mercoledì 21 maggio 2008

Le due città 

Da Agostino a Corviale (2)



La Città di coloro che non hanno
Nella Città Terrena che sorte tocca a coloro che non hanno? Quelle persone, per dirla ancora una volta con Toynbee, che sono nel “pozzo nero, al di sotto delle brillanti opere di superficie”?
Nella Città Celeste i poveri partecipavano in qualche modo, spesso solo simbolico, al potere. Ma, in ogni caso sussistevano limiti “cosmici” alla ricchezza e alla povertà, oltre i quali era pericoloso spingersi. Di più: il popolo era temuto. E ciò spiega le distribuzioni di cibo e denaro, così diffuse nell'antichità, ma anche le feroci rivolte redistributive, dalle secessioni delle plebi romane, ai ciompi e al “vive le roi et sans la gabelle” nella Francia popolare del Seicento.
E oggi? Il “popolo” vive una condizione, come dire, di frammentazione sociale e abitativa. Spieghiamo come e perché.
Le classi medio-basse, se possono, cercano di imitare la secessione abitativa delle élite. Le quali hanno da tempo scelto di vivere in zone residenziali, situate in centro o nei ricchi suburbi. I ceti medi devono perciò accontentarsi di luoghi meno prestigiosi magari periferici, oppure delle cosiddette “aree adiacenti al centro storico”, ma comunque a distanza di sicurezza dal “popolo” che vive invece in teratologici “serpentoni” , “torri” di cemento armato”, come ad esempio nei romani Corviale e Laurentino 38. Dove vivono operai, piccoli artigiani, pensionati sociali, famiglie monogenitoriali, immigrati (“in regola” o meno), giovani disoccupati, e via scendendo lungo la cosiddetta scala sociale…

La Città di coloro che hanno
Ogni società urbana si organizza secondo le risorse e le capacità dei diversi gruppi che la compongono. Ma una caratteristica del nostro tempo sembra essere proprio la separazione sociale, anche di tipo conflittuale, tra centro e periferia. Ovviamente, i ricchi che non hanno problemi di risorse, possono trarre da questa situazione soltanto ulteriori vantaggi. Vediamo perché.
Un ruolo fondamentale è giocato dallo spazio. Oggi, come mai in passato, le élite sono diventate cosmopolite e il popolo “locale”. Lo spazio del potere e della ricchezza si proietta in tutto il mondo, mentre la vita e l’esperienza della gente comune sono radicate nei luoghi, nella propria cultura, nella propria storia.
Di qui la necessità per le élite del potere, per un verso, di evitare ogni contrapposizione tra globale e locale, e, per l'altro, di favorire i conflitti tra localismi diversi: tra etnie e religioni diverse, tra ceti professionali, tra classi.
Viene così a crearsi uno scenario paradossale, dove la Città Terrena, finisce per rappresentare, proprio per il suo "illuminato" e "unificante" gigantismo “tentacolare”, il luogo ideale delle esclusioni, delle rivalità, dei conflitti tra ceti sociali privi di ogni reale potere: dal lavoratore dipendente al microscopico professionista, dall’insegnante sottopagato al pensionato, fino alla giovane famiglia con pesanti mutui bancari sulle spalle. Tutti costoro invece di marciare in massa contro il Palazzo d’Inverno, si perdono in guerre intestine, tra “poveri”, per ottenere la chiusura di un Sert, per invocare la diminuzione delle imposte comunali sulla casa di proprietà, per un facilitazione bancaria di pagamento, eccetera.
La Città Terrena con le sue distanze e i suoi ghetti (anche di lusso) finisce così per favorire la disunione sociale e l’odio verso gli esclusi ( disoccupati, precari, diversi, immigrati, poveri, tossicodipendenti). Spesso incoraggiandolo dall'alto. Si pensi solo al demagogico dibattito sulla sicurezza dei cittadini perbene...
Una situazione conflittuale che consente ad élite sempre più cosmopolite e potenti di dominare incontrastate, puntando sulla propria volontà coesiva di distinguersi dal “popolo”.
Perché - ed è bene non dimenticarlo mai - più una società è formalmente democratica nelle istituzioni politiche, più le élite (come per reazione chimica), sono spinte a distinguersi dal resto della popolazione, creando stili di vita e codici culturali esclusivi. Come infatti sta accadendo sul piano mondiale, dove sembra predominare la cultura efficientistica e cinica dei circoli manageriali del capitalismo informazionale.

Da dove ricominciare?
La vera questione da risolvere concerne perciò un fatto fondamentale: come integrare democrazia politica e democrazia economica? Come ridurre le distanze sociali e promuovere stili di vita non consumistici? Come convincere democraticamente le persone a non considerare desiderabli i mutevoli e costosissimi stili di vita delle élite.?
E qui il discorso si farebbe troppo lungo… In ogni modo resta un fatto fondamentale: la Città Terrena è di ostacolo a qualsiasi trasformazione sociale in senso comunitario. Perciò si dovrà ripartire dalla cultura “antica” della Città Celeste. Ovviamente non nel senso in cui oggi la intendono e promuovono alcune amministrazioni locali: come cultura del divertentismo e dello svago per “masse stressate” da ipnotizzare con dosi massicce di esotismo hollywoodiano. Ma in termini comunitaristi. Tenendo però sempre presente la grande lezione del solidarismo personalista di derivazione cristiana e liberale.
Certo, si parla di valori, ai quali non tutti assegnano lo stesso significato (comunitarismo, liberalismo, cristianesimo). Pertanto resta molto lavoro teorico da svolgere nei termini di una onesta chiarificazione ideologica. Da parte di tutti.

Inoltre rimangono alcuni nodi di fondo: più la Città Terrena cresce, meno è controllabile; più si dilata la cultura del divertentismo urbano (a sfondo narcisistico), meno la gente diviene consapevole dei rischi sociali che corre; più i “poveri” sono in guerra tra loro, meno preoccupazioni insorgono nei ricchi.
Ecco, come sciogliere questi nodi? E soprattutto come far capire a chi ha già poco che il sassoso sentiero che conduce alla Città Celeste, va percorso a piedi nudi”
( fine)
Carlo Gambescia

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