Ancora sul terremoto in Abruzzo
"Aiutati che Dio t'aiuta"
.
Il terremoto che ha semidistrutto L’Aquila non può non
far riflettere su quello che teologicamente e filosoficamente è il problema dei
problemi: perché il male nel mondo? Benché, come vedremo, da qualche secolo
"sia fuori moda” porre questo interrogativo.
L’Aquila è semidistrutta, giovani, bambini, padri, madri, nonni sono morti all’improvviso e in modo violento, decine di migliaia di persone hanno perso i propri averi. Che senso ha tutto questo? Perché gli innocenti devono soffrire?
Purtroppo, chi scrive, non è in grado di dare alcuna risposta. O meglio, può rispondere sul piano personale, traendo sostegno dalla propria fede cristiana e rimettendosi nelle mani della volontà imperscrutabile di Dio.
Ma, chi scrive, sa pure che questa spiegazione non può essere accettata da tutti. In particolare da chi non crede in Dio. Ma anche perché, come è naturale che sia, esistono spiegazioni di tipo “terreno”, come l’incuria e l’imperizia degli uomini nel costruire case e nel tutelate il bene comune. Spiegazioni che non possono essere trascurate o minimizzate.
Fermo però restando l’elemento dell’imperscrutabilità: perché, a parità di condizioni L’Aquila e non un’altra città? Perché quella famiglia e non un’altra? Perché quei giovani e non altri, e così via, lungo una triste contabilità del dolore umano. Purtroppo.
Pertanto, mancando risposte incontrovertibili, se non quelle in ordine alle responsabilità umane (ma anche qui fino a un certo punto), resta però interessante scoprire quando, storicamente, è cambiata la mentalità: quando l’uomo ha iniziato a rifiutare la “naturale”, e cristianamente giustificata, presenza del male e del dolore fisico nel mondo.
Per capire meglio il senso di quest’ultima affermazione è necessario risalire alla letteratura che scaturì a seguito del terremoto di Lisbona nel 1755. La distruzione di una città ricca e splendida e la morte di circa quindicimila persone, innescarono una reazione intellettuale che si prolungò negli anni a seguire.
A un Leibniz, che cristianamente aveva precedentemente ritenuto il male necessario al fine di un disegno ultraterreno volto al bene universale, si opposero Voltaire, Rousseau e in seguito Kant, i quali sostanzialmente respinsero l’idea di qualsiasi interferenza divina, rivendicando, pur con accenti diversi, la natura umana, o comunque esclusivamente terrena del terremoto. “Da allora – scrive J. N. Shklar – la responsabilità delle nostre sofferenze fu cercata esclusivamente in noi o caso mai, in un ambiente naturale a cui noi siamo indifferenti” ( I volti dell’ingiustizia, Feltrinelli, Milano 2000, p. 65).
Questa "naturalizzazione" dell’idea di male all’interno della cultura illuministica, pose le basi, per la sua successiva “umanizzazione” che culminerà, per un verso nel progresso civile ed economico, ma per l’altro nelle utopie scientifiche, sociologiche e rivoluzionarie dei secoli successivi, e del Novecento in particolare. Volte a eliminare dal mondo, ogni male, ingiustizia o dolore, sopprimendo un “pugno di uomini cattivi”.
Di qui, più in generale, quella scarsa o nulla capacità di confrontarsi con il dolore del mondo, tipica degli uomini di oggi. Una capacità di accettare con dignità il dolore ( come rispetto di se stessi ma anche di più alti "voleri" ) che invece, fatto straordinario, abbiamo riscoperto in molti aquilani. I quali, a prescindere dall'età, davanti al pervasivo occhio mediatico, hanno mostrato di possedere enormi riserve di antica saggezza pre-illuminista e (perché no?) cristiana. Ma anche di essere decisi a ricostruire. Modernamente.
Ecco, questo, ci sembra l’atteggiamento giusto, a metà strada tra mondo antico e moderno: tra cristianesimo e illuminismo. E che può essere sintetizzato in quell "aiutati che Dio t'aiuta", così caro alla cultura popolare degli abruzzesi. Gli stessi abruzzesi che hanno costruito, spesso nelle vesti di modernissimi imprenditori schumpeteriani, nel mondo e per il mondo.
