mercoledì 30 aprile 2025

Il nuovo sport. Dare addosso alla sinistra

 


Dai toni dei giornali, anche quando la sinistra sta zitta e subisce, diciamo quando mostra di essere sottotono, sembra che il povero Sergio Ramelli, sia stato ucciso ieri l’altro da Schlein, Conte, eccetera.

In Italia si assiste a qualcosa di veramente grave. Si chiama contraffazione della realtà. Anzi della verità. Che culmina nel brutto spettacolo di un governo, di estrema destra, che prende regolarmente a pugni l’opposizione. E quest’ultima, seduta al banco degli imputati, non reagisce. Come se la destra fosse all’opposizione e la sinistra a governo. Insomma va per la maggiore lo sport di dare addosso a una sinistra ormai inerme o quasi. Ovviamente dipigendola come complice degli assassini di Sergio Ramelli.

Singolare anche la posizione di Mattarella, che, pur proviene dalla sinistra democristiana. E che come gli è stato rimproverato, da fior di giuristi, avrebbe dovuto bocciare il decreto sicurezza perché incostituzionale. E invece è passato.

Non si vuole capire ( poi spiegheremo perché ) che ogni “vittoria” della destra, amplificata da un diabolico asse mediatico e social, spostatosi completamente a destra, significa renderla più forte, più sicura di sé. Il che spiega i quotidiani pugni sferrati contro l’opposizione. Ormai al tappeto.

Si rifletta. Quando la seconda carica dello stato, Ignazio La Russa, dedito ad ampliare la collezione paterna di busti del duce, dichiara pubblicamente, che i saluti romani non hanno alcuna importanza, e che invece è la sinistra a dover tuttora rendere conto della morte di Sergio Ramelli, significa che si è ben oltre la linea rossa o meglio nera.

Anche perché polemisti e politici di destra replicano con durezza, persino alle critiche più timide. Come fosse cosa più normale del mondo chiedere conto alla sinistra della morte di Sergio Ramelli dopo cinquant’anni.

E quali ragioni evoca la destra? Che la sinistra, a sua volta, chiede conto (ma sarebbe meglio dire chiedeva) alla destra della dittatura fascista.

Di cose, come dichiarato dalla stessa Meloni, accadute addirittura cento anni fa. Quindi – ecco il veleno – perché la destra non deve chiedere, eccetera, eccetera?

Capito il “trucco”? La destra mette sullo stesso piano un regime politico catastrofico, che per vent’anni immobilizzò l’Italia in un busto di gesso, al quale Fratelli d’Italia, di fatto e di diritto guarda (l’impostazione del decreto sicurezza è più autoritaria che mai), e quattro delinquenti impolitici, già isolati cinquant’anni fa, che non hanno nulla in comune con il Partito democratico.

Dietro l’ approccio, che poi è quello “storiografico” (si fa per dire) del Movimento Sociale Italiano, si cela la tesi che tra i fascisti di Salò e gli uomini della Resistenza non c’ era e non c’è alcuna differenza etico-politica. Todos caballeros.

Si tratta di una pericolosa rilettura della storia d’Italia, diciamo pure buonista (perché la cattivista dichiara la superiorità morale delle brigate nere), un tempo ristretta alle sezioni del Movimento Sociale, oggi condivisa pubblicamente. Anzi sfacciatamente da Fratelli d’Italia. E che, paradossalmente, chi scrive, che ha sempre condannato il profilo leninista della sinistra, sia ora a costretto a spezzare una lancia in suo favore, indica la gravità del momento. Semplificando, qui abbiamo, un anticomunista, e da sempre, Carlo Gambescia, che scrive cose che la sinistra sembra abbia il timore di riaffermare

Lo spettacolo della sinistra “punching ball” è veramente deprimente. 

Anche negli Stati Uniti, strapazzati da Trump, i Democratici sono accusati di eccessiva timidezza. Ora però sembra che la sfida sia stata raccolta, seppure in chiave populista, da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, nonno e nipote vista la grande differenza di età, lanciatisi a capofitto in un tour politico di manifestazioni, dal discreto seguito, contro il tentativo autoritario di Trump. Auguri sinceri.

In Italia invece si continua a registrare una passività preoccupante.

Da cosa dipende? Non è facile rispondere. Sembra però che la sinistra, per un verso abbia accettato la nuova vulgata storica “degli uni e gli altri pari sono”, e che per l’altro soffra di una specie di senso colpa verso i fascisti. Senso di colpa per che cosa? Di aver sparato ai fascisti? Probabilmente. Si chiama pacifismo retroattivo. Giudichi il lettore.

Piaccia o meno, le due cose sono però collegate, e in modo circolare: quanto più si svaluta la Resistenza, tanto più diminuisce il senso di colpa verso i fascisti, più diminuisce il senso di colpa più si svaluta la Resistenza.

Dicevamo della contraffazione della verità portata avanti sistematicamente dalla destra. E qui sorge spontanea la domanda: è normale, seppure in perfetta linea con i nostri brutti tempi, che i membri dell’Anpi e coloro che celebrano la Resistenza vengano definiti estremisti e nostalgici? Parliamo delle radici etiche e politiche della Repubblica. Sacre in quanto tali, a prescindere da ogni aspetto politicamente contingente. Non ci si comporti da stupidi. Si guardi la Luna della Resistenza e non il dito di quattro estremisti filopalestinesi.

Forse sbaglieremo, ma è nostra impressione che la sinistra abbia tirato i remi in barca. Che pensi alla pura sopravvivenza in attesa che la “nottata” passi. E quel che è peggio, molti tra i pochi liberali italiani, sono schierati dalla parte del governo Meloni.

Di qui le stesse divisioni del tempo di Mussolini, tra liberal-democratici e liberali fiancheggiatori se non addirittura liberal-fascisti. I famosi liberali del “Listone” del 1924. Insomma, si scambiano i nemici della liberal-democrazia, quindi del sistema, per avversari interni al sistema. Sotto c’è l’antica speranzella antropologica del civilizzare i barbari, da Teodorico a Mussolini e Hitler.

I liberali non hanno imparato nulla. Che malinconia.

Carlo Gambescia

martedì 29 aprile 2025

260 parole

 


La prima cosa da chiarire è che a quanto pare la destra, quella con radici neofasciste, oggi al governo, ha celebrato e pubblicamente il "suo" Venticinque Aprile. Come? Ricordando, con varie cerimonie pubbliche, per ora non ancora istituzionalizzate, la figura di Sergio Ramelli un giovane di diciotto anni, attivista del Fronte della Gioventù, trucidato a colpi di chiave inglese da estremisti di sinistra, di Avanguardia Operaia.

Peraltro alcuni giorni prima Giorgia Meloni aveva celebrato il “vero” Venticinque Aprile. Anche qui cerimonie pubbliche, in questo caso istituzionali, eccetera, eccetera. Dopo di chi ieri, oltre a presenziare, ha ricordato la figura di Ramelli e il senso della celebrazione.

Partiamo da un dato concreto Giorgia Meloni quante parole ha dedicato all’Ottantesimo anniversario della Festa della Liberazione? 100.

Qui:

“Oggi l’Italia celebra l’ottantesimo Anniversario della Liberazione.In questa giornata, la Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che da settantasette anni sono incisi nella Costituzione repubblicana. La democrazia trova forza e vigore se si fonda sul rispetto dell’altro, sul confronto e sulla libertà e non sulla sopraffazione, l’odio e la delegittimazione dell’avversario politico.Oggi rinnoviamo il nostro impegno affinché questa ricorrenza possa diventare sempre di più un momento di concordia nazionale, nel nome della libertà e della democrazia, contro ogni forma di totalitarismo, autoritarismo e violenza politica” (*)

Quante invece ai cinquant’anni trascorsi dal morte di Sergio Ramelli? 260. Quasi tre volte di più.

Qui:

“Ci tenevo moltissimo ad esserci in questo anniversario così importante. Siamo reduci da giorni intensi, nei quali la scomparsa del Santo Padre ci ha portato a riflettere su temi profondi: misericordia, perdono, pietas, provvidenza. Ed è terribilmente difficile accostare questi valori alla vicenda di Sergio Ramelli. Cinquant’anni fa si spegneva la sua giovanissima vita: una morte tanto brutale quanto assurda e forse, proprio per questo, divenuta un simbolo per generazioni di militanti di destra di tutta Italia. Cinquant’anni dopo siamo chiamati ad interrogarci su quello che ancora oggi ci può insegnare il suo sacrificio. Sergio era una persona libera, ma essere liberi in quei tempi duri comportava un’enorme dose di coraggio, che spesso sfociava nell’incoscienza, addirittura. Sergio amava l’Italia più di ogni altra cosa e aveva deciso di non tenerselo per sé, di dirlo al mondo, senza odio, arroganza o intolleranza. La sua storia ce l’ha raccontata chi lo ha conosciuto, chi ha condiviso con lui la militanza politica, chi ha sperato e pregato per quei terribili quarantasette giorni di agonia che Sergio potesse risvegliarsi, chi ha pianto quel 29 aprile in cui si è spento e nei giorni successivi quando persino celebrarne il funerale divenne un’impresa, chi ha ricercato incessantemente verità e giustizia, prima e durante il processo, chi in questi anni ha dedicato alla sua memoria una strada o un giardino e chi invece un libro, una canzone, un fumetto o uno spettacolo teatrale. E quella storia ce l’ha raccontata Anita, mamma Ramelli, che per quasi quarant’anni ha onorato il suo amato Sergio insegnando dignità e amore infinito” (**).

