Elezioni, economia, società
Giustizia distributiva o redistributiva?
Sia Veltroni che Berlusconi spesso hanno accennano, e
particolarmente in questi giorni di campagna elettorale, alla giustizia
distributiva. Sarebbe perciò il caso di fare un minimo di chiarezza non solo su
questo concetto ma anche su quello di giustizia redistributiva. E come? Il
lettore non si spaventi: contestualizzandoli sociologicamente.
Certo, in tempi come questi, nei quali la pratica della
chirurgia estetica di massa, gestita dal mercato, va sempre più diffondendosi,
per la gioia dei borghesi piccoli piccoli, non è facile parlare di giustizia
distributiva e redistributiva. Nessun timore: chi scrive non è improvvisamente
impazzito, perché, come vedremo, tra questi due fatti in apparenza lontani, vi
è un collegamento. Ma cerchiamo di essere più chiari: i due termini benché
possano sembrare simili, in realtà hanno significati profondamente diversi.
Vediamo quali,
La giustizia distributiva si concretizza con
l’assegnazione a ciascuno di ciò che gli spetta secondo un certo principio
valevole per tutti. La giustizia redistribuitiva, invece, si realizza
correggendo (pur con intensità e modalità storiche diverse) le ingiustizie
sociali. La giustizia distributiva privilegia la sfera dell’utilità o della
funzionalità, mentre la giustizia redistribuitiva quella della moralità sociale
o del consenso. Ma vediamo ora che cosa significa nella nostra società questa
suddivisione concettuale.
Nella società capitalistica la giustizia distributiva è opera del mercato che,
come spesso si legge, dà a ciascuno secondo le proprie capacità. Mentre quella
redistribuitiva, ci dicono, è messa in atto dallo stato, che con la fiscalità
finanzia i servizi sociali, dando a ciascuno, secondo bisogni fondamentali,
spesso sanciti costituzionalmente.
Nelle democrazie occidentali del secondo dopoguerra il pendolo
distribuzione/redistribuzione per circa trent’anni (dal 1945 al 1975:
i“Gloriosi Trenta”) ha oscillato verso il polo della giustizia redistribuitiva,
per poi cambiare direzione all’inizio degli anni Ottanta, volgendosi verso
quello della giustizia distributiva e quindi del mercato. Con questo non
vogliamo assolutamente sostenere che i “Gloriosi Trenta” siano stati l’apoteosi
della socialità e della moralità sociale, il capitalismo è quel che è: nessuno
dà nulla per nulla. Ma più laicamente, crediamo, che il mix pubblico-privato,
tipico delle economie tardo-capitalistiche, in quegli anni, si tradusse in
qualche briciola di benessere in più per i lavoratori, soprattutto negli anni
Sessanta.
Il vero punto è invece un altro: di qui a qualche anno
rischiano di sparire anche le briciole. Perché quanto più si estende la sfera
del mercato – come sta avvenendo – tanto più si favorisce il predominio
dell’utilità e della giustizia distributiva. Ognuno di noi rischia perciò di
vedersi assegnato solo ciò che gli spetta sulla base (ecco il principio
valevole per tutti) del proprio“peso” o utilità economica rispetto al
funzionamento della “macchina capitalistica”. Che funziona male, o comunque per
cicli (spesso con ricadute speculative); che moltiplica intorno sé la
diseguaglianza, e che infine viene considerati, e non solo dai suoi esegeti,
indistruttibile ed eterna.
Ecco perché oggi si parla sempre meno di giustizia redistribuitiva. La sfera
del mercato, estendosi, va erodendo quella dello stato: la sfera della
giustizia redistribuitiva e della moralità sociale, come criterio che consolida
i rapporti tra classi e ceti sociali diversi. sono ridotte.
Del resto se l’unica forma ammessa di giustizia resta
quella del mercato, o dell’utilità, e se solo attraverso il mercato – come
proclamano i media– è possibile dare forma e concretezza ai propri diritti, che
senso ha invocare la giustizia redistribuitiva?
Dal momento che grazie al mercato, e alla divisione“capitalistica” del lavoro,
ciascuno di noi avrebbe quel che merita (attenzione, essere contro questo tipo
di divisione non significa essere contro la divisione del lavoro come criterio
sociologico).
Insomma, siamo davanti alla logica spietata della società
come "impresa totale". Dove "nessun pasto può essere
gratis", come scriveva provocatoriamente Milton Friedman. Di più: secondo
i profeti del mercatismo neoliberista è giusto che i ricchi divengano più
ricchi e i poveri più poveri. Perché i primi sono quelli che contribuiscono
maggiormente alla crescita del sistema economico, mentre i secondi sarebbero
solo di peso.
