Liberalismo
cesarista?
Potrebbe essere un’idea…
di Carlo Gambescia
La
storia, si usa dire, viene sempre scritta dai vincitori. E probabilmente, se il
neoliberismo ancora non ha una storia degna di tale nome, è perché, malgrado
siano passati più di trent’anni dal ciclone Thatcher-Reagan, non ha ancora
vinto la sua battaglia. Anzi, la crisi economica attuale sta rimettendo in
discussione proprio le passate politiche economiche neoliberiste.
Comunque
sia, di questa mezza
vittoria alcuni si rallegrano,
altri meno. Pochi però si interrogano seriamente sulle sue ragioni. E in particolare sui nodi
politici della questione. Ad esempio, può il mercato essere l’unica risposta ai
problemi dei diritti sociali? Può la politica, come decisione sull’architettura
legislativa di una società, ritrarsi e lasciare che a dettarne le linee siano
gli interessi economici? Può la politica estera di uno Stato essere
esclusivamente condizionata dalla bilancia commerciale?
Come
si può notare sono domande fondamentali, alle quali non sempre è possibile
rispondere nettamente con un sì o un no.
Ma bisogna comunque provare, partendo, magari, da certo liberalismo empirico
di origine italiana (che ad esempio rinvia a statisti come Cavour, Giolitti, Einaudi), come dire, “metodologico”.
Che guarda più alla sostanza che alla
forma delle cose. O se si vuole, al
mondo reale, dove appunto la politica, la grande politica (Cavour unì l’Italia,
Giolitti la modernizzò, Einaudi, da
Ministro delle Finanze, la
ricostruì), deve avere sempre l’ultima
parola.
Pertanto,
invece di continuare a fare voli pindarici per ricostruire esotiche filiazioni,
sarebbe utile studiare il liberalismo politico italiano. Soprattutto nella sua
versione “realizzata”, grazie all’ opera
degli statisti di cui sopra. E sui quali esiste una ricchissima letteratura storica che aspetta solo di essere riscoperta.
Tornando
al neoliberismo, non possiamo non segnalare, nella totale mancanza di lavori
critici, lo studio di David Harvey, professore
britannico di scienze sociali intitolato, appunto, Breve storia del neoliberismo (il Saggiatore).
Attenzione
però: Harvey non è sicuramente un
“simpatizzante”. Tutt’altro. Dal momento che è su posizioni, a grandi linee
socialdemocratiche, non proprio vecchio stile, ma comunque abbastanza lontane da quelle di Blair… Il suo
libro però è interessante perché oltre a fornire una ricostruzione accurata
dell’ultimo trentennio neoliberale, aiuta a riflettere sui pericoli di un
liberalismo completamente ripiegato
sull’economia. Non solo: Harvey, suo malgrado, mostra, come tutto sommato, la Thatcher e Reagan pur dando il via alle liberalizzazioni, anche in mondo cruento (si
pensi alla vicenda dei controllori di volo americani e dei minatori inglesi),
non smisero mai di “fare politica” in
senso forte. E qui basti ricordare le Falkland e il
progetto reaganiano di scudo stellare. In certo modo, Harvey ci aiuta a
misurare e capire il giusto rapporto tra politica ed economia. Ad esempio, nel
libro si distingue molto bene tra liberismo
teorico (puro, concepito da professori come Ludwig von Mises), al
limite utopistico, e liberismo pratico
dei politici, che deve fare in conti con la realtà, e dunque mediare. In
proposito, risulta molto interessante la
sua distinzione tra il neoliberismo dei padri nobili, la Thatcher e Reagan, e quello spesso solo sbandierato dal gruppo di neoconservatori che gravitava
soprattutto intorno a George Bush figlio.
I primi, almeno a suo avviso, facevano poca politica. i secondi ne
hanno fatta fin troppa. Harvey accusa i neocons di aver imposto al
paese, a causa delle guerre in Medio Oriente
condotte in nome della libertà di mercato, disavanzi pubblici stratosferici di tipo keynesiano.
Altro che neoliberismo!
Ciò
significa che non è facile trovare un punto di equilibrio tra politica ed
economia, ossia tra Stato e Mercato… Ma non è detto che per questo si debba
rinunciare. Magari accettando supinamente il mito del mercato puro. Certo, occorrono leader coraggiosi e ricchi di capacità prospettiche.
Non sempre facili da trovare.
Le
egemonie, anche quelle liberali, per imporsi hanno bisogno di un Cesare: non di
dittatori, per carità, amiamo troppo la democrazia. Ma di eccellenti statisti, capaci di decidere,
mediando, certamente, tra interesse collettivo
e privato, ma, ripetiamo, in grado di
decidere senza menar il can per l’aia.
Berusconi - che da sempre si proclama liberale - è perciò avvisato.
Detto
altrimenti: il liberalismo o sarà cesarista
o non sarà affatto; o sarà politico o non sarà proprio… E qui, se dalla pratica si vuole passare alla teoria
e allo studio, gli autori liberali, solo
per fare qualche nome, non mancano: Max
Weber, teorico dell’economia nazionale;
Wilhelm Röpke, uno padri dell’economia sociale di mercato; Raymond Aron,
acuto polemologo , Gianfranco Miglio, studioso, incomparabile, delle istituzioni politiche.
Ovviamente, in concreto, l’apparizione dell’uomo giusto - nel senso del grande politico liberale - resta frutto di circostanze storiche. Certo,
gli “eventi” possono sempre essere
“aiutati” dalla presenza di un’atmosfera culturale adatta. Si pensi, solo per fare un esempio spesso usato anche da
Röpke, al ruolo determinante giocato nella
modernizzazione della Turchia, all’epoca
auspicata dai ceti produttivi e militari
del Paese, dalla provvidenziale apparizione di Mustafa Kemal Atatürk.
Comunque
sia, il liberismo
( “neo” o meno), da solo non basta. Quando il mercato viene abbandonato a se stesso, come prova la
crisi attuale, la sciocca celebrazione del
laissez faire rischia di provocare solo disastri. Detto
altrimenti: qui, serve un Cesare, possibilmente liberale.
Carlo Gambescia
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