Cioè Giorgia Meloni dedica più spazio a un evento di partito, di patriottismo di partito. Se si vuole di appello ai “suoi” caduti. Per la Nazione ovviamente (quella con la maiuscola).

Non si dimentichi mai che la visione dell’Italia del Movimento Sociale ai tempi di Ramelli, come quella odierna di  Fratelli d’Italia, era ed è intrisa di nazionalismo fascista e di anticomunismo becero, allora diffusissimi sulla stampa missina, e che adesso ritroviamo puntualmente, addirittura sulle prime pagine di "Libero", "La Verità", "Il Giornale", eccetera.  Detto altrimenti:  il fior fiore dell'intolleranza politica.

Per non parlare delle perfide dichiarazioni, contro l'opposizione, diremmo quotidiane,  dei politici di destra. A partire da Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, un estremista di destra, oggi seconda carica dello stato. Che tra l’altro  -  si faccia un giro su Internet -  è criticato dai fascisti con il complesso di Badoglio rimasti  fermi al mito della Repubblica Sociale. Veramente inimmaginabile quel che ruota intorno a Fratelli d’Italia.

E non entriamo nel merito dei contenuti, né de saluti romani, né dei commenti incendiari sotto il video di Giorgia Meloni. E neppure del vergognoso tentativo, ripetiamo, di dipingere il nazionalismo, come un atto di amore, in perfetta linea con la tradizione fascista.

Per quanto bestiale l’uccisione di Sergio Ramelli, come pure i terribili "Anni di Piombo", che, si badi  bene, la destra missina e postmissina ingigantisce e dipinge come gli anni della “loro” Resistenza al “sistema” (quello liberal-democratico )… Per quanto bestiale, dicevamo, non si possono dedicare solo 100 parole a un evento epocale come il Venticinque Aprile e 260 a un evento che qualsiasi storico obiettivo non può non definire di partito.

Per quale ragione la Festa della Liberazione è un fatto epocale? Perché riguarda l’Italia e il mondo libero. Il mondo intero. Non si dimentichi mai che le divisioni celebrative continuano a vederle solo  i  fascisti, perché non hanno mai accettato la giustissima sconfitta. Per un democratico festeggiare il Venticinque Aprile resta la cosa più normale del mondo. Un riflesso politico naturale. Di cui però sono privi, dalla nascita, i persecutori di ebrei e partigiani. Che perciò, per non fare i conti ideologici con se stessi, parlano di “divisioni”.

Le 100 parole dedicate alla Resistenza registrano come un obiettivo fotografico lo squilibrio politico e ideologico che oggi purtroppo marchia al fuoco della fiamma la disgraziata realtà italiana.

Se i fascisti non sono ancora tornati, siamo abbastanza vicini. La progressione c’è: nel 2023 la commemorazione di Sergio Ramelli all’Istituto Molinari, scuola frequentata dalla giovane vittima, avvenne alla presenza della sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti. Quest’anno si è mosso tutto lo stato maggiore del partito ed è stato pure emesso un francobollo.

Se la destra riuscirà a conservare il potere approvando la legge sul premierato si rischia la cancellazione della celebrazione del Venticinque Aprile.

Ogni giorno che passa si sentono più forti. Sono sempre “loro”: i fascisti di un tempo. E il fatto che Giorgia Meloni, che all’epoca della morte di Ramelli neppure era nata, mostri di possedere  una memoria da elefante,  prova una specie di verità generazionale: che i missini, i fascisti dopo Mussolini, di generazione in generazione, non hanno imparato nulla e nulla hanno dimenticato. 

E come sembra neppure gli italiani. Dal momento che votano Fratelli d'Italia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.governo.it/it/articolo/ottantesimo-anniversario-della-liberazione-dichiarazione-del-presidente-meloni/28294 .
(**) Qui: https://www.youtube.com/watch?v=W4-SrQQejk0.

lunedì 28 aprile 2025

Marche. Laboratorio politico rossobruno?

 


Il fatto che il sindaco di Ascoli, “enfant prodige” di Fratelli d’Italia, Marco Fioravanti, difenda i vigili che si sono comportati come militi della MVSN è cosa grave. Ma ancora più grave sembra essere la sua rappresentazione della realtà. Cioè come la dipinge. Si legga qui.

‘Le vittime sono gli agenti di polizia, che hanno subìto una violenta aggressione social solo per aver fatto il proprio lavoro: dopo una segnalazione, come accade ogni giorno e accaduto anche lo scorso anno il 25 aprile, hanno semplicemente verificato il contenuto di uno striscione. Registrato come il contenuto era legittimo e non offensivo, non ne hanno ordinato la rimozione e hanno continuato a svolgere il loro lavoro per garantire la sicurezza dei cittadini’. Rompe il silenzio il sindaco di Ascoli Piceno Marco Fioravanti (Fdi) sui controlli il 25 Aprile alla panetteria “L’Assalto ai Forni” per lo striscione dal contenuto antifascista. Controlli a cui sono seguite delle polemiche” (*).

Che diceva lo striscione? “25 Aprile, buono come il pane bello come l’antifascismo”. Certo, una frase così feroce imponeva seri controlli… Da reiterare addirittura anno dopo anno… In realtà, siamo dinanzi a una intimidazione tipicamente fascista. Che il Sindaco, mostrando una pericolosa propensione auoritaria, ignora, presentando i controlli di polizia – inauditi per un cosa del genere – come normale routine, come se si fosse dimenticata, storicamente parlando,  la natura  dittatoriale e soratttutto violenta del fascismo. Come pure il sacrosanto diritto, in una società aperta, di dichiararsi antifascisti, tra l’altro, come nello striscione, in maniera elegante e innocua. Diremmo perfino simpatica. E invece? Poveri agenti  della polizia locale...

Siamo davanti a un insidioso rovesciamento di valori. La Repubblica sembra non essere più antifascista. Il fascismo non si critica… Ecco il messaggio rovesciato. Molto pericoloso perché giustifica una specie di nuova normalità dove sotto sotto si punta alla riabilitazione del fascismo.

Ma non è tutto. Si legga cosa è accaduto a Pesaro.

Odio social contro la senatrice a vita Liliana Segre dopo la sua partecipazione alle celebrazioni del 25 aprile a Pesaro. ‘Sanguisuga ebrea’; ‘la più nazista di tutte’; ‘vecchia il popolo italiano non ti vuole’; “stanno facendo la raccolta differenziata”: questi alcuni tra le centinaia di insulti che sono stati scritti sotto i video dei festeggiamenti del Comune di Pesaro e del sindaco Biancani per la festa di Liberazione, rivolti dagli haters alla sopravvissuta ai campi di concentramento” (**).

Haters? Chiamiamoli antisemiti. Di sinistra? Forse. Però non va eslcusa neppure la destra.   Non si dimentichi mai che in Italia ( e non solo) esiste una specie di pozzetto nero politico, fetido, rossobruno, frutto venefico di una convergenza ideologica  tra  estremismo fascista e anarco-comunista. 

L’antisemitismo – il che è un fatto storico – rappresenta il collante tra rossi e neri. A questo proposito si legga Nolte sul collegamento tra l’antisemitismo di Marx e quello di Hitler. Con a rimorchio, quello di Mussolini. Che volente o nolente fece approvare le leggi razziali. Per non parlare di quel che accadde durante la Repubblica di Salò. E sotto i suoi occhi. E con  il dettato del  punto 7 del Manifesto di Verona.

Ricapitolando: L’antifascismo rischia il pensionamento, l’antisemtismo sembra dilagare.

Che le Marche, tra l’altro governate da Fratelli d’Italia, regione, come sembra, bruna o “rossobruna”, nel senso di quella fucina di estremismi che fu il fascismo (il comunista Bombacci morì fascista), siano una specie di nuovo laboratorio politico?  Dove si lavora  al fascismo del XXI secolo?