Ovviamente i politici si guardano bene dal dichiarare
pubblicamente tutto ciò. Magari parlano di giustizia distributiva con
riferimento al mercato, come avviene in questa campagna elettorale, dando per
scontato che nessuno degli elettori riuscirà a capire il reale ( e terribile)
significato delle loro parole. Che qui invece noi tentiamo di spiegare.
Anche perché la melassa mediatica che ci sommerge, cerca
di nascondere i lati più ripugnanti della povertà. Si preferisce parlare della
chirurgia estetica di massa, come conquista sociale (e così veniamo al nostro
apparentemente strampalato quesito iniziale). Un “traguardo” che si può
tagliare (guarda caso) solo a patto di essere “attivi su” e
"flessibili" su un mercato, di cui devono però accettare
preventivamente le ingiuste regole distributive. Se ci si passa la battuta,
siamo davvero al “credere, obbedire e combattere”, ma questa volta per se
stessi, e di riflesso, per il mercato capitalistico. Perché solo un lavoro
sicuro consente il possesso di quel pugno di euro per sottoporsi all’intervento
che finalmente ci farà belli come quei saltimbanchi e buffoni che animano, si
fa per dire, le domeniche televisive a reti unificate.
Come se ciò non bastasse, si continua a celebrare il mercato capitalistico come
la più alta forma di meritocrazia. E qui pensi ai continui accenni di
Berlusconi e Veltroni a proposito del "necessario ritorno della
meritocrazia". Omettendo però di ricordare due cose fondamentali.
In primo luogo, i meriti sono stabiliti in base a una scala di valori (efficienza,
produttività, flessibilità, ecc.) fissata non da chi è in fondo o al centro
della piramide sociale, ma da un grumo di occhiuti “custodi”del capitalismo:
monopolisti, alti burocrati privati, avvocati d’affari, membri influenti delle
grandi famiglie del capitalismo, ex capi di stato, economisti e politologi a
gettone, speculatori finanziari, ecc.
In secondo luogo, quanto più si decantano le virtù del
mercato, tanto meno si criticano i suoi vizi, che sono tanti, forse troppi. E,
soprattutto, si rinuncia a correggerne le ingiustizie, attraverso politiche
redistribuitive. Di quale tipo?
Introducendo, ad esempio, un “limite” all’arricchimento o comunque un’imposta,
in ambito nazionale e (perché no?) continentale, sui grandi patrimoni e sui
capitali borsistici speculativi. I cui proventi andrebbero a finanziare opere
di utilità sociale (scuole, università, istituzioni culturali e di ricerca,
poli sanitari, infrastrutture, ecc.)
Di solito alle nostre tesi vengono rivolte le seguenti critiche: per alcuni le
politiche redistribuitive rischiano di uccidere il mercato; per altri si
dovrebbe invece puntare su una giusta miscela di pubblico e privato. Insomma il
trucco consiste – così ci spiegano – nello “spremere” senza uccidere lagallina
dalle uova d’oro: il capitalismo.
Le cose però non sono così semplici.
Da un lato, la crisi delle politiche redistribuitive
implica la crisi del consenso al sistema: più crescono le distanze sociali, più
la società si disgrega, rischiando l' ingovernabilità. Mentre una saggia politica
redistribuitiva imporrebbe una accorta riduzione delle distanze sociali.
Dall’altro lato, il capitalismo si è fatto talmente
arrogante da meritare una lezione. E, crediamo, che solo dopo che avrà espulso
le sue tossine speculative, si potrà cominciare a ragionare sul giusto mix di
pubblico e privato. In tempi duri, niente mezze misure: probabilmente è giunto
il momento di opporre all’utilitarismo distributivo del mercato,
l’antiutilitarismo redistribuitivo dello stato o comunque di identità politiche
capaci di tenere testa alla “rapacità” di pochi, ma potenti predoni.
Le grandi ricchezze e l’uso speculativo che ne viene fatto sui mercati
finanziari mondiali offendono gli uomini, soprattutto i più poveri. Di qui la
necessità di una nuova parola d’ordine per quei movimenti politici e sociali
che aspirino a sfidare il principale tabù del nostro tempo, la ricchezza:
"Lotta alle grandi fortune speculative e accorciamento delle distanze
sociali!".
Una parola d'ordine nella quale Veltroni e soprattutto
Berlusconi non si riconosceranno mai...
Carlo Gambescia