Agosto 1968
La tragica estate di
Praga
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Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 i
carri armati sovietici penetrarono in Cecoslovacchia e occuparono le strade di
Praga. Di Dubček, sequestrato dalle forze speciali sovietiche, per alcuni
giorni si persero le tracce. Il segretario generale del partito comunista
cecoslovacco ricomparve dopo cinque giorni di trattative moscovite con un
Breznev politicamente disposto a tutto, pur di difendere, come dichiarava,
"l' internazionalismo proletario”...
Imbarazzante e imbarazzato il titolo che
apparve su “l’Unità” del 28 agosto, come si legge in una documentata analisi
reperibile in Rete:
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“Nei primi messaggi alla nazione
cecoslovacca dopo la conclusione delle drammatiche trattative di Mosca, Svoboda
e Dubček al popolo riaffermano l’impegno per il rinnovamento socialista”.
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In realtà si trattava di un rinnovamento
privo di qualsiasi sostanza politica: “una formula vuota”. Dal momento che
l’URSS imponeva
...
“ai delegati cecoslovacchi una progressiva
‘normalizzazione’ del Paese, cioè il ristabilimento del controllo sulla stampa
e sulla televisione, e la marginalizzazione di tutti gli elementi riformatori
all’interno del partito”. (http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Come poi sia finita l’intera vicenda storica
( Unione Sovietica e stati satelliti), ormai lo sappiamo tutti, o quasi…
Inutile insistere.
Comunque sia, dobbiamo a François Fejtö,
acuto storico delle “democrazie popolari”, il merito di aver confermato, anche
"dopo Stalin", la profonda ambiguità del concetto di
“internazionalismo proletario”, usando il caso Dubček” come cartina tornasole.
Ascoltiamolo:
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“Prigioniero di una ideologia dominata dalla
devozione all’URSS come unica pietra di paragone, Dubček non sapeva vedere
ipotesi alternative alla ‘appartenenza al mondo socialista’ [internazionalismo
proletario, n.d.r], e si poneva in una situazione di assoluta inferiorità
rispetto agli interlocutori, per nulla vincolati da scrupoli internazionalisti.
Tutto quel che Dubček poteva fare, e ha fatto, era tentare una guerra di
rallentamento, persa in partenza. Si è lasciato manipolare, disarmare, separare
dai suo veri amici, privare della possibilità di rispondere ai detrattori, per
mettersi infine (…) alla mercé dei nuovi detentori del potere, tra i quali
aveva accaniti nemici personali. Convinto di avere ragione, ha rifiutato
testardamente l’autocritica che gli era chiesta con tanta insistenza. Ma questo
tipo di riserva mentale, ultimo rifugio della sua dignità e libertà, il suo
esempio non poteva insegnare al suo popolo che una filosofica e disciplinata
sottomissione fondata sulla speranza dei giorni migliori” (F. Fejtö, Storia delle democrazie popolari,
Bompiani 1997, vol. II, pp. 225-226) .
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Ma anche il Pci, pur non essendo a “tiro di
carro armato” era in quegli anni vittima dello stesso “complesso-Dubček”.
Infatti, cosa scrisse “l’Unità” del 22 agosto 1968? All’indomani dell’invasione
sovietica?
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“Allo stato dei fatti non si comprende come
abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un
intervento militare. L’ufficio politico del PCI considera perciò ingiustificata
tale decisione, che non si concilia con i principi dell’autonomia e
indipendenza di ogni partito comunista e di ogni Stato socialista e con le
esigenze di una difesa dell’unità del movimento operaio e comunista
internazionale. E’ nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo
proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto
rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio
politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso”
(http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Insomma, Breznev invadeva militarmente la Cecoslovacchia in
difesa dell’internazionalismo proletario… Dubček si inginocchiava ai sovietici
in nome dell' internazionalismo proletario… I comunisti italiani dissentivano
(o quasi), sempre in nome dell’internazionalismo proletario... Breznev
sicuramente barava, come impone ogni politica di potenza. Ma come definire quei
comunisti cecoslovacchi e italiani che, per dirla con Fejtö, mostravano di
credere in una “filosofica e disciplinata sottomissione fondata sulla speranza
dei giorni migliori”? Il termine migliore è "credenti". E in una
“fede” nelle "Leggi della Storia", capace di vincere qualsiasi
contraddizione, persino quella liberticida dei carri armati... Dal momento,
come pontificava György Lukács, che “il peggior regime comunista [era] migliore
del capitalismo”.
Vero? Falso? Quien sabe... In gioco, ieri come oggi, resta la scelta
fra due credenze: quella nella libera (entro certi limiti) configurazione della
storia da parte dell'Uomo e quella nella capacità della Storia di plasmare
l'uomo.
Probabilmente la verità è nel mezzo. Ma per
alcuni anche il giusto mezzo non esiste. O per dirla con Manzoni, se esiste
serve solo a difendere il privilegio degli "arrivati" che nel giusto
mezzo "ci stanno comodi". Perciò è difficile rispondere in modo
definitivo. Di sicuro resta il fatto che la verità dei "piccoli
fatti" finisce sempre per vendicarsi. Infatti, la storia, quella reale con
l'iniziale minuscola, si è presa la sua vendetta sul comunismo. Ma - ecco il
punto - per sempre? Quien sabe...
Carlo Gambescia
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