Esageriamo? Forse. Però nostra impressione è che stiamo assistendo al ritorno, in pompa magna, del famigerato “né destra né sinistra”, spina dorsale ideologica del fascismo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.lastampa.it/cronaca/2025/04/27/video/striscione_panetteria_di_ascoli_il_sindaco_difende_gli_agenti_andava_verificato_il_contenuto_-15121789/ .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/cronaca/liliana-segre-insulti-social-oggi-denuncia_6dXUl7Vp87HN6Ik0jFHHf3 .

domenica 27 aprile 2025

Una settimana (mediatica) tremenda. E ora dove andrà la Chiesa?

 


Il delirio comunicativo  è finito?  Bah...  Almeno quello, si spera.  Una settimana tremenda. Difficile da interpretare:  Ritorno  a una specie di fede universale collettiva?  Atto di ipocrisia collettiva?   Una specie di omaggio del vizio alla virtù?

Una cosa è certa, la laicità  si è mostrata  una   fragile superficie, in fondo come la libertà,   pronta a cadere a pezzi sotto i colpi   dell’irrazionalità: della trasformazione della morte di un papa, e di tutto quello che vi ruota intorno, in una  mediocre  saga medievale  mediatizzata.

Probabilmente  dietro tutto  questo  frastuono pseudoreligioso c’è quella che potremmo chiamare una pericolosa fame di certezze, di risposte assolute. Detto altrimenti: di un padre, al quale  demandare l’esercizio della nostra libertà.  Si pensi a una società infantilizzata alla ricerca di padri. Il che  non è simpatico né promettente.  

Oggi  serve un individualismo forte. Diremmo addirittura eroico. Come agli inizi della modernità.  Altro bel problema: Musk vuole su andare su Marte, ma è un mezzo fascista.  Colombo era al tempo stesso  individualista e persona per bene. Per fare un  altro esempio: Drake era un corsaro fedele alla monarchia.  Musk si vuole solo fare i "cazzi" propri (pardon). Quindi è un pirata.

Ovviamente, per tornate alla kermesse medievaleggiante,  il ruolo  giocato  dai mass media, dall’effetto moltiplicatore,  basato sulla reiterazione della notizia-evento,  è stato fondamentale.  Si pensi  a una rincorsa  tra atleti  in vista di un traguardo che  non si vede. Si corre ( i mezzi) perdendo di vista il punto di arrivo (il fine).   Il principio concorrenziale, pur giustificato, di fare meglio e prima  degli altri, si è risolto  nella parcellizzazione della  macronotizia   in un  pulviscolo  di micronotizie.  Se si preferisce in gossip pseudoreligioso.

In realtà, per la Chiesa, al di là della pioggia  di melassa,  caduta su un mare di assurdità,  varrà, come sempre, il principio del “Il Re è morto, viva il Re!”,  nel senso  che  il trono non è vuoto. L’istituzione è viva. Alla macchina si deve guardare non al Pilota di turno.  Quei cardinali, tutti compunti, che si sono visti in tv, erano già  con la testa all’elezione del nuovo Papa. Però, attenzione, non si guardi ai nomi già usciti sui giornali.  Si guardi alla macchina, all’Automobile-Chiesa se si preferisce.

Da che parte andrà? La Chiesa  “degli ultimi”,  quella schierata con i migranti, rischia di entrare in urto  con le principali potenze che non amano i migranti. Senza avere le divisioni di cui parlava Stalin.  E perciò rischia  o di soccombere o  di essere, di volta in volta,   tramutata  in strumento  al servizio di questa o quella potenza,  in base alle politiche migratorie del momento.

Per contro, la Chiesa   “dei primi”, per capirsi una Chiesa che si ponga esplicitamente dalla parte dell’Occidente americano, che non vuole migranti,   rischia  di tradursi, sintetizzando, nel  papa cappellano di Trump.

Resta l’Europa, che però  sembra sul punto di  “svoltare” a destra, quindi dalla parte della Chiesa “dei primi”.   Quindi altro papa  cappellano.  

Qui il problema. Che il prossimo papa non potrà  risolvere da solo.

E qui si torna all' Automobile-Chiesa.  Alla "macchina", all'istituzione insomma. Da che parte andrà?  Esiste una terza via?

Carlo Gambescia


Buona domenica!


 

sabato 26 aprile 2025

Democrazia illiberale

 


Giorgia Meloni ha dichiarato ieri che il fascismo fu una dittatura che negò la libertà: ovviamente tra gli osanna della stampa di destra e la sorpresa di quella di sinistra. Stessa reazione tra i politici, divisi in giulivi e spiazzati.

In realtà, se guardiamo all’evoluzione negli ultimi dieci, quindici anni delle istituzioni politiche in Polonia, Ungheria, Turchia, Stati Uniti, Italia (solo per fare alcuni nomi), il problema non è più quello dei dichiararsi antifascisti ( o comunque non solo quello), ma del graduale passaggio di fatto da una democrazia liberale a una democrazia illiberale.

Si pensi, per fare un esempio banale, a un cinema, multisala, con tanto di luci e insegne, titoli dei film in programmazione, dove però una volta che entrati, invece di trovare comode poltrone e un invitante schermo, ci si ritrovi in una megastanza delle torture corredata di supplizi vari, cavalletti, ruote, mordacchie, eccetera. Dalla quale, una volta sbarrate le porte,  sia impossibile uscire.

Fuor di metafora. La democrazia illiberale, addirittura teorizzata da Erdoğan , Orbán, Trump (*), è una democrazia che formalmente mantiene in piedi le strutture dello stato di diritto, che però ignora di fatto.

Come? Svuotando dall’interno, giorno dopo giorno, le istituzioni liberali, cominciando dal legislativo e dal giudiziario. Cioè dai poteri di controllo sul governo

La democrazia illiberale si può definire come una democrazia in cui prevale l’esecutivo sugli altri poteri. Dove, per capirsi, chi vince le elezioni governa in modo autocratico.

Non si tratta di una semplice repubblica presidenziale, dove, come nella Francia della Quinta Repubblica oppure negli Stati Uniti, prima del secondo mandato Trump, le misure prese dai presidenti non possono sottrarsi al controllo politico del parlamento e di costituzionalità da parte dei giudici supremi, ma di un potere assoluto che dichiara di dover rendere conto solo al popolo. Esiste quindi una componente populista. Che distinse anche il fascismo: movimento antiliberale per eccellenza.

La pericolosità della democrazia illiberale cresce in relazione alla possibilità di manipolazione delle elezioni. Non è una questione di brogli occasionali ma di un proliferare di situazioni ai vari livelli sociali e comunicativi. Se ad esempio le opposizioni sono ostacolate sul piano comunicativo e la stampa, perché minacciata, non osa parlare dei fallimenti del governo, siamo già davanti a un voto chiaramente manipolato. Di qui, l’importanza, delle Corti Costituzionali e dei parlamenti per proteggere i diritti delle minoranze e difendere il pluralismo politico. Cioè dello stato diritto liberale.

Detto altrimenti: il voto del popolo non può diventare lo schermo dietro il quale governare in modo autocratico, vale a dire senza alcuna forma di controllo da parte del legislativo e del giudiziario.

La democrazia illiberale, in buona sostanza, è un democrazia dell’esecutivo. Si torna all’assenza della divisione dei poteri, tipica del mondo preliberale, ossia premoderno, quando il monarca cumulava nella sua persona i tre poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario. E faceva il bello e il cattivo tempo.

Non per nulla negli Stati Uniti si accusa Trump di voler governare come una specie di Luigi XIV. Un comportamento politico che rinvia a personaggi come Erdoğan , Orbán o comunque ad altre figure al  potere ovunque stia prevalendo il concetto di democrazia illiberale.

E qui veniamo a Giorgia Meloni, che tra l’altro sta lavorando alla cosiddetta legge sul premierato, chiaramente illiberale (**). Quindi molto pericolosa per l’esistenza stessa dello stato di diritto.

Insomma non basta dichiarare che il fascismo fu una dittatura. Soprattutto quando, come detto, si vogliono estendere i poteri dell’esecutivo, controllare politicamente la magistratura, potenziare l’ordine pubblico oltre la normalità liberale.

Per farla breve: se Giorgia Meloni dichiara di essere liberal-democratica allora ritiri il decreto sicurezza e chiuda i CPR. E non molesti più i giudici, soprattutto se costituzionali.

Infine un’amara considerazione. Lo stato di diritto liberale è la splendida invenzione dei moderni. Ha poco più di due secoli di vita. Qui però la sua debolezza, diciamo antropologica. Perché si scontra con l’attitudine degli esseri umani  a conservare il proprio stato o comportamento, precedente all’invenzione dello stato di diritto,  attitudine che ha migliaia di anni.  Vi è dietro una specie di forza inerziale  che  fa leva  sulla pigrizia, sull' abitudine,  sul misoneismo,  sullo spirito del gregge.

