giovedì 1 maggio 2008

Festa del Lavoro 

Perché non riscoprire la cogestione?



Il passaggio di alcuni delegati sindacali della Pirelli Bicocca di Milano dalla Cgil alla Ugl (si veda la loro lettera al quotidano "il manifesto" http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/30-Aprile-2008/art3.html ), solleva alcuni importanti interrogativi sulla futura evoluzione del rapporto fra governo Berlusconi e mondo del lavoro e sindacale. Soprattutto alla luce del dibattito sull'importanza di una visione sociale dell'economia, apertosi intorno al libro di Tremonti (La paura e la speranza). Ma anche dell'invito bipartisan a "dare una mano", lanciato da Berlusconi, al professsor Ichino, di cui invece sono note  le posizioni più tradizionaliste sul  ruolo mediatore  del sindacato nelle imprese.
Ora, la domanda che ci poniamo, è se la cogestione può rappresentare una risposta - certo, da un punto di vista infrasistemico, mettiamo subito le mani avanti... - alla difficile congiuntura economica che sta attraversando l'economia italiana. Proprio nei termini di quella visione sociale dell' economia di mercato, che Giulio Tremonti, prossimo Ministro dell'Economia, sembra aver riscoperto nel suo libro. Sembra...
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Che cos’è la cogestione?
Dal punto di vista della democrazia economica la cogestione consiste nella partecipazione dei lavoratori dipendenti alla vita economica dell’impresa, allo scopo di influire istituzionalmente, insieme ai rappresentanti dei datori di lavoro, sul suo governo economico.
La principale finalità della cogestione è quella garantire all’interno dell’impresa il massimo di democrazia gestionale, compatibile con l’economia di mercato. Concretamente la cogestione comporta l’assunzione di corresponsabilità decisionale nella politica imprenditoriale da parte dei lavoratori. Da attuarsi mediante la presenza, con poteri decisionali, di una loro rappresentanza nel consiglio di amministrazione della società; rappresentanza che può essere o meno di estrazione sindacale (i due ruoli possono anche non coincidere). Dove esiste una struttura dualistica della società per azioni (come in Germania ad esempio) la cogestione concerne l’inserimento di rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Vigilanza. Se invece la struttura non è dualistica oppure di opzione tra le due, come in Francia, i rappresentanti dei lavoratori possono entrare a far parte del Consiglio di Amministrazione. Di riflesso, la cogestione si differenzia sia dall’autogestione che invece implica l’assunzione completa di poteri decisionali da parte dei lavoratori dell’impresa, sia dagli accordi sui sistemi di informazione che riconoscono ai lavoratori diritti di informazione o consultazione a livello locale, settoriale e di gruppo o di impresa, lasciando immutata l’autonomia imprenditoriale e separate le rispettive responsabilità dell’ imprenditore e delle maestranze. La cogestione va anche differenziata - fatto del resto fin troppo ovvio - da forme di cointeressenza (premi di produttività), compartecipazioni agli utili di impresa, piani aziendali di risparmio, azionariato dei dipendenti e sistemi di stock options . In definitiva i lavoratori che partecipano alla cogestione, a differenza delle altre forme appena citate, godono di un potere reale, e istituzionalizzato, sulle strategie aziendali.
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“Stato dell’arte”: la cogestione sotto l’aspetto istituzionale, legislativo e “sperimentale” (con riferimento all’Italia)
A grande linee, in Italia, la partecipazione cogestionale dal punto di vista degli istituti giuridici, può essere ricondotta all’ attuazione e/o ricezione:
1) Dell’art. 46 della Costituzione, che consacra il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, nei modi e nei limiti sanciti dalle leggi;
2) Degli articoli 21 e 22 della Carta sociale europea (resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30), che proclamano il diritto del lavoratore all’informazione, alla consultazione e alla partecipazione;
3) Della raccomandazione 92/443/CEE del Consiglio, del 27 luglio 1992, riguardante la promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti e ai risultati dell’impresa.
4) Della Direttiva 2002/14/CE dell’11 marzo 2002 (che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori) nonché alla Direttiva 2001/86/CE dell’8 ottobre 2001 (sul coinvolgimento dei lavoratori nella Società europea).
Tuttavia, per quanto ci risulta, dal punto di vista legislativo, sono invece ancora in fase di discussione, e dunque rinvenibili negli atti parlamentari (con particolare riferimento alla XIV legislatura), alcune proposte di legge alle quali rinviamo il lettore. In particolare la p.d.l. n. 3642, n. 3926 e n. 4039 che tra l’altro si limitano a introdurre, attraverso accordi collettivi aziendali o multiaziendali, piani di azionariato o di partecipazione finanziaria disgiunti da qualunque forma di partecipazione decisionale. Altre iniziative invece recepiscono entrambi questi aspetti (p.d.l. nn. 1003, 1943, 2023), prendendo a riferimento sia forme di coinvolgimento dei lavoratori limitate alla “informazione e consultazione” (n. 2023), sia forme di coinvolgimento che prevedono la designazione da parte dei lavoratori azionisti di alcuni membri degli organi sociali (nn. 1003, 1943).
Come si evince da questi accenni, per quanto riguarda il futuro della cogestione in Italia, la sperequazione tra input istituzionali, anche a livello europeo, e output legislativi nazionali, non fa ben sperare in una sua evoluzione positiva, almeno nell’immediato.
Una considerazione che può essere estesa anche al piano “sperimentale”. Si possono infatti ricordare, oltre a una dichiarazione di principio ( il Protocollo Iri, 1982-1983 ), solo alcuni sporadici tentativi, soprattutto nel settore pubblico, mai decollati completamente (Zanussi, 1993; Fincantieri; Azienda Ferrovie dello Stato 1985; Anas 1990, ma anche Alitalia, 1996, Dalmine 1998). E peraltro rivolti in alcuni casi, come ad esempio Alitalia e dal mine, a coinvolgere le maestranze limitatamente ai processi di ristrutturazione e privatizzazione, attraverso appunto la presenza di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione (su questi ultimi aspetti si rinvia a La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, Ottobre 2001, a cura del Dipartimento Economico - Ufficio Studi della Filt Cgil, scaricabile dal sito www.filtcgil.it/documenti/ust_1.pdf).
Del resto l’Italia sul piano europeo, per quel che riguarda la legislazione in in materia, si trova allo stesso livello di Cipro, Lettonia, Lituania. Oppure del Belgio e soprattutto della Gran Bretagna, nazioni, certo, di più antica tradizione liberal-democratica ma note, soprattutto quest’ultima, per l’ estrema frammentazione degli interessi sociali e il minimo coinvolgimento sindacale dei lavoratori. Probabilmente dovuto anche alle "innovazioni"  nell'ambito delle relazioni industriali introdotte dalla politica economica thatcheriana. Per certi aspetti poi continuata anche dal laburista Blair (sullo “stato dell’arte” della cogestione in Europa cfr. Norbert Kluge e Michael Stollt, The European Company – Prospects for Board-Level Partecipation in the Enlarged EU, Bruxelles 2006, in particolare le tabelle riassuntive).
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Conclusioni
Sul piano sociologico, o meglio socioculturale, la cogestione richiede, e in misura imprescindibile, elevati livelli di fiducia tra gli attori sociali interagenti.
In primo luogo, li impone all’interno delle aziende. Dove si richiede come pre-requisito da parte dei soggetti dominanti, qualunque sia la tradizione proprietaria dell’impresa (capitalismo familiare, azionario, manageriale) correttezza e rispetto per la dignità e le capacità del lavoratore. Mentre da parte dei soggetti dipendenti si richiede, negli stessi termini, una rinuncia a impostazioni puramente rivendicative e utopiche basate su concezioni settoriali o rivoluzionarie. La cogestione richiede un salto di qualità: dal puro e semplice conflittualismo e/ ideologismo alla mutua e fiduciaria collaborazione in nome di valori condivisi.
In secondo luogo, all’esterno delle aziende, si richiede un quadro culturale, dove il profitto (pur economicamente importante) non sia visto come l’unico movente sociologico. E soprattutto s’impone un contesto socioculturale in grado di rivalutare il senso dell’onore professionale, a prescindere dalle mansioni individuali e dal ceto sociale di provenienza o appartenenza. Va acquisita a livello collettivo la cognizione precisa che sia sempre il lavoro ben svolto e socialmente onorato per tale ragione a “fare gli uomini” (se ci si passa questa espressione più letteraria che sociologica), e non tanto la sola retribuzione in termini di salari, stipendi e profitti monetizzati. E magari da “investire” in consumi di status, socialmente distonici.
E’ purtroppo ovvio, che in una società, come ad esempio quella italiana di oggi, dove prevalgono, rafforzandosi a vicenda, la cultura della conflittualità sindacale parcellizzata e/o ideologizzata e la cultura settoriale di certo capitalismo familiare privo di neutralità affettiva verso se stesso, la cogestione non potrà mai fiorire, nonostante le grandi enunciazioni di principio.
Sotto questo aspetto, alla politica intesa come decisione, e dunque capacità di creare un quadro normativo di riferimento, spetta il ruolo di fissare regole certe. E così favorire quella fiducia necessaria alla rinascita di un circuito reciprocitario che possa garantire e rafforzare la vita civile. Nonché, finalmente, un approccio alla vita economica delle imprese in termini di democratica cogestione. E qui, concludendo, sarebbe interessante conoscere il pensiero in materia del "colbertista" Tremonti. E' favorevole alla cogestione? Oppure no?
Carlo Gambescia
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Post Scriptum

