiunque ce l’abbia
fatta.
L’arroganza rinvia al senso di superiorità che viene
fatto risiedere nel valore assoluto di un’idea e nella conseguente necessità di
farla trionfare. Nel caso in particolare si tratta di una concezione semireligiosa della sovranità
popolare. Ci si nasconde dietro la parola popolo, come un tempo dietro la
parola dio, per perseguire i suoi nemici, come una volta si dava la caccia a
diavoli e streghe. Pertanto un
referendum, come quello del prossimo 20-21 settembre, viene arrogantemente
presentato come una specie di moderno
giudizio di dio, con il “popolo” ovviamente al posto di quest’ultimo.
L’ignoranza rinvia alla scelta,
intenzionale o meno, di ignorare tutta la letteratura scientifica che dimostra
come la democrazia rappresentativa dipenda non tanto dal numero dei deputati ma
dalla qualità. Una questione che rinvia alla formazione e selezione, quindi circolazione,
delle élite dirigenti ( non solo politiche). In Italia purtroppo la bassa qualità degli studi, frutto, sul piano delle idee sociali, della sostituzione dell’uguaglianza di
partenza con quella di arrivo (diplomi e lauree facili per tutti), nonché
certo familismo amorale distruttore di qualsiasi senso dello
stato (di diritto), non hanno permesso, soprattutto negli ultimi venticinque anni, ai meccanismi di selezione sociale delle
élite di funzionare come invece dovevano.
Da
ultimo, resta veramente singolare, a partire dalla linea politica del “Fatto
quotidiano”, e dei populisti in genere ( a destra come a sinistra), il riferirsi
gaiamente al fatto che anche altri paesi europei, dalla Francia alla Germania,
si appresterebbero a tagliare i deputati.
Il
punto è che il populismo ormai detta l’agenda politica, addirittura sul piano mondiale, come attesta il successo di un bizzarro personaggio come Trump. Di conseguenza i partiti tradizionali, pur
di non perdere voti, a loro volta “populisteggiano”. O meglio, per dirla in termini politologici, cercano di legittimare il populismo, puntando sulla mimesi politica, seppure per ora in maniera selettiva.
Tecnicamente,
si ripete l’errore commesso dalle democrazie liberali con Mussolini e Hitler. Allora si tentò di
recepire alcuni contenuti politici dei loro movimenti sperando, per un verso di riguadagnare il
favore popolare, per l’altro di costituzionalizzare gli estremisti.
Però,
la debolezza politica, come noto, non pagò.
Carlo Gambescia