venerdì 2 settembre 2011

Liberalismo cesarista? 
Potrebbe essere un’idea…
di Carlo Gambescia



La storia, si usa dire, viene sempre scritta dai vincitori. E probabilmente, se il neoliberismo ancora non ha una storia degna di tale nome, è perché, malgrado siano passati più di  trent’anni  dal ciclone Thatcher-Reagan, non ha ancora vinto la sua battaglia.  Anzi,  la crisi economica attuale sta rimettendo in discussione proprio le passate politiche economiche neoliberiste. 
Comunque sia,  di questa  mezza  vittoria  alcuni si rallegrano, altri meno. Pochi però si interrogano seriamente  sulle sue ragioni. E in particolare sui nodi politici della questione. Ad esempio, può il mercato essere l’unica risposta ai problemi dei diritti sociali? Può la politica, come decisione sull’architettura legislativa di una società, ritrarsi e lasciare che a dettarne le linee siano gli interessi economici? Può la politica estera di uno Stato essere esclusivamente condizionata dalla bilancia commerciale?
Come si può notare sono domande fondamentali, alle quali non sempre è possibile rispondere  nettamente con un sì  o un no.  Ma bisogna comunque provare, partendo, magari, da certo liberalismo empirico di origine italiana (che ad esempio rinvia a statisti come Cavour,  Giolitti, Einaudi), come dire, “metodologico”. Che guarda più  alla sostanza che alla forma delle cose. O se si  vuole, al mondo reale, dove appunto la politica, la grande politica (Cavour unì l’Italia, Giolitti la modernizzò, Einaudi, da  Ministro delle Finanze,  la ricostruì), deve avere sempre  l’ultima parola.
Pertanto, invece di continuare a fare voli pindarici per ricostruire esotiche filiazioni, sarebbe utile studiare il liberalismo politico italiano. Soprattutto nella sua versione “realizzata”, grazie all’ opera  degli statisti di cui sopra. E sui quali esiste una ricchissima  letteratura storica  che aspetta solo di essere riscoperta.
Tornando al neoliberismo, non possiamo non segnalare, nella totale mancanza di lavori critici, lo studio di David Harvey, professore  britannico  di scienze sociali  intitolato, appunto, Breve storia del neoliberismo (il Saggiatore).
Attenzione però: Harvey  non è sicuramente un “simpatizzante”. Tutt’altro. Dal momento che è su posizioni, a grandi linee socialdemocratiche, non proprio vecchio stile, ma comunque  abbastanza lontane da quelle di Blair… Il suo libro però è interessante perché oltre a fornire una ricostruzione accurata dell’ultimo trentennio neoliberale, aiuta a riflettere sui pericoli di un liberalismo completamente  ripiegato sull’economia. Non solo: Harvey, suo malgrado, mostra, come tutto sommato, la Thatcher e Reagan  pur dando il via alle  liberalizzazioni, anche in mondo cruento (si pensi alla vicenda dei controllori di volo americani e dei minatori inglesi), non smisero mai di  “fare politica” in senso  forte.  E qui basti ricordare le Falkland e il progetto reaganiano di scudo stellare. In certo modo, Harvey ci aiuta a misurare e capire il giusto rapporto tra politica ed economia. Ad esempio, nel libro si  distingue molto bene tra liberismo teorico (puro,  concepito  da professori come Ludwig von Mises), al limite utopistico,  e liberismo pratico dei politici, che deve fare in conti con la realtà, e dunque mediare. In proposito, risulta  molto interessante la sua distinzione tra il neoliberismo dei padri nobili, la Thatcher e Reagan, e  quello spesso solo sbandierato  dal gruppo di neoconservatori che gravitava soprattutto  intorno a George Bush  figlio.  I primi, almeno a suo avviso, facevano poca politica. i secondi ne hanno  fatta fin troppa.  Harvey accusa i neocons di aver  imposto al paese, a causa delle guerre in Medio Oriente  condotte in nome della libertà di mercato, disavanzi  pubblici stratosferici di tipo keynesiano. Altro che neoliberismo!   
Ciò significa che non è facile trovare un punto di equilibrio tra politica ed economia, ossia tra Stato e Mercato… Ma non è detto che per questo si debba rinunciare. Magari accettando supinamente il mito del mercato puro.  Certo, occorrono leader  coraggiosi e ricchi di capacità prospettiche. Non sempre facili da trovare.
Le egemonie, anche quelle liberali, per imporsi hanno bisogno di un Cesare: non di dittatori, per carità, amiamo troppo la democrazia. Ma di  eccellenti statisti, capaci di decidere, mediando, certamente,  tra interesse collettivo e privato, ma, ripetiamo,  in grado di decidere senza menar il can per l’aia.  Berusconi -  che da sempre  si proclama liberale - è perciò avvisato.    
Detto altrimenti:   il liberalismo o sarà cesarista o non sarà affatto; o sarà politico o non sarà proprio… E qui,  se dalla pratica si vuole passare alla teoria e allo studio,  gli autori liberali, solo per fare qualche nome, non mancano:  Max Weber, teorico dell’economia nazionale;  Wilhelm Röpke, uno padri dell’economia sociale di mercato; Raymond Aron, acuto  polemologo ,  Gianfranco Miglio, studioso, incomparabile,  delle istituzioni politiche.   
Ovviamente,  in concreto,   l’apparizione dell’uomo  giusto -  nel senso del grande  politico liberale -  resta  frutto  di circostanze storiche.  Certo,  gli  “eventi”   possono sempre  essere   “aiutati” dalla presenza di un’atmosfera culturale adatta.  Si pensi,  solo per fare un esempio spesso usato anche da Röpke,  al ruolo determinante giocato nella modernizzazione  della Turchia, all’epoca auspicata dai ceti produttivi e  militari del Paese, dalla provvidenziale apparizione di Mustafa Kemal Atatürk.            
Comunque sia,   il  liberismo ( “neo” o meno),  da solo non basta.  Quando il mercato  viene abbandonato a se stesso, come prova la crisi attuale, la sciocca celebrazione del  laissez faire rischia di  provocare solo disastri.   Detto altrimenti: qui, serve un Cesare, possibilmente liberale.
                                                                   Carlo Gambescia 


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