sabato 7 luglio 2018

Lo scontro Salvini-Boeri sulle pensioni?
Bolle d'aria in brutto stile





C’erano una volta i patti agrari…
Come è cambiata la società italiana. E in meglio. Nessuno sembra però ricordarsene. In sintesi: dai contadini scalzi e  affamati ai pensionati ben pettinati che santificano le grigliate.
Se una volta,  ancora negli anni Cinquanta,  i governi  cadevano sui “patti agrari”,   oggi  rischiano   di cadere sulle pensioni. Però,  il bello (o il brutto)  è che tutto il dibattito italiano sulle pensioni è viziato da alcuni sofismi,  da ragionamenti cavillosi e falsi (anche se apparentemente coerenti),  che non viziavano la vicenda della  regolamentazione dei rapporti  tra impresa agricola e manodopera, in particolare di quelle  forme antichissime di relazione economica come  la colonia parziaria.
Sostanzialmente si ragionava, e in modo razionale,  di margini  da rosicchiare. La torta era quel che era.  Dopo di che la riforma agraria, lo sviluppo economico, l’apertura dei mercati mondiali, il cambiamento dei costumi,  insomma il progresso sociale, resero le campagne socialmente innocue. E fu meglio così.  

Polemiche inutili
Sulle pensioni invece siamo dinanzi  all’ inarrestabile portato di quelle stesse  trasformazioni  sociali ed economiche che modificarono  radicalmente la struttura lavorativa della società italiana,  svuotando giustamente  le campagne e riempiendo fabbriche e uffici. Qualcosa, che però, nel senso delle conseguenze delle conseguenze, è ancora in corso. Qualcosa  da affrontare subito con mezzi adeguati e argomentazioni coerenti.
Invece,  si pensi solo  alla polemica tra Salvini e Boeri,   si discute, praticamente,  del  nulla: bolle d'aria in brutto stile...  Perché, in nome dello stesso giustizialismo sociale che ormai attraversa tutti gli schieramenti  politici, si continua a dare erroneamente  per scontato che l’unica base possibile di un sistema pensionistico  sia quella a ripartizione (ci riferiamo al sistema generale, non per così dire  al calcolo individuale delle pensioni, che può essere contributivo  e retributivo, punto sul quale torneremo più avanti). 

Lo schema a ripartizione
Lo schema a ripartizione, che è quello, a grandissime linee,  ancora in funzione (soprattutto come mentalità),  implica  che  le pensioni erogate siano  pagate con i contributi di chi è in servizio.  In buona sostanza l’onere pensionistico è ripartito sui lavoratori correnti. Il tutto si regge, su un patto esplicito o meno di solidarietà  tra generazioni. Insomma, il meccanismo  impone un elevato altruismo e un senso comunitario, a dir poco eroico.  E spieghiamo perché.
Sociologicamente parlando,  si regge  su  un contratto esplicito o implicito tra generazioni diverse di lavoratori (quindi assai differenti per  mentalità, atteggiamenti, comportamenti),  per mezzo del quale, le  pensioni, per dirla in sociologhese,  degli attuali  attivi (che in tal modo nulla devono accantonare per il loro ciclo vitale inattivo) saranno pagate da chi lavorerà in futuro.
Insomma, si investe  sulla solidarietà intergenerazionale, verso gli altri.

Lo schema a capitalizzazione
Ma esiste anche un altro schema, assai diffuso nel mondo anglo-americano, quello a capitalizzazione (ripetiamo, non si parla per ora del calcolo individuale),  che consiste nella modalità per cui  le risorse per il pagamento delle pensioni provengono dalla capitalizzazione, operata da un gestore, dei contributi versati   dai lavoratori e dalle imprese.  Nel sistema a capitalizzazione, i contributi versati sono investiti dal gestore in un fondo a rischio più o meno calcolato, secondo lo schema della capitalizzazione composta. Al momento del pensionamento, il lavoratore ritira il proprio montante contributivo, cioè quanto versato sino alla quiescenza, maggiorato degli interessi maturati usufruendone in un’unica soluzione o sotto forma di rendita vitalizia.  Resta  più che evidente, sociologicamente parlando, che il sistema a capitalizzazione, esclude qualsiasi  patto esplicito o  meno tra generazioni. Non rinvia ad alcun altruismo coattivo,  né comandamento  comunitario,  come del resto, cosa fondamentale,   all'  accrescimento, via  deficit spending, della base lavorativa.  Siamo, insomma, agli antipodi, del mito sindacale della piena occupazione.
Insomma, si investe, sulla solidarietà generazionale, verso se stessi.