Perciò è gioco facile – difficilissimo da contrastare – per insinuanti sciamani politici come Erdoğan , Orbán, Trump, Meloni,  adorati dal popolo, evocare sadicamente le forze inerziali, profonde, ataviche, antropologiche, come dicevamo, che spingono verso l’osceno culto popolare del potere assoluto di un singolo individuo, elevato a capo carismatico. Ci si ricordi qui del mussolinismo. Per non parlare dei devoti carnefici al servizio di Hitler, neo Sigfrido. O al culto della personalità tributato a Lenin, Stalin e  ancora  oggi   in  modo significativo verso la figura vivente di Putin, quando ad esempio mostra i muscoli andando a cavallo. Come dimenticare il Mussolini, a torso nudo, della "Battaglia del grano"?

Purtroppo, dinanzi alla democrazia illiberale, ennesima incarnazione di un potere autocratico, che ha migliaia di anni dietro di sé, lo stato di diritto potrebbe rivelarsi una specie di incidente storico.

Cosa triste da dire. Ma di cui si deve prendere atto.

Carlo Gambescia

(*) Si veda Gabriel Piniés, “L’ascension de l’illibéralism Américain”, Éléments, aprile-maggio 2025, n. 213, pp. 38-41. Interessante messa a punto della questione, ovviamente dallo sciagurato punto di vista di una destra reazionaria che scorge in Trump il ritorno del decisionismo filonazista di Carl Schmitt. Il termine democrazia illiberale fu coniato, con largo anticipo, da Fareed Zakaria, giornalista e studioso, in un articolo per “Foreign Affairs” (1997). Si veda il suo Democrazia senza libertà in America e nel resto del mondo, Rizzoli, 2003 (ed. or. The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad, Norton, 2003).

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/05/legge-sul-premierato-melonismo-sonagli.html .

venerdì 25 aprile 2025

Venticinque Aprile

 


Tutti a casa”. Grande film di Comencini che coglie  lo spirito della Resistenza in modo non retorico. E oggi,  Venticinque Aprile,  la Resistenza si celebra. La battaglia per la vittoria della libertà contro il fascismo. Un regime dittatoriale,  nelle mani di  una soldataglia  accampatasi  in Italia per vent'anni,  come un' orda di barbari invasori. 

Una masnada, secondo l' antica etimologia medievale: i  servi di un  signore,  un  Michelaccio  abbigliato come il direttore di un circo.  

Una masnada in camicia nera  andata  al potere con la violenza.  E  annegata, dopo venti anni di soprusi e violenze, in un'inevitabile bagno di sangue.  E ciò che è peggio, al seguito di una guerra fascista,  persa  in modo vergognoso, dopo venti anni di retorica militarista, complice la monarchia, che pensava di liberarsi del fascismo e di poter conservare il potere, come se nulla fosse accaduto.

 

 


Il che spiega   - qui l'arte di Comencini -    la presa di coscienza, dopo tragicomiche avventure,  di un ufficiale, Alberto Sordi, fino a quel momento passivo, che si  alza  in piedi tra le macerie  e  impugna  la mitragliatrice contro i prepotenti rimasugli militari  della sciagurata alleanza di Mussolini. Rovine, mai dimenticarlo,  causate dal fascismo, la masnada accampata in Italia,  e dalla monarchia,  traditrice dell'idea liberale e politicamente disonorata.

Ecco perchè si deve celebrare il Venticinque Aprile. Per non dimenticare.

La chiusa del film, che qui segue, mostra in modo icastico e commovente  cosa sia una presa di coscienza civile e militare. Un lampo.  Che allora condusse al Venticinque Aprile.

 https://www.youtube.com/watch?v=raW0lOxw1qw .

Buon Venticinque Aprile!


 

Carlo Gambescia

giovedì 24 aprile 2025

L’ intervista di Massimo Cacciari su Papa Francesco

 


Non abbiamo mai stimato il filosofo Massimo Cacciari (*). Però abbiamo letto senza prevenzioni la sua intervista su Francesco  molto commentata sui Social,  intervista, diciamo,  da tuttologo (**) .

Un passo indietro. La mancanza di stima è legata al “metodo” Cacciari dell’ obscurum per obscurius. Nel senso che, Cacciari, quando argomenta, invece di chiarire i concetti, ricorre ad argomentazioni ancora più oscure, così da rendere più complicata la discussione di quanto già fosse prima.

Questo sul piano retorico-argomentativo. Su quello socio-pisicologico, Cacciari gioca sulla regola Lacan (applicata a Lacan…), cioè quanto più si è oscuri, tanto più l’interlocutore, si sente ignorante, e di conseguenza, pur di non fare brutta figura, si rende disponibile, se ci si passa l’espressione, a “bersi” di tutto.

Non pochi filosofi universitari, come Cacciari, hanno costruito prestigiose carriere sull’esoterismo linguistico. Sotto il quale però si cela il nulla.

E quando si scopre che il filosofo è nudo? Nell’attività “tuttologica”, per così dire, di questi venditori di fumo: ospitate e interviste. Quando sono costretti a parlare chiaro per farsi capire da tutti o quasi. E qui veniamo all’ intervista.

Cacciari cosa dice, sostanzialmente, di Francesco? Che ha capito la natura avanzata del processo di scristianizzazione dell’Occidente e che ha deciso di porvi rimedio tornando a “predicare il Verbum”.

Ora, parlare di scristianizzazione invece che di secolarizzazione, significa sposare la vulgata tradizionalista che volutamente confonde il cammino della modernità con la marcia trionfale dei nemici del cristianesimo. Di qui l’uso del concetto di scristianizzazione. 

L’interpretazione di Cacciari, come quella dei tradizionalisti, è un’interpretazione bellica della modernità, dalla Riforma ai giorni nostri. E infatti nell'intervista  Cacciari  accenna alla pericolosità del "clero anglosassone", probabilmente perché a richio, da almeno cinque secoli,  di  venefico  contagio protestante:  dettaglio rivelatore, e non da poco.

Infatti, parlare di secolarizzazione, significa prendere sociologicamente atto (semplifichiamo) della fine del potere temporale, del potere dell’istituzione-Chiesa sugli uomini. Ci si apre alla libertà di coscienza dell’individuo. Detto altrimenti al  libero esame.

Per contro, porre l’accento sulla scristianizzazione significa rimpiangere il potere temporale, anche perché il senso del Verbum ha una varietà infinita di significati che Cacciari non chiarisce. E il potere temporale era anche il potere di coartare la libertà di coscienza. Altro che libero esame.

E qui si scorge l’equivoco. Perché Cacciari sogna una chiesa militante, Papa Francesco belante. Il suo Verbum, per dirla con Cacciari, era quello di proseguire nella linea di trasformazione della Chiesa in multinazionale della carità globale (***).

L’esatto contrario di quel che auspica Cacciari che vuole lo scontro frontale con l’Occidente capitalista e consumista, che non ha mai amato fin dai tempi della sua militanza politica.

Il Papa Francesco di Cacciari è un Papa Francesco immaginario. Perché Papa Francesco ragiona da riformista, pensa prima ai corpi. Mentre Cacciari continua a ragionare come il confuso operaista, dedito a incendiare anime, che era sessant’anni fa.

Che c’è di male nel riformismo di Papa Francesco? Nulla. Se non che la retorica degli ultimi, racchiusa nei Vangeli, riaccende quel pericoloso conflitto tra istituzione e movimento, tra l’utopistica povertà evangelica e le oggettive necessità materiali delle élite della Chiesa cattolica. Che Francesco ha cercato di risolvere – ovviamente semplifichiamo – potenziando l’assistenza mondiale ai poveri. Una specie di welfare state cattolico, quindi universalistico, che metta d’accordo tutti: poveri e cardinali.

Ricapitolando: Cacciari ha una visione bellicista della fede cattolica, vuole lo scontro con gli scristianizzatori. Si pensi, in altro ambito e per un parallelo, al pittoresco Georges Sorel, nemico di qualsiasi riformismo che finì per ammirare Mussolini e Lenin insieme. Francesco, più coerente con l’ultimo secolo, secolo e mezzo di encicliche sociali dei papi, ha invece preferito la via delle riforme, non cerca lo scontro.

Infine come si spiega che su una questione di drammatica attualità, come la guerra in Ucraina, sia il bellicista Cacciari che il pacifista Francesco, evochino la pace a ogni costo?

La risposta è semplice. Uno dei due finge. E qui decida il lettore.

Carlo Gambescia

(*) Qui una scelta di nostri scritti su Cacciari: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=massimo+cacciari .

(**) Qui: https://www.nuovatlantide.org/cacciari-bergoglio-ha-cambiato-una-chiesa-a-pezzi-il-clero-anglosassone-puo-affondarla/ .

