Autoriforma dei partiti
Mito o realtà?
Le proposte di ammucchiate o tecno-ammucchiate di questi giorni fanno
sorgere molti dubbi sulla capacità dei partiti italiani di autoriformarsi o
comunque di intercettare i bisogni della società. E in particolare, pensiamo al
Centrosinistra disposto a tutto, anche ad affossare un embrione di
bipartitismo, pur di far cadere Berlusconi.
Tuttavia, per capire come stanno realmente le cose, serve un po’ di teoria. È
perciò giunto il momento, come il lettore ben sa, di allacciarsi le cinture.
.
Fazioni, parti, partiti…
Chi dice partito, dice parte. Infatti, dal punto di vista sociologico, i
partiti, come espressione di una fazione politica e strumento a difesa di
particolari individui, ceti o classi sociali, sono sempre esistiti. Basta scorrere
qualsiasi manuale di storia antica e medievale.
Negli ultimi due secoli però, i partiti moderni, le cui origini istituzionali
risalgono allo sviluppo della monarchia costituzionale inglese e alle grandi
assemblee rivoluzionarie francesi, si sono trasformati in strumenti rivolti
alla rappresentazione legale e funzionale di ideologie e interessi, nonché in
istituzioni preposte alla selezione del personale politico. Il che ha
rappresentato un oggettivo passo in avanti, rispetto alle antiche e sanguinose lotte
tra fazioni avverse. Tuttavia, il Novecento ha visto nascere non solo il
partito democratico di massa ( si pensi ai grandi partiti socialisti), ma anche
la partitocrazia (come nell’ Italia della Prima Repubblica), nonché il partito
unico ( fascista, nazionalsocialista, comunista sovietico). Perché?
.
Il partito come gruppo sociale
Non bisogna mai dimenticare che il partito moderno è un gruppo sociale prima
che politico, e come ogni gruppo sociale, riflette due “tendenze” sociologiche
fondamentali: in primo luogo, “tende” a svilupparsi a danno di altri gruppi
sociali ; in secondo luogo, “tende” a costituirsi, al suo interno, secondo
criteri gerarchici, perché laddove c’è organizzazione c’è “gerarchizzazione”.
Entro certi limiti funzionali, sia lo sviluppo a danni di altri, sia la
tendenza oligarchica sono fenomeni fisiologici, socialmente accettabili. Il che
però non significa che ogni sistema sociale non abbia un suo punto limite, o di
non ritorno. In Russia, il partito comunista, rimasto al potere per più di
settant’anni è imploso, dopo aver raggiunto i limiti sociali di tollerabilità e
funzionalità. I partiti fascisti e nazionalsocialisti, sconfitti sul campo,
attraverso una guerra, hanno trovato proprio nella guerra il proprio punto
limite. In Italia, la
Democrazia Cristiana si è dissolta in seguito a intollerabili
(e disfunzionali) scandali politici.
.
Partiti e "regolarità” sociologiche"
Pertanto, si deve tenere conto della natura sociale dei partiti. Di qui -
scusandoci in anticipo per il tono professorale - una regolarità o costante
sociologica: Una società sarà tanto meno vincolata ai partiti quanto più sarà
pluralista e ricca di gruppi sociali alternativi, o comunque in grado di
contenere l’eccessivo sviluppo esterno dei partiti. Quanto alla tendenze
oligarchiche (altra regolarità sociologica), si tratta di fenomeni interni a
ogni gruppo sociale, che non possono essere eliminati, ma soltanto mitigati
attraverso una veloce rotazione delle élite al comando. Rotazione che può
essere facilitata dal grado di apertura di un partito al resto della società. E
in particolare dalla sua natura dottrinaria: dal momento che quanto più un
partito è ideologico tanto più resta chiuso agli apporti esterni.
Ovviamente, esiste anche il rischio contrario: che partiti fondati solo sugli
interessi, possano essere colonizzati, a loro volta, da altri gruppi sociali,
ad esempio di formazione economica o tecnica. Insomma, è sempre un problema di
equilibrio storico e sociale.
.
L’Italia Repubblicana
In Italia, per ragioni storiche e culturali legate al tardivo sviluppo politico
ed economico, che qui non possiamo approfondire, i partiti non potevano non
trasformarsi in forze, spesso, colonizzatrici di una società priva di un vero
tessuto civile “nazionale”. Di qui, soprattutto nell’Italia Repubblicana, il
succedersi di ondate “movimentiste” di segno oppositivo. Semplificando al
massimo, possiamo distinguerne quattro: 1) il movimento comunista
nell’immediato dopoguerra; 2) i movimenti sociali, anche sindacali, legati alla
contestazione sessantottina; 3) Mani pulite (1992-1994); 4) i movimenti
antipolitici, sviluppatisi nell’ultimo decennio, a partire dal cosiddetto
grillismo.
Qual è vero il punto della questione? Che non vanno assolutamente demonizzati i
movimenti sociali. E in un senso preciso: reprimere non basta. Al movimento
devono però sostituirsi, per gradi, le istituzioni. Detto altrimenti: le classi
dirigenti, se non vogliono essere spazzate via, e talvolta in maniera violenta,
devono favorire l’edificazione di società più solidali e pluraliste, certo
seguendo i “parametri” imposti dal tempo e dalle risorse economiche. Non
esistono, infatti, società giuste e solidali “in assoluto”, ma solo “in senso
relativo”, ossia in base ai bisogni, come dire, legati al momento storico.
.
Conclusioni ( o quasi)
Il problema, ripetiamo, prima che politologico è sociologico. La dura protesta
dei movimenti sociali verso la democrazia rappresentativa, incarnata dai
partiti, di regola, segnala il raggiungimento del punto limite di tollerabilità
e funzionalità sociali. Al comunismo che criticava la legittimità dei partiti
post-resistenziali (senza il Pci, insomma), si rispose con la “ricostruzione”
sociale ed economica degasperiana; al Sessantotto, con un mix di riforme
sociali ed economiche, a partire dallo Statuto dei Lavoratori; a Mani Pulite,
con le riforme politiche, come l’introduzione del bipartitismo.
Ora, concludendo la lunga galoppata “teorica”, il Centrosinistra vuole
seppellire proprio il bipartitismo. Ma le ammucchiate pure e semplici, o le
tecno-ammucchiate composte di soli tecnici ed esperti, lontanissimi per
mentalità e formazione dalla gente comune, possono favorire il pluralismo e la
solidarietà sociali?
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento