Che cos'è la destra?
Joseph de Maistre (si può ancora citare?) ha giustamente sostenuto
che non esiste la libertà in astratto, ma esistono le libertà in concreto,
relative a un certo contesto storico. E
lo stesso vale per l’idea di destra. Non esiste una destra “in assoluto”, una
“destra divina”, ma esistono tante destre “in relativo”, sulla base delle
diverse situazioni storiche e politiche. Sappiamo che la destra Estiqaatsi
alla
Lillo e Greg - perché ora c’è pure quella… - farà fatica a seguire il ragionamento, ma
non per colpa nostra.
Dicevamo
destre “in relativo”. Bene, si tratta di
un fatto storicamente comprovato. E a
partire dal 1789. Anno canonico, da cui gli storici, sulla base
della disposizione fisica all’interno dell’ Assemblea Rivoluzionaria (tra
coloro che erano favorevoli oppure contrari al diritto di veto del re), fanno iniziare la dicotomia destra-sinistra.
Cui seguirà - ecco il punto - una crescente “libanizzazione” della destra,
che per tutto l’Ottocento si scomporrà in varie tendenze, spesso in conflitto:
monarchici divisi per rami
dinastici, clericali, bonapartisti, cattolici conservatori,
cattolici liberali, conservatori tout
court , liberal-nazionali, nazionalisti antidemocratici, antiliberali e
antisocialisti.
Ma
non vogliamo farla troppo lunga. Diciamo che fino al 1914 la destra, pur nella sua rissosa
varietà, sarà per la conservazione, con
qualche cedimento reazionario, come in Italia, Francia e Spagna. Mentre la
sinistra, per il progresso.
Come
insegnano Furet e Nolte è con il sisma politico del 1917 che cambia tutto. Sul
tronco della presa di potere
bolscevica, si innestano, ispirandosi ai
comunisti russi, i contro-movimenti fascista e nazionalsocialista. Che però subito
si autodefiniscono oltre la destra e la sinistra. Tentando di trovare l’isola
che non c’è…
E
qui cominciano i guai. I “rivoluzionari” in camicia nera e
bruna, oltre ad attirare reazionari in
crisi di astinenza, antidemocratici misti,
marxisti pentiti, puntano subito
i fucili contro il Palazzo d’Inverno della democrazia liberale. Perché contrari
a qualsiasi forma di libertà che non venga posta al servizio
della Nazione o peggio della Razza. E
così si mettono sulla strada dello
scontro frontale con le potenze “demoplutoeccetera”, finendo, piaccia o meno, malissimo.
Ora,
il Movimento Sociale nasce proprio
dalle ceneri del Ventennio.
Rivendicando il superamento di due dicotomie: destra-sinistra e
conservazione-progresso.
Come
è noto, il fascismo italiano, fin dall’inizio, aveva mescolato e
riprodotto una pluralità di anime, per
alcuni, in pena. Il che, già durante il
regime, nonostante la presenza del titolare del brevetto, Benito
Mussolini, provocò duri conflitti, in nome di una ricerca della “vera” identità fascista. Una
“litigiosità”, che nel secondo dopoguerra, trasmigra nel Movimento Sociale.
Inutile qui rievocare le liti dei
fratelli coltelli.
Un
mondo così “bellicoso” come ha reagito alla trasformazione Msi-An-PdL?
In due modi. Sul piano politico e organizzativo (del potere) si è
adeguato, pure troppo. Su quello
ideologico, no. Come mostrano i ripetuti dibattiti sulla “natura della destra”. Che, attenzione, non vertono tanto sulla
definizione di una cultura di destra, che dal 1945 deve essere liberale e
democratica e contraria a ogni forma
di totalitarismo, quanto su una serie di
problemi “interni” legati al “rinnegamento” o meno dell’esperienza fascista da
parte degli ex missini confluiti nel PdL.
E
qui la questione si ingarbuglia ancora di più. Uno, perché il fascismo, come
abbiamo detto, si collocava oltre la
destra e la sinistra. Due, perché sul piano culturale aveva recepito una predisposizione negativa prefascista verso le
istituzioni democratiche e liberali. In
questo senso, Tarmo Kunnas ha parlato di “tentazione fascista”, per uomini
della statura di Pound, Hamsun, Drieu La Rochelle , Jünger e così
via.