(***) Sul punto si veda il nostro articolo di ieri: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/04/la-morte-di-francesco-ancora-sul-papa.html .

mercoledì 23 aprile 2025

La morte di Francesco. Ancora sul “Papa gaucho”

 


Ieri un amico, credente, in privato criticava, accusandomi di essere  troppo duro con il Papa (*).

In realtà, – così ho risposto – ogni bravo studioso di metapolitica, che non voglia cadere nella trappola del superuomo storico che vede e provvede, deve tenere nel giusto conto l’evoluzione istituzionale. Cioè quanto può un singolo individuo, per quanto capace, condizionare le istituzioni e viceversa.

Nel caso di Francesco, ma anche in generale, va perciò subito introdotta la distinzione tra stile, cioè apparenza, diciamo il “gaucho” cristiano, il populista insomma, e la sostanza istituzionale, il “decisore” politico, il papa,  che incide sulle carni della realtà.

Che intendiamo dire con il termine “sostanza istituzionale”? Presto detto: la dinamica, cioè il movimento, in questo caso dell’istituzione-Chiesa.

In particolare, la sua direzione, diciamo politica. Insomma la sostanza istituzionale si riassume nella domanda “dove sta andando la Chiesa?”. Il che rinvia, per introdurre una metafora, al posizionamento dei binari istituzionali. Si pensi a un treno che non può fuoriuscire dai binari. A bordo, vi è un Papa, che per quanto bravo macchinista, non può cambiare direzione. I binari sono quelli, e conducono da qui a lì. Il percorso del treno non può essere cambiato.

I binari istituzionali della Chiesa, e da almeno un secolo, sono quelli della sua trasformazione in “industria” leader nel campo della carità globale. Attenta più ai corpi che alle anime dei mitici“ultimi”.

È giusto? È sbagliato? Meglio non dire. Ovviamente al riguardo abbiamo le nostre idee. Però, ecco la vera domanda che deve porsi l’analista: quale è stata la posizione del Papa macchinista rispetto alla tratta istituzionale dalla città delle anime alla città dei corpi?

Come scrivevamo ieri, Francesco ha accelerato. Sotto questo aspetto si può perciò registrare una corrispondenza tra “stile gaucho” e “decisioni” istituzionali.

Ovviamente ciò che colpisce la fantasia della gente comune è il Papa populista: lo stile “gaucho”, informale, da cowboy della Pampa. Insomma il romanzo d’appendice. A cominciare da una comunicazione più rilassata e diretta, di livello familiare, comunque colloquiale. Si ricordino gli scambi di opinioni, molto informali con i giornalisti e le telefonate ai fedeli malati o sofferenti.

Pertanto cosa abbiamo scritto ieri di così grave e lesivo per il Papa?

Nulla. La Chiesa, Francesco o meno, continuerà per la sua strada, i binari del treno sono gli stessi. Forse il prossimo Papa sarò meno gaucho. Il che non significa che la Chiesa tornerà ad occuparsi delle anime.

Per farla breve, il folclore che tanto piace ai mass media, è qualcosa di cui la Chiesa, dopo Francesco, potrà anche fare meno. Non potrà invece rinunciare alla sua trasformazione in multinazionale della carità globale.

A meno che, e si tratta di questione aperta, considerate le enormi capacità mimetiche mostrate dalla Chiesa nei suoi duemila anni di storia, i nazionalismi montanti nel mondo, non spingano la Chiesa a fare un passo indietro.

Cioè a passare, per sopravvivere (come già accaduto: dall’Impero di Roma alle invasioni dei barbari, dalle monarchie assolute alle repubbliche giacobine, fino ai totalitarismi novecenteschi), a passare, dicevamo, dall’Internazional welfare (la carità globale) al Domestic welfare (la carità nazionale). Per capirsi: dagli ultimi di tutto mondo agli ultimi che impugnano come randelli le bandierine nazionali. Non si dimentichino mai i concordati stipulati con Mussolini (1929) e con Hitler (1933), per citare i più importanti.

Concludendo non si badi più di tanto al “Papa gaucho”, al folclore, perché quel che conta è la sostanza. Che non cambierà. Almeno per il momento.

Carlo Gambescia

(*) Qui l’articolo di ieri : https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/04/bergoglio-il-papa-populista-non-ci.html .

martedì 22 aprile 2025

Bergoglio, il Papa populista. Non ci mancherà (ma non è questo il problema)

 


C’è sempre un lato tragicomico nelle vicende umane, anche nella morte di un Papa, argomento che invece andrebbe affrontato con la massima serietà.

A cosa ci riferiamo? Al solito teatrino politico, ovviamente dai toni molto accesi. Da una parte la sinistra che considera Papa Bergoglio una specie di San Francesco redivivo (si sprecano titoli come “il Papa degli ultimi” ). Dall’altra la destra che invece, anche dopo morto, lo ricorda non simpaticamente come un “Papa rosso”.

Di conseguenza l’enorme distanza tra le due definizioni fa sorridere; per alcuni è morto un santo, per altri un diavolo. Il che è tragicomico, come dicevamo, perché o si è l’uno o si è l’altro. Un papa con la coda del diavolo che spunta da sotto la tonaca è roba da anticlericalismo ottocentesco, che oggi fa sorridere.

In realtà Francesco va ricordato come il Papa populista per eccellenza: un anticapitalista, erede di certa cultura peronista, da caudillo di successo, quindi statalista di tipo sudamericano, che vede nella libertà, non solo economica, qualcosa di pericoloso. E nel consumismo un sottile e mortifero veleno per il popolo.

Idee difese fino all’ultimo: si pensi a una delle sue ultime apparizioni, spettinato, in maglietta della salute, poncho, commovente quanto si vuole, ma decisamente irrituale. Però, come si dice, lo stile è l’uomo. Anche a cinque minuti dalla fine. E non parliamo di un vecchietto qualsiasi, malato, ospite di qualche scalcinata Rsa pubblica. Ma del Papa. Che usciva da Santa Marta, una specie di hotel a cinque stelle.

Il populismo di Papa Bergoglio ha fatto bene o male alla Chiesa cattolica?

A nostro avviso il populismo di Francesco si è inserito, accentuandolo, in quel processo di trasformazione della Chiesa da ideale custode della Salvezza (ovviamente per il credente) in pragmatica multinazionale della carità. Una Chiesa che si interroga quasi sempre con enorme superficialità sul fondamentale ruolo della ricerca del profitto nella società moderna. Un processo di trasformazione che non risale al Concilio Vaticano II (1962), come spesso si dice, ma alla sfida della modernità economica, che ci riporta direttamente al Vaticano I (1869) e in particolare alla Rerum Novarum (1891)

Di conseguenza Papa Francesco è piaciuto ai populisti di destra e sinistra, ma non ha incontrato i favori dei tradizionalisti, che continuano a scorgere in lui, anche da morto, un nemico del sacro, e neppure dei liberali che non hanno mai apprezzato la sua superficiale critica al liberoscambio.

Va anche detto che Papa Bergoglio ha invece ottenuto i favori di certa sinistra intellettuale che, da protestanti in ritardo di cinque secoli, aspirava ed aspira alla riforma del cattolicesimo in chiave democratica (un controsenso, ma questa è un'altra storia...), e che ha visto in Francesco una via di mezzo tra Lutero ed Erasmo. Un nome per tutti: Eugenio Scalfari.

In realtà il giudizio storico su Papa Francesco dipende dalla valutazione del processo cui abbiamo già accennato. E che verte sulla trasformazione della Chiesa cattolica in macchina che non fabbrica più dei ma poveri.

Come? La ricetta è antica: giocando sul senso di colpa dei ricchi. E conferendo alla povertà uno status sociale privilegiato. Di qui l’anticapitalismo della Chiesa. Che finge di non sapere che il capitalismo,, senza neppure porsi l’obiettivo, ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone. Fatto che trova conferma in qualsiasi manuale di storia economica. Storia, attenzione, non statistiche, spesso manipolate dai nemici del capitalismo, schiacciate sulle difficoltà contingenti del presente. Statistiche “presentiste” che ignorano il grande cammino fatto. E che ancora può fare il capitalismo.

In sintesi: la Chiesa come macchina per fabbricare poveri. Il che, per capirsi, non aiuta le persone a rialzarsi. Crea solo dipendenza, e conseguenza non voluta dalla Chiesa, risentimento sociale. Quindi il nostro giudizio è negativo.

Ovviamente ci si può rispondere che il nostro è solo bieco materialismo sociologico e che la Chiesa è molto più di una struttura sociale: non cura solo i corpi ma soprattutto le anime, eccetera, eccetera.