Chi di ripartizione ferisce
In qualche misura, se il sistema a ripartizione,  è costretto a pagare il prezzo degli alti e bassi del ciclo economico (nei prezzi, materie prime, costo e quantità del lavoro, eccetera, eccetera), quello a capitalizzazione li asseconda,  traendone il meglio nei termini di investimenti   del  portafoglio titoli.
Sembra la scoperta dell’acqua calda…  Eppure in Italia, dove si è tentato con le riforme, soprattutto  tra il 1995 e il 2007, di affiancare nel privato (parliamo sempre delle modalità generali), alla modalità a ripartizione quella a capitalizzazione, i cosiddetti fondi pensione, tutto si è risolto in una bolla di sapone: i  vettori del meccanismo a capitalizzazione  non sono mai partiti.  Si è sparato a salve. 
Ecco perché, come dicevamo all’inizio, Salvini e Boeri discutono del  nulla:  il sistema a ripartizione  - e Boeri da tecnico dovrebbe conoscere gli enormi  vantaggi  di quello a capitalizzazione, e invece tace - impone   quote crescenti   di lavoratori  attivi e correnti, che poi siano  bianchi, neri, gialli, eccetera,  è questione politica non economica. O comunque del tasso di razzismo condiviso o meno. Inoltre, quel che è più grave,  è che il  "cargo cult  ripartizione"   si nutre della  credenza mitica  in  un ciclo economico, cosa praticamente impossibile, in perenne rialzo (insomma, contraddistinto solo dagli  alti..). Per contro,  l’economia, tecnicamente parlando (come scienza),  imporrebbe  - e di corsa -  il passaggio integrale al metodo a capitalizzazione,  il solo in grado  di assecondare,  tramite i  fondi di investimento,  gli alti e bassi del ciclo economico e di "spalmarli" sul portafoglio titoli dei futuri percettori di pensioni.
E se qualche fondo dovesse comportarsi in modo disonesto? Esistono le leggi penali.  Il sacrificio di alcuni, favorisce molti altri. Il rischio vale la candela: per ora, piaccia o meno, il bilancio della libertà economica  risulta  positivo.       

 Danno su danno
Inoltre, alla rigidità dello schema a ripartizione, va ad  aggiungersi  il mutamento del sistema di calcolo individuale delle pensioni, passato dal 1995 a oggi, dal metodo retributivo a quello contributivo. In modo pasticciato però.   Innanzitutto qual è la differenza?
Nel sistema retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore: è collegata all’anzianità contributiva e alle retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che di regola sono le più favorevoli; nel sistema contributivo, per contro, l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco del ciclo lavorativo.
Dal momento però che  la modalità generale del nostro sistema  è quella a  ripartizione,  i lavoratori correnti, continuano, e continueranno,  a pagare la  differenza:  oggi,  a chi è andato in pensione  con il metodo retributivo,  e  domani, per garantire i minimi (come impone il sistema a ripartizione fondato sul patto di solidarietà)  tra coloro  che fruiscono, con il metodo contributivo, di pensioni  più basse derivanti da lavori  differenti,  come del resto impone la divisione del lavoro sociale e le differenti competenze a  capacità umane.   Non tutti,  pur partendo pari ai blocchi,   hanno la  stoffa per divenire dirigenti, tanto  per dirla brutalmente.                       

Il prezzo dell’anticapitalismo
Di qui, per ritornare sul punto, dal momento che  ci si propone invece di  conservare un sistema  integrale (più o meno) a ripartizione,  sorge  la necessità di un’espansione della base lavorativa, che però non può non essere frutto di un’espansione economica, alla quale tuttavia  1) non si  può comandare, perché legata agli alti e bassi del ciclo economico, e che 2), almeno nel mondo post-industriale,  si fonda  su un mercato del lavoro che  muta  nella  composizione,  nelle quantità di addetti, nelle competenze, nelle retribuzioni. Come si può intuire,  il sistema a ripartizione è un circolo vizioso.  
Quel che purtroppo  manca all’Italia, per così dire, delle ricorrenti, ma sempre uguali,  riforme  pensionistiche,  è quella vivace cultura capitalistica del merito, della responsabilità, del profitto,  valori che sono  alla base del sistema a capitalizzazione.

Conclusioni o quasi
Il lettore può perciò capire le ragioni per le quali  sorvoliamo  sulle batracomiomachie  interne al sistema a ripartizione:  tra coloro - leggendo, magari ad alta voce, quel  che segue,  si usi un tono fantozziano -  che sono andati in pensione con il metodo retributivo, più favorevole (“ I parassiti dei vitalizi e pensioni d’oro”), e coloro che si apprestano o sono andati  in pensione con il metodo contributivo, meno favorevole ("L'Italia degli invisibili in cerca di dignità").
La cosiddetta battaglia  “anticasta” ( a parte il numero ridottissimo ed economicamente ininfluente dei soggetti “ a rischio”,  circa trentamila) è il  frutto velenoso di una cultura antimeritocratica, alla radice anticapitalista. Siamo davanti a un vero e proprio gap culturale e operativo che  di rimbalzo  intossica il discorso pubblico.  Che finisce per svolgersi intorno al nulla  e tramutarsi quasi sempre in  scontro tra tifosi, per giunta della stessa squadra (quella della modalità a ripartizione), come  tra Salvini e Boeri.
Servirebbe invece quella  fredda  lungimiranza, che  accompagnò, ad esempio, il dibattito sulla riforma agraria del 1950. Ma i protagonisti erano democristiani, liberali, riformisti, capivano l' importanza di sciogliere i  nodi sociali.  Che Dio li benedica.    

Carlo Gambescia           


Nessun commento:

Posta un commento