L’Aquila è semidistrutta, giovani, bambini, padri, madri, nonni sono morti all’improvviso e in modo violento, decine di migliaia di persone hanno perso i propri averi. Che senso ha tutto questo? Perché gli innocenti devono soffrire?
Purtroppo, chi scrive, non è in grado di dare alcuna risposta. O meglio, può rispondere sul piano personale, traendo sostegno dalla propria fede cristiana e rimettendosi nelle mani della volontà imperscrutabile di Dio.
Ma, chi scrive, sa pure che questa spiegazione non può essere accettata da tutti. In particolare da chi non crede in Dio. Ma anche perché, come è naturale che sia, esistono spiegazioni di tipo “terreno”, come l’incuria e l’imperizia degli uomini nel costruire case e nel tutelate il bene comune. Spiegazioni che non possono essere trascurate o minimizzate.
Fermo però restando l’elemento dell’imperscrutabilità: perché, a parità di condizioni L’Aquila e non un’altra città? Perché quella famiglia e non un’altra? Perché quei giovani e non altri, e così via, lungo una triste contabilità del dolore umano. Purtroppo.
Pertanto, mancando risposte incontrovertibili, se non quelle in ordine alle responsabilità umane (ma anche qui fino a un certo punto), resta però interessante scoprire quando, storicamente, è cambiata la mentalità: quando l’uomo ha iniziato a rifiutare la “naturale”, e cristianamente giustificata, presenza del male e del dolore fisico nel mondo.
Per capire meglio il senso di quest’ultima affermazione è necessario risalire alla letteratura che scaturì a seguito del terremoto di Lisbona nel 1755. La distruzione di una città ricca e splendida e la morte di circa quindicimila persone, innescarono una reazione intellettuale che si prolungò negli anni a seguire.
A un Leibniz, che cristianamente aveva precedentemente ritenuto il male necessario al fine di un disegno ultraterreno volto al bene universale, si opposero Voltaire, Rousseau e in seguito Kant, i quali sostanzialmente respinsero l’idea di qualsiasi interferenza divina, rivendicando, pur con accenti diversi, la natura umana, o comunque esclusivamente terrena del terremoto. “Da allora – scrive J. N. Shklar – la responsabilità delle nostre sofferenze fu cercata esclusivamente in noi o caso mai, in un ambiente naturale a cui noi siamo indifferenti” ( I volti dell’ingiustizia, Feltrinelli, Milano 2000, p. 65).
Questa "naturalizzazione" dell’idea di male all’interno della cultura illuministica, pose le basi, per la sua successiva “umanizzazione” che culminerà, per un verso nel progresso civile ed economico, ma per l’altro nelle utopie scientifiche, sociologiche e rivoluzionarie dei secoli successivi, e del Novecento in particolare. Volte a eliminare dal mondo, ogni male, ingiustizia o dolore, sopprimendo un “pugno di uomini cattivi”.
Di qui, più in generale, quella scarsa o nulla capacità di confrontarsi con il dolore del mondo, tipica degli uomini di oggi. Una capacità di accettare con dignità il dolore ( come rispetto di se stessi ma anche di più alti "voleri" ) che invece, fatto straordinario, abbiamo riscoperto in molti aquilani. I quali, a prescindere dall'età, davanti al pervasivo occhio mediatico, hanno mostrato di possedere enormi riserve di antica saggezza pre-illuminista e (perché no?) cristiana. Ma anche di essere decisi a ricostruire. Modernamente.
Ecco, questo, ci sembra l’atteggiamento giusto, a metà strada tra mondo antico e moderno: tra cristianesimo e illuminismo. E che può essere sintetizzato in quell "aiutati che Dio t'aiuta", così caro alla cultura popolare degli abruzzesi. Gli stessi abruzzesi che hanno costruito, spesso nelle vesti di modernissimi imprenditori schumpeteriani, nel mondo e per il mondo.
Carlo Gambescia
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