Il che spiegherebbe, proprio da parte di Francesco, la difesa, peraltro rapsodica, dei grandi principi, a cominciare dalla condanna del diritto all’interruzione di gravidanza e di altri cavalli di battaglia laici e liberali. Tra l’altro scontentando in questo modo anche i tradizionalisti. Dal momento che gli atteggiamenti, in particolare il famigerato possibilismo di Papa Bergoglio (“Chi sono io per giudicare”), non erano, non sono, non saranno mai amati dai sostenitori del Papa-Re.

Per questa ragione riteniamo inutile affrontare le questioni teologiche e dottrinarie. L’unico vero processo in corso è quello sociologico, metapolitico se si vuole, legato alla trasformazione della Chiesa cattolica in macchina per fabbricare poveri. Che, "tecnicamente" parlando,  si potrebbe far risalire alla Rerum Novarum (1891) di Leone XIII. Oltre, ovviamente, ai famigerati principi contrivoluzionari, post Rivoluzione francese, culminati nel Sillabo (1864) e nella conferma del Vaticano I (1869). E dal 1891, si badi, di encicliche sociali ne seguirono altre tredici (quattro solo di Francesco) (*): una prolificità più che secolare riguardo al sociale che sembra non avere precedenti nella storia della Chiesa. Un pauperismo in qualche misura recepito e consacrato dal Vaticano II (1962).

Per inciso, a proposito del pauperismo,  in termini di storia delle idee,  si potrebbe tornare indietro fino ai Vangeli. Ma, sociologicamente parlando, i vangeli sono movimenti, stato nascente, le encicliche invece istituzioni e gerarchie. C’è una bella differenza. Si pensi a quella che correva tra lo stile comunitario, di qualsiasi centro sociale e la sede del Pci, solo giacche e cravatte, di via della Botteghe Oscure. Chi aveva nelle mani il potere? Il Pci. Come oggi la Chiesa. Quindi il populismo cattolico potrebbe non essere genuino. O comunque dedito, visti i tempi, a racimolare fedeli, assistendoli, tra “gli ultimi”. Il pauperismo dei Vangeli è vissuto allo stato nascente, quello della Chiesa è un bisogno istituzionale. E indietro, salvo terremoti sociali, non si torna. Da istituzione non ci si può fare movimento. Delle due l'una.

Papa Bergoglio, come detto, non si è mai discostato dalla linea populista, anzi l’ha favorita per quanto ha potuto. Dodici anni di pontificato non sono tanti ma neppure pochi. Comunque sufficienti per corroborare, suffragare, sostenere strategie populiste.

Quanto al successore, al di là delle dietrologie sulle “promozioni” pre mortem di Bergoglio, sarà difficile invertire una linea di tendenza che ormai ha più di un secolo. La Chiesa per ora continuerà a fabbricare poveri. Il successore di Francesco sarà un altro manager della carità globale.

Carlo Gambescia

(*) Per un rapido giro di orizzonte in materia, si veda qui: https://ucid.it/blog/2014/10/29/dieci-encicliche-sociali-dalla-rerum-novarum-alla-caritas-in-veritate/ ; e qui: https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals.html .

lunedì 21 aprile 2025

La solitudine del boomer

 


I nati negli anni Cinquanta dell’altro secolo hanno favorito e vissuto in otto decenni trasformazioni sociali radicali. Una vita trascorsa tra i due secoli significa aver visto succedersi, l’una dopo l’altra, più Italie.

Il boomer, come si dice oggi, ha visto scorrere come in un film, del quale è stato però anche attore, più Italie. E spesso come protagonista, meritoriamente, soprattutto grazie alla sua collocazione civica e civile.

Dicevamo più Italie. Silenzio in sala. Comincia il film.

Dall’Italia ancora affamata e arcaica degli Anni Cinquanta, in fondo provinciale, impoverita, uscita dalla guerra fascista all’ Italia della modernizzazione economica, civile e politica degli anni Sessanta; dall’Italia sull’orlo dell’abisso, prigioniera del terrorismo e degli incubi rivoluzionari o revanscisti all’Italia del rilancio economico, e dei grandi cambiamenti di costume degli anni Ottanta; dall’Italia di Tangentopoli e del populismo giudiziario e politico degli anni Novanta all’Italia finalmente europea della moneta unica degli anni Duemila; dall’Italia del ripiegamento, sotto i colpi di una crisi economica mondiale degli anni Dieci del nuovo secolo all’Italia, che come nel gioco dell’oca sembra essere tornata alla casella di partenza, negli anni Venti del XXI secolo segnati dal turbinio degli stessi feroci nazionalismi, che avevano condotto alla guerra mondiale. Una brutta china che rischia di riportarci all’ Italia impoverita e provinciale degli anni Cinquanta dell’altro secolo.

Per restare in metafora l’impressione è quella di essere ai titoli di coda. O per dirla in chiave metapolitica, alla fine di un ciclo. Che ovviamente, per gli sconfitti del 1945, tornati clamorosamente a galla, collima con l’inizio di un nuovo ciclo, ma di segno completamente opposto al disegno liberal-democratico e modernizzatore degli otto decenni trascorsi. Di qui la canea populista che circonda e opprime il boomer.

Che vive in solitudine. Prova l’amara sensazione che tutto il faticoso lavoro di modernizzazione dell’Italia, anche il proprio, ad esempio nell’ambito dello studio, stia per essere travolto da una gigantesca reazione politica, uno tsunami ideologico,  nero, torbido, sordo.

Siamo davanti a figure politiche, come Giorgia Meloni, che liquidano, più o meno apertamente, gli ultimi ottant’anni come una pura e semplice deviazione politica dal corso politico inaugurato nella storia d’Italia dal fascismo e interrotto dalla sconfitta subita nel 1945.

Un tempo costoro si definivano nazionalisti e fascisti, oggi si dipingono come patrioti e sovranisti. Falsari ideologici che sulla stolta scia di un reazionario come Donald Trump, che sogna per gli Stati Uniti una specie di fascismo del XXI secolo, promettono a loro volta di fare  grande l’Italia. E nuovamente, nonostante i pessimi risultati del primo tentativo in orbace.

E quel che è peggio è che la gente sembra di nuovo cadere tranello, credendo a queste pericolose fanfaronate.

Di qui, come detto, la solitudine del boomer.

Carlo Gambescia

sabato 19 aprile 2025

Da Travaglio a Hegel

 


Marco Travaglio, nel suo commento al fatto del giorno, deridendo come suo stile Giorgia Meloni, ha scritto una cosa terribile che in due righe ha cancellato almeno un secolo di sapienza giuridica.

A proposito dell’attribuzione meloniana, nei colloqui con Trump, dello status di aggressore alla Russia, Travaglio se n’è uscito così:

Giorgia (…) ha ribadito la solita tiritera su aggressore e aggredito, come se dopo tre anni il problema fosse chi ha iniziato questa guerra, e non come finirla”.

La questione va ben oltre la buona fede o meno di Marco e Travaglio e di Giorgia Meloni. Perché la definizione di attacco alla sovranità, all’integrità territoriale, all’indipendenza politica di uno stato è il punto di arrivo di un processo di umanizzazione e civilizzazione della vita internazionale che viene da lontano.

Si tratta di un concetto formulato nel Patto della Società delle Nazioni (1919), che fu il primo trattato a qualificare l’aggressione come illecita. Poi recepito nella Carta delle Nazioni Unite (1945), che attribuisce al Consiglio di Sicurezza i poteri di accertamento dell’atto di aggressione. Atto considerato dal diritto internazionale contemporaneo come un crimine contro la pace.

Si potrà ironizzare sul romanticismo pacifista che pretende di ingabbiare la volontà di potenza di stati e imperi, però oggi come oggi sono queste le regole. Frutto dell’amara lezione scaturita dai sanguinosi conflitti mondiali novecenteschi. Regole tese a impedire la guerra di tutti contro tutti, almeno come adesione a un comune punto di vista che discende da un principio regolativo: quello di evitare la guerra sanzionando coloro che la causano.

La crudezza di Travaglio, ammesso che sia in buona fede, è stupefacente. Tuttavia, e valga come inciso, anche le sue rozze e sbrigative conclusioni rinviano a un visione pacifista, la stessa che anima la Carta delle Nazioni Unite.

Con una differenza: l’Onu vuole impedire le guerra ex ante, secondo la logica penalistica della violazione della legge, Travaglio, sempre in nome della stessa logica, propone una specie di amnistia (che cancella reato e pena).

Il vero problema della “penalizzazione” della guerra e della pace è nel fatto che il diritto per essere effettivo non può essere disgiunto dall’uso della forza. Per semplificare: senza il carabiniere nessuna sentenza emessa dal giudice può essere eseguita.

Senza una forza armata internazionale che lo arresti e punisca, per così dire, l’attribuzione dello status di aggressore non serve a nulla.

Anche perché, politicamente parlando, i poteri di accertamento del Consiglio di Sicurezza sono discrezionali e dipendenti dal diritto di veto dei cinque membri permanenti (Cina, Francia, Russia, Regno Uniti, Stati Uniti): le potenze vittoriose nel 1945.