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Sarkozy e la partecipazione agli utili. Novità dalla Francia?
L' accenno di Sarkozy a "que le niveau de la participation et de l'intéressement aux résultats des entreprises, pour les salariés, soit fortement relevé", accenno che risale a qualche mese fa (si veda http://www.lefigaro.fr/politique/2008/01/08/01002-20080108ARTFIG00442-nicolas-sarkozy-decline-sa-politique-de-civilisation.php ), riguarda non tanto la cogestione quanto la partecipazione agli utili.
Il presidente francese intende estenderla alle imprese al di sotto dei cinquanta dipendenti, introducendo sgravi fiscali per favorine l’applicazione. Accrescendo, per tutti i lavoratori dipendenti, gli attuali, chiamamoli così, fondi d’impresa (réserve de partecipation), nei quali finscono contabilizzati gli utili, poi ripartiti tra i lavoratori, in forma differita nel tempo e in base ai differenti livelli salariali.
Sarkozy, tra l’altro, prevede di « sbloccarne » l’utilizzazione, per far crescere la parte variabile del salario dei lavoratori, grazie appunto una più veloce redistribuzione degli utili.
In buona misura siamo davanti a un intervento anticiclico. E tutto sommato utile, soprattutto dal punto di vista imprenditoriale, a contenere la parte fissa del salario. Una provvedimento, insomma, che concerne più il contenimento dell’inflazione e dei costi salariali a carico delle imprese che l’allargamento dell’autentica democrazia economica.
Una finalità quest’ultima che, come gli studiosi sanno, può essere conseguita soltanto attraverso l’introduzione di un strumento di reale democrazia aziendale come la cogestione.
C. G.

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