Pertanto
qualsiasi progetto che si proponga di spendere politicamente (e non in termini
di ricerca pura) la cultura della “tentazione fascista”, può portare a tutto ma non alla piena accettazione della democrazia
liberale. Certo può possedere plusvalore politico per quella che è stata definita
la destra di Porto Alegre: una destra fasciocomunista, antiliberale e antisistemica che vuole fare concorrenza ai no global,
all’insegna di una confusa riedizione postmoderna del né destra né sinistra. Ma non per una concreta destra di governo,
sistemica, liberale, democratica e popolare. Che debba rispondere agli elettori
di destra che la votano, e che sono tanti.
Delle due l’una: o pro o contro il sistema. Tertium
non datur.
Però
qui bisogna fare attenzione. La destra di Porto Alegre è visionaria ma intellettualmente
onesta. Mentre non lo è la destra
aennnina che tenta di contrabbandare, magari amputandoli a colpi di spot
pubblipolitici, gli autori di cui sopra come padri della “destra maggioritaria”
e “post-ideologica”, “comunicativa”. Insomma, di conciliare l’inconciliabile: le tempeste d’acciaio con
la soppressione dell’Ici sulla prima casa. E quel che è ancora peggio,
pretendendo in modo ipocrita di ricollegarsi all’esperienza della Nuova
Destra anni Ottanta. Che è vero che si
proponeva di rileggere gli autori della “tentazione fascista” (il libro di
Kunnas fu pubblicato proprio da Akropolis), ma solo come elemento di rottura,
uno fra i tanti, verso una routine
politica, che aveva contagiato anche il Movimento Sociale, all’epoca imbolsitosi.
Ma soprattutto di rivolta nei
riguardi di un “sistema”, nei cui anfratti
“pubblipolitici” più vischiosi,
gli aennini di oggi, a differenza di Tarchi e pochi altri, si sono invece “spaparanzati” come topi nel formaggio. Certo, anche questa può
essere cultura politica post-ideologica dell’ et-et: un “et” di parmigiano, un “et” di provolone,
eccetera…
Altro
discorso, invece serio, sarebbe quello di recuperare alcuni autori della
tradizione liberal-nazionale (patriottica non nazionalista), poi confluita nel
fascismo. Si pensi, ad esempio a Gioacchino Volpe che tra l’altro era
monarchico. Oppure, alla tradizione nazionalpopolare, nata con Mazzini che si
prolunga nel sindacalismo rivoluzionario e in quella fucina di idee del
corporativismo democratico, che fu la
Carta del Carnaro. Testo
che rinvia a D’Annunzio ma anche a Alceste De Ambris. E che nei
suoi aspetti “lavoristi” riuscì a influenzare persino la Costituzione Italiana. Ma,
attenzione, parliamo del Mazzini democratico, quello amato dai riformatori liberali inglesi. Il quale vedeva
nella nazione uno strumento di pace e
non di guerra e conquiste “imperiali”.
Potrebbe
perciò essere interessante ricostruire i filamenti culturali di
quel “fascismo” che reputava, alla stregua di Churchill, la
democrazia come il male minore… Un fascismo colto e diseguale perché segnato
dalla “tentazione democratica”. Forse
quello di Bottai e Grandi? A storici come Parlato, Nello, Guerri la risposta.
Infine,
sarebbe importante rileggere l’esperienza della Rsi cercando di capire, se l’adesione di alcuni, fu un atto di fede verso Mussolini e il
fascismo o verso gli ideali repubblicani in quando tali. Crediamo,
manchino buoni studi storici in argomento.
Perché
invece di perdersi in sterili polemiche non favorire una rilettura storiografica
seria? Capace di scoprire e riunire gli
elementi criptodemocratici e perciò nazionalpopolari del fascismo? Forse per
alcuni si tratta di una mission impossible. Ma perché non tentare?
Carlo Gambescia
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