Pertanto la definizione dello status di aggressore dipende non dai rapporti di diritto ma dai rapporti di forza tra le cinque potenze ricordate.

Ciò però non significa che la cornice penalistica, diciamo così, possa essere violata impunemente. Come dicevamo si tratta di impedire la guerra di tutti contro tutti, almeno come principio regolativo, accettato dagli stessi detentori del potere di veto.

Insomma meglio un principio che nessun principio. Pertanto liquidare come “tiritera su aggressore e aggredito” la difesa del principio di non aggressione, significa fare un passo indietro verso la guerra di tutti contro tutti. E cosa paradossale, evocando la pace. Curiosamente, come poi vedremo,  il pacifista Travaglio abbraccia Machiavelli.

Di conseguenza, per fare un esempio, respingere la possibilità di individuare un colpevole significa definire inutile il diritto penale, l’apparato giudiziario e le stesse forze dell’ordine.

Perché gettare via il bambino con l’acqua sporca della tinozza in cui lo si è lavato? Detto altrimenti: che diritto penale, giudici e poliziotti non si mostrino sempre all’altezza dei compiti assegnati dalle leggi, non significa che non siano necessari. Perché un rapinatore di banche, potendo contare sull’impunità, reitererà fino a quando avrà fiato in corpo.

Fuor di metafora: far finire una guerra, prescindendo dalle sue cause, suona come una specie di vittoria dello stato che l’ha scatenata, che in futuro si sentirà autorizzato, sapendo di poter contare sull’impunità, ad aggredire altri stati, fino a quando ne avrà la forza.

Sul punto coloro che la pensano come Travaglio risponderanno che rischiare una guerra, addirittura atomica, per punire la Russia è un grave errore.
 

Messa così la cosa, può sembrare che il conflitto sia tra etica della responsabilità basata sul compromesso ed etica della convinzione fondata un imperativo etico.

In realtà l’etica della convinzione ha due accezioni: da un lato Fiat iustitia et pereat mundus, ovvero “Sia fatta giustizia, perisca pure il mondo” (Kant). Quindi guerra atomica. Dall’altro Fiat iustitia ne pereat mundus “Sia fatta giustizia affinché non perisca il mondo” (Hegel). Quindi niente guerra atomica (*).

Per contro l’etica dei mezzi, del compromesso, quella di Travaglio, per capirsi, rimanda al Machiavelli del “Meglio la città guasta che perduta” attribuito a Cosimo de’ Medici (**).

Crediamo, pur non essendo fanatici del pensiero hegeliano, che il suo Fiat iustitia ne pereat mundus (“Sia fatta giustizia affinché non perisca il mondo) sia la via maestra. Cioè quella, per quanto imperfetta, del sanzionare l’illegalità affinché non si ripeta. Facendo sì, però, che al tempo stesso non perisca il mondo.

Ciò significa sanzionare il trasgressore, la Russia, senza usare le armi atomiche. Il che può apparire come la quadratura del cerchio.

Può darsi. Però tra la certezza di una vittoria del colpevole in una “città guasta” (etica della responsabilità machiavelliana) e della distruzione del mondo (etica dei principi kantiana) non vale forse la pena di esplorare la non facile strada di come punire il colpevole senza provocare la distruzione del mondo (etica dei principi hegeliana)?

Carlo Gambescia

(*) Per le due accezioni: Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2003, p. 93; G.F.W. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, § 130, p. 120.

(**) Si veda N. Machiavelli, Istorie fiorentine, Lib. VII, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, p. 797.

venerdì 18 aprile 2025

Parlare chiaro ( a proposito dell’incontro Trump-Meloni)

 


In Europa, perfino  tra critici e detrattori,  si ritiene che Trump, magari con uno “stile” differente (terminologia di moda nelle scienze politiche), sia un leader ragionevole, se non addirittura liberal-democratico, che crede nella bontà della cultura del contratto. Per capirsi: nell’importanza di sedersi con gli interlocutori intorno a un tavolo per trattare. Un leader ragionevole,  si dice,  rifiuta la guerra e fa tutto il possibile per evitarla. Di qui la scelta della cultura del contratto, dell’accordo insomma.

Un accordo significa che le varie parti rinunciano reciprocamente a qualcosa per conseguire un obiettivo comune.

Qui purtroppo cominciano i problemi con Trump, perché il magnate rifiuta la cultura del contratto. Vuole prendere tutto e non concedere nulla.

Si rifletta. Che cosa ha strappato a Washington Giorgia Meloni? Nulla. Che Trump farà un viaggetto in Europa, in Italia in particolare, e che forse incontrerà i vertici dell’Unione Europea.

Per il resto il magnate ha ribadito le sue posizioni sui dazi, su Kiev, sulla Cina. Su tutto insomma. Non ha concesso nulla. Né concederà nulla se e quando verrà in Italia. E non crediamo, che un Vance di passaggio a Roma, proprio oggi, possa cambiare le cose.

Trump va dritto per la sua strada come altri dittatori del passato e del presente. La sua concezione della politica è preliberale. Non contempla una civiltà delle buone maniere politiche. Trump capisce e (forse) teme solo l’ uso di una forza, anche militare, uguale o superiore alla sua. Trattare con Trump è una perdita di tempo. In questo senso, il fatto che Giorgia Meloni, abbia mantenuto il punto su Kiev, considerata la consistenza militare italiana vicino allo zero, non può preoccupare Trump, che  ha consentito, tacendo, il piccolo giro di valzer antiputiniano della Meloni.

Sul punto specifico, l’idea di “nazionalismo occidentale”, che Giorgia Meloni sembra aver accettato più o meno di buon grado, non è altro che un consegnarsi mani e piedi legati a Trump, distruggendo con la cultura del contratto, anche l’Unione Europea, che della cultura del contratto ha fatto,  non sempre giustamente (come vedremo), una ragione di vita.

Trump – e in mondo normale sarebbe perfino inutile dirlo – non è Obama. E qui si pensi al progetto lanciato nel 2013 dal presidente democratico di un mercato transatlantico (Transatlantic Trade and Investment Partnership TTIP ), affondato proprio dalle destre nazionaliste europee, con in prima fila Giorgia Meloni (che allora contava meno), poi rifiutato da Trump e svilito da Biden. Un disegno volto a creare un’area di libero scambio Europa-Usa, certo con i suoi rischi, anche di tipo protezionista verso il resto dl mondo (*), che però rifletteva, a grandi linee, una paritaria cultura del contratto.

Nulla a che vedere con le pistolettate protezioniste di Trump. Di conseguenza non esiste un nazionalismo occidentale, esiste il nazionalismo di Trump al quale la Meloni, fin da giovane ammiratrice di Mussolini, si piega volentieri perché ne apprezza i tratti autocratici e razzisti.

La cultura occidentale è fatta di libero scambio, libero pensiero, diritto e diritti, legalità, rispetto delle differenze e tolleranza verso gli avversari. L’esatto contrario della cultura politica nazionalista, per la quale, come ripeteva Mussolini, imbeccato dai suoi filosofi di fiducia, tutto nello stato, nulla fuori dello stato.

Nazionalismo e Occidente sono opzioni profondamente differenti. Anzi si potrebbe parlare di opposti non dialettici.

Allora che cosa deve fare l’Europa? Saremo chiari.

In primo luogo, non fidarsi di Giorgia Meloni, che lavora per il re di Prussia.

In secondo luogo, puntare sul pochi ma buoni, cioè sugli stati realmente europeisti, costringendo tutti gli altri a uscire allo scoperto.

In terzo luogo, dove ancora possibile, mettere fuori legge le destre populiste e fasciste, le stesse che ammirano Trump e Putin.

In quarto luogo, rispondere con altri dazi ai dazi di Trump.

In quinto luogo, riarmarsi, in comune ovviamente (i pochi ma buoni), anche sul piano degli armamenti non convenzionali, non contando più sull’apporto degli Stati Uniti, che quanto prima usciranno dalla Nato. E ovviamente restare dalla parte di Kiev.

In sesto luogo aprirsi al libero commercio con tutti gli altri paesi, esclusi gli stati canaglia.

In settimo luogo, pur con la necessaria cautela, intrattenere rapporti politici e commerciali con la Cina e con Israele, confidando per la Cina nella forza di trazione liberal-democratica del mercato, e per Israele nella caduta di Netanyahu e nell’avvento al potere di forze politiche più ragionevoli, liberali, imbevute di cultura del contratto.

Sette punti da meditare. Ma non troppo, perché si deve agire.

