Il "grande evento musicale" ha sostituito la presa del Palazzo d' Inverno
Da Lenin a Ligabue
Ogni epoca ha avuto i suoi eventi, nel senso attuale
del termine: i greci hanno inventato e conosciuto i giochi olimpici, i romani
le grandi feste circensi, l’uomo medievale i tornei in occasione di fiere e
cerimonie religiose, i moderni le celebrazioni popolari collegate alle
consacrazioni di re assoluti e, più in là, le feste rivoluzionarie intorno agli
“Alberi della Libertà”.
Secondo gli storici, nella fredda Pietrogrado dell’ottobre 1917, si sparava e
si uccideva, ma incredibilmente si ballava, cantava e si faceva l’amore. Si
celebrava così la rivoluzione proletaria, come festa, o evento ludico assoluto,
in cui vita e morte (quella vera, a ogni angolo infatti si potevano scorgevano
i poveri resti dei “controrivoluzionari” giustiziati) si mescolavano
misteriosamente.
E oggi? Come è noto si fa festa, ci “si ricarica di energia”, come scrivono i
giornali, senza assaltare nessun Palazzo d’Inverno. Né ci si esalta più in nome
di valori assoluti, divini o terreni, incarnati da santi, monarchi o Marianne
rivoluzionarie. Oggi, gli eventi, ad esempio le grandi manifestazioni musicali,
sono programmati economicamente e poi magari inseriti in quel che resta di
antiche celebrazioni “locali”. Esistono addirittura corsi di laurea e master in
“organizzazione e gestione degli eventi”.
Può apparire curioso ma il grande evento, così come ora lo intendiamo, ha
precise radici ