giovedì 14 febbraio 2008

Il libro della settimana: Valter Binaghi, I tre  giorni all'inferno di Enrico Bonetti cronista padano, Sironi Editore, Milano 2007, pp. 416, euro 17,00.




Vi è mai accaduto di chiudere un libro, dopo averlo letto tutto, e dispiacersi che sia finito? A me ormai succede di rado… Come ho scritto in altre occasioni, leggo principalmente opere di saggistica, spesso mediocri e per dovere, e dunque di solito provo la sensazione contraria: meno male, anche questo è andato… Quanto ai romanzi, devo dire che appartengono alla mia giovinezza, e spesso si tratta di pure e semplici riletture, qui e là, di opere classiche, nei rari momenti di tempo libero…
Ed è quel che ho provato di nuovo, dopo aver finito il libro di Valter Binaghi I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano (Sironi Editore ). Un bellissimo romanzo, che oltre a trascinarmi idealmente agli anni in cui leggevo prevalentemente romanzi, mi ha fatto esclamare, dopo l’ultima pagina, quel “Peccato che sia finito!” di cui avevo quasi perso memoria. Ora però devo spiegare anche perché.
A prima vista, per il lettore mordi e fuggi, il libro di Binaghi, scrittore, insegnante e musicista, può essere scambiato (e gustato) per un trilling di valore. Le vicende di Enrico Bonetti, sveglio giornalista di provincia, immerso fino al collo in una pericolosa storia con location alto-lombarda, avvincono e convincono, per usare il linguaggio delle pagine sportive. E questo grazie a un virtuoso tour de force narrativo che riesce a mettere insieme, in un perfetto gioco di incastri, sette sataniche, esorcisti pratici di web, filosofi on the road, prostitute e macrò slavi, suore cuoche che parlano il dialetto di Bossi, idraulici comunisti pre-Bolognina, orfani post-moderni, mefistofelici trafficanti internazionali di organi.
L’intreccio, insomma, regge fino all’ultima pagina. L 'unica (scherzosa) controindicazione riguarda le relazioni familiari del lettore. Che potrebbero essere messe a dura a prova da un lettore, che in preda a un' ipnotica apnea mentale da “come andrà a finire?”, rischia di tagliare ogni rapporto con il mondo esterno, per divorare il libro nel minore tempo possibile. Come è accaduto a chi scrive. Pertanto non entrerò nei dettagli della trama. Non mi piace rovinare la festa a nessuno…
Ma c’è un altro piano di lettura, che non può sfuggire al lettore più agguerrito filosoficamente (e teologicamente). Quello innervato da una sottile teodicea cristiana, volta a battagliare con il male nel mondo. Come scrive Tullio Avoledo nel primo risvolto di copertina, presentando il libro, Binaghi è un "rabdomante del male". Ma aggiungerei: in senso alto, metafisico. Certo, la parola teodicea è complicata e spaventa, soprattutto i laici a tutto tondo. Ma possiamo assicurare i lettori, che i due piani (quello narrativo e quello meta-narrativo) si fondono bene, senza disturbare troppo il lettore che non sia della “parrocchia”. I personaggi hanno una loro consistenza molto umana, direi molto terrena e plasticamente realistica. E del resto il cattolicesimo di Binaghi, pur essendo forte nei giudizi, si risolve in quel buon senso, molto padano (non leghista, anzi…), che lo spinge a confidare, malgrado i rovelli, nella mano misericordiosa del bene divino. Che nel romanzo, una volta almeno, sfiora quella di tutti i personaggi, anche i più biechi. C’è in Binaghi una pietas di fondo, come devozione all'uomo, anche quando cade in errore, che vivifica esseri umani, animali e addiritura cose. E che ben si fonde con una narrazione, stilisticamente fervida, nervosa, spesso perfino pulp nel suo vigoroso realismo figurativo, e dunque aperta, senza indulgere troppo, anche al grottesco, ma senza la mano brusca di un Benni. In Binaghi, per farla breve, convergono e convivono il Diavolo e l’Acquasanta: Manzoni, Chesterton e Tarantino, per fare tre nomi criticamente significativi.
Lo scrittore riveste di modernità dolorosa e sanguigna, senza per questo scivolare nel cinico minimalismo del regista pulp americano, quei temi eterni che ritroviamo in certi dialoghi dei Promessi sposi. Ma anche nel padre Brown, uscito dalla vigorosa penna di Chesterton. Con una differenza: che il protagonista del libro, Enrico Bonetti, non è un pio prete-investigatore, ma un piccolo giornalista, disincantato quel che basta, lasciato dalla moglie e sempre nei guai con le donne, alle quali non sempre riesce a dire di no. Ma non per ragioni puramente carnali. Bensì, come dire, per ragioni di anima: Bonetti è capace di capire e amare il suo prossimo, anche facendo forza su se stesso. E' un uomo, comunque in ascolto: degli altri, di Dio e perfino dei nemici. Non è un cattolico con la spada né un post-comunistello da sacrestia.
Ecco, dicevo, della teodicea come chiave filosofico-teologica del libro. Che cosa fare di un mondo dove la vittoria pare arridere ai cattivi? Uomini mossi dal profitto, che confidano solo in un mercato privo di frontiere capace di comprare tutto, corpi e anime. Basta avere i denari necessari… Sembra che Dio si sia ritirato. E che abbia sdegnosamente abbandonato il mondo alle sue ingiustizie. Per molti oggi prive di senso, e perciò viste come frutto di un meccanico gioco di maligne casualità. Magari da sfruttare a proprio vantaggio.
Il segreto è che si deve seguire la lezione di Bonetti; ecco la teodicea profonda del libro, antica quando il mondo cristiano, e in fondo disarmante, se non addirittura banale: “Aiutati che Dio ti aiuta”. In che modo? “Spronandosi all’ottimismo come un mulo in salita”. E così venire a capo, per quel tanto che ci è concesso, del nostro piccolo e quotidiano male di vivere, perché Dio c’è. E ci tende la mano, come fa con i personaggi del romanzo di Binaghi… E sta a ciascuno di noi afferrarla e stringerla forte. Ma liberamente. Il Male, quello con l'iniziale maiuscola, è sempre una scelta volontaria, come quando si maledice qualcuno, a freddo e senza ragione apparente. Di qui però, per chi senta dentro di sé la chiamata, quella necessità di ricominciare, ogni santo giorno, la buona battaglia con se stessi, ma esercitando la sacra virtù della pazienza con gli altri… La fede, quella che salva, poi verrà piano piano. Ma prima di tutto occorre un'anima grande, proprio come quella di Enrico Bonetti, il nostro cronista padano. Sul quale, spero, Binaghi ritorni con altre storie. Perché un personaggio così lascia il segno. Nella mente e nel cuore dei lettori. E anche dei recensori…

Carlo Gambescia

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