Risulta evidente che si impone alle classi politiche europee, liberali, socialiste, cristiane, uno sforzo quasi sovrumano: Uno, di capire la gravità del momento. Si potrebbe parlare di stato di eccezione. Due, di riuscire a tenere alta l’idea di Occidente, quella vera, liberale ed europea. Tre, che, proprio perché la situazione è “eccezionale”, la causa va difesa, costi quel che costi, anche contro lo stesso volere di coloro che per autolesionismo, in preda a una specie di crisi di panico politico, votano per i nuovi Hitler.

Si dirà che estendiamo alla difesa del liberalismo la tesi schmittiana dello stato di eccezione. Di un pensatore politico, grande ma mezzo fascista. E della conseguente necessità di misure forti. E che in questo modo parliamo lo stesso linguaggio delle autocrazie.

Si badi però, il punto è fondamentale: la regola della tolleranza non può essere estesa al nemico, che punta alla distruzione dell’Europa liberal-democratica. Sarebbe un errore fatale. A brigante, brigante e mezzo. Detto altrimenti: serve una forza militare e politica che si faccia guardiana della costituzione sostanziale europea ed occidentale, che si compone dei valori sopra citati. Che la sospenda, solo momentanemente, non nei riguardi degli avversari, ma dei nemici.

Per la sinistra, pacifista e ultrademocratica, tutto ciò può rappresentare una medicina amara, non facile da mandare giù.  Sospendere, seppure momentaneamente la civiltà delle buone maniere politiche?   Mai.

Comprendiamo benissimo. Però qual è l’alternativa? L’autocrazia.  Quindi tra avversari ci si deve unire per combattere il nemico.

Ciò che in questo momento non bisogna assolutamente fare è continuare a discutere con i nemici interni, schierati con Trump e Putin, sperando di convincere gli elettori, puntando, si ripete, sulla forza dell’argomentazione corretta. Come propongono le anime belle alla Vittorio Emanuele Parsi. 

Pensiamo al noioso e ripetitivo giochino di smascherare le tesi avversarie. Serve solo ad alimentare confusione, cori da stadio e talk show.  Quanto tempo sprecato.

Anche perché ammesso e non concesso che il parlare, più o meno dotto ( e lo asseriamo da addetti ai lavori), di fallacie argomentative funzioni anche con l’elettore potenzialmente fascista, “che se ne frega”, servirebbero anni per vedere qualche risultato: si dovrebbe ricominciare dalle scuole elementari. E soprattutto essere capaci, ma da subito, di combattere quel fenomeno dell’analfabetismo funzionale, oggi amplificato dai social.

Cosa complicatissima. Anche perché l’einaudiano deliberare per conoscere – giustissimo – rinvia al ruolo della democrazia rappresentativa e di un parlamentare, crema delle crema, capace di andare oltre il mal di pancia e la bava alla bocca della gente comune. E qui esiste un problema di selezione delle élite. Che ovviamente, considerata la situazione di emergenza, potrà essere affrontato solo dopo, nel quadro della recuperata normalità liberale.

Purtroppo la democrazia emotiva, non si può combattere impugnando il manuale del perfetto logico.

Inutile perciò farsi illusioni. Invece si deve agire. Si impari dalla Meloni, subito partita per Washington, in cerca di spazi per aumentare il consenso intorno alla destra italiana, tanto autocratica e razzista quanto quella trumpiana. E detto per inciso, la Meloni si è fatta bella con il magnate a proposito della sua svolta albanese. Argomenti da conferenza nazista di Wannsee, quando si programmò la soluzione finale.

Piacciano o meno questi sono fatti. Ai quali si deve rispondere con i fatti. E in tempi brevi.

Possibile non si capisca che non si può affidare la difesa della liberal-democrazia europea a Giorgia Meloni? Che non ha mai fatto i conti il fascismo e che si appresta se non a cancellare a minimizzare la celebrazione del 25 Aprile?

Carlo Gambescia

(*) Qui un nostro articolo in merito: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/09/draghi-e-la-via-europea-al-protezionismo.html#comment-form .

giovedì 17 aprile 2025

Perché pagare il pizzo a Trump? Il viaggio a Washington di Giorgia Meloni

 


Oggi Giorgia Meloni si troverà al cospetto di un tiranno che vuole introdurre nelle università americane un commissario politico per facilitare l’iscrizione di studenti che condividono l’ideologia trumpiana (*).

Una misura che non ha precedenti, se non nel maccartismo, che comunque non fu così sfrontato né fu riflesso di scelte presidenziali. Harvard,il tempio del sapere americano, ha detto no. Come del resto altre università. Sicché perderanno ingenti finanziamenti.

E questo probabilmente è solo l’inizio di un processo di distruzione delle libertà non solo americane. Perché il modello Trump, come il modello Mussolini post marcia su Roma, rischia di essere esportato in tutto il mondo occidentale. Il carisma dell’uomo forte sembra tornato tristemente di moda. Come l’istinto gregario nei popoli, o se si preferisce di gregge.

Perciò Giorgia Meloni dovrà parlare di dazi con un tiranno. Un uomo che calpesta la legge e ammira altri tiranni come lui. Una cosa moralmente e politicamente disgustosa e inaccettabile. Che ci riporta ai tempi di Daladier e Chamberlain quando  pendevano dalle labbra di Mussolini e Hitler.

Che c’entra tutto questo con i dazi? Ci si potrebbe rispondere nulla, perché quando si fa politica – così recita certo realismo dalla vista corta – si deve essere concreti e pensare solo ai propri interessi.

Giorgia Meloni, accesa nazionalista, pardon sovranista, non ha dubbi al riguardo. E il fatto, come sembra, che l’Unione Europea si sia affidata a una neofascista, nemica storica dell’Europa e dell’Occidente ( non si creda alle sue recenti dichiarazioni “filo”), è purtroppo un altro segnale di decadenza. Per dire una banalità, indica solo una cosa: che Italia ed Europa ballano sul Titanic non avvertendo gli  strani rumori che risalgono dalle stive.

Otterrà risultati? Tramanda Ibn Khaldūn, il grande Machiavelli maghrebino, che i tiranni vanno circuiti, coccolati, adulati. Lui stesso, una volta al cospetto di un Tamerlano, disteso tra piume e cuscini da mille e una notte, per catturarne i favori lo definì il più grande sovrano di tutti i tempi, davanti al quale non si poteva non tremare. E che quindi si scusava della sua mancanza di lucidità…

Il che per estensione significa che Trump vuole intorno sé non consiglieri e alleati ma solo ministri condiscendenti e associati servili. E che applica ed estende a tutti i suoi interlocutori la logica della potenza. Di qui l’uso del ricatto.

Può valere con uomo del genere la logica del contratto? Il pezzetto di carta sventolato da Giorgia Meloni? Come quello che dopo Monaco Chamberlain sventolò al suo ritorno? In realtà, come ogni tiranno Trump è un estorsore. E qui è d’aiuto il codice penale: estorsore è chi con violenza o minaccia, costringe uno o più soggetti a fare o a non fare qualche atto, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Ovviamente, la logica della potenza non contempla i concetti di ingiusto profitto e di altrui danno. La politica assolve il vincitore, perché segue la logica del successo: s’inchina al più forte. A meno che – ecco il vero punto politico – non ci si opponga con forza pari o superiore.

Pertanto è un errore insistere sull’importanza della mediazione e sulla logica del contratto a prescindere. Cioè con chi fondi il suo potere sull’uso spregiudicato forza. Perché nella migliore delle ipotesi la “controversia” – chiamiamola così – si può risolvere, come capita quando infuria il racket, nel chinare la testa e pagare il pizzo. Cioè dazio. 

Giorgia Meloni rischia di fare la stessa fine di quei negozianti,i famigerati borghesi piccoli piccoli,  che attenti al proprio particolare e diffidando delle forze dell’ordine, si apprestano mestamente a pagare il pizzo. Però a Trump.

Ultima notazione non secondaria. Sembra che il “format” (come dicono i massmediologi) sia lo stesso usato per ricevere (e umiliare) Zelensky: studio ovale, telecamere, sodali trumpiani, famelici e servili, tutti intorno. E lui il tiranno al centro della scena, tra piume e cuscini, come il Tamerlano, di cui narra Ibn Khaldūn.

Perché sottoporre l’Italia, e di rimbalzo l’Europa, a tutto questo? Perché correre il rischio di essere umiliati? E per giunta in mondovisione?

In che cosa si spera? Trump capisce solo il pizzo. O lo si paga o si brucia. Tertium non datur.

Pertanto il caro vecchio buon Macron ha ragione. Su la testa!

Aux armes, citoyens !
Formez vos bataillons !
Marchons, marchons !
Qu’un sang impur…
Abreuve nos sillons ! 

 

Carlo Gambescia

 

(*) Qui un interessante articolo in argomento: https://www.msnbc.com/top-stories/latest/trump-vs-constitution-enemy-freedom-deportation-rcna201590 .