lunedì 23 agosto 2010

Agosto 1968 
La tragica estate di Praga


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Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici penetrarono in Cecoslovacchia e occuparono le strade di Praga. Di Dubček, sequestrato dalle forze speciali sovietiche, per alcuni giorni si persero le tracce. Il segretario generale del partito comunista cecoslovacco ricomparve dopo cinque giorni di trattative moscovite con un Breznev politicamente disposto a tutto, pur di difendere, come dichiarava, "l' internazionalismo proletario”...
Imbarazzante e imbarazzato il titolo che apparve su “l’Unità” del 28 agosto, come si legge in una documentata analisi reperibile in Rete:
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Nei primi messaggi alla nazione cecoslovacca dopo la conclusione delle drammatiche trattative di Mosca, Svoboda e Dubček al popolo riaffermano l’impegno per il rinnovamento socialista”.
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In realtà si trattava di un rinnovamento privo di qualsiasi sostanza politica: “una formula vuota”. Dal momento che l’URSS imponeva
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“ai delegati cecoslovacchi una progressiva ‘normalizzazione’ del Paese, cioè il ristabilimento del controllo sulla stampa e sulla televisione, e la marginalizzazione di tutti gli elementi riformatori all’interno del partito”. (http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Come poi sia finita l’intera vicenda storica ( Unione Sovietica e stati satelliti), ormai lo sappiamo tutti, o quasi… Inutile insistere.
Comunque sia, dobbiamo a François Fejtö, acuto storico delle “democrazie popolari”, il merito di aver confermato, anche "dopo Stalin", la profonda ambiguità del concetto di “internazionalismo proletario”, usando il caso Dubček” come cartina tornasole. Ascoltiamolo:
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“Prigioniero di una ideologia dominata dalla devozione all’URSS come unica pietra di paragone, Dubček non sapeva vedere ipotesi alternative alla ‘appartenenza al mondo socialista’ [internazionalismo proletario, n.d.r], e si poneva in una situazione di assoluta inferiorità rispetto agli interlocutori, per nulla vincolati da scrupoli internazionalisti. Tutto quel che Dubček poteva fare, e ha fatto, era tentare una guerra di rallentamento, persa in partenza. Si è lasciato manipolare, disarmare, separare dai suo veri amici, privare della possibilità di rispondere ai detrattori, per mettersi infine (…) alla mercé dei nuovi detentori del potere, tra i quali aveva accaniti nemici personali. Convinto di avere ragione, ha rifiutato testardamente l’autocritica che gli era chiesta con tanta insistenza. Ma questo tipo di riserva mentale, ultimo rifugio della sua dignità e libertà, il suo esempio non poteva insegnare al suo popolo che una filosofica e disciplinata sottomissione fondata sulla speranza dei giorni migliori” (F. Fejtö, Storia delle democrazie popolari, Bompiani 1997, vol. II, pp. 225-226) .
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Ma anche il Pci, pur non essendo a “tiro di carro armato” era in quegli anni vittima dello stesso “complesso-Dubček”. Infatti, cosa scrisse “l’Unità” del 22 agosto 1968? All’indomani dell’invasione sovietica?
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“Allo stato dei fatti non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del PCI considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i principi dell’autonomia e indipendenza di ogni partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del movimento operaio e comunista internazionale. E’ nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del PCI sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso” (http://www.storiain.net/arret/num143/artic1.asp ).
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Insomma, Breznev invadeva militarmente la Cecoslovacchia in difesa dell’internazionalismo proletario… Dubček si inginocchiava ai sovietici in nome dell' internazionalismo proletario… I comunisti italiani dissentivano (o quasi), sempre in nome dell’internazionalismo proletario... Breznev sicuramente barava, come impone ogni politica di potenza. Ma come definire quei comunisti cecoslovacchi e italiani che, per dirla con Fejtö, mostravano di credere in una “filosofica e disciplinata sottomissione fondata sulla speranza dei giorni migliori”? Il termine migliore è "credenti". E in una “fede” nelle "Leggi della Storia", capace di vincere qualsiasi contraddizione, persino quella liberticida dei carri armati... Dal momento, come pontificava György Lukács, che “il peggior regime comunista [era] migliore del capitalismo”.
Vero? Falso? Quien sabe... In gioco, ieri come oggi, resta la scelta fra due credenze: quella nella libera (entro certi limiti) configurazione della storia da parte dell'Uomo e quella nella capacità della Storia di plasmare l'uomo.
Probabilmente la verità è nel mezzo. Ma per alcuni anche il giusto mezzo non esiste. O per dirla con Manzoni, se esiste serve solo a difendere il privilegio degli "arrivati" che nel giusto mezzo "ci stanno comodi". Perciò è difficile rispondere in modo definitivo. Di sicuro resta il fatto che la verità dei "piccoli fatti" finisce sempre per vendicarsi. Infatti, la storia, quella reale con l'iniziale minuscola, si è presa la sua vendetta sul comunismo. Ma - ecco il punto - per sempre? Quien sabe... 

Carlo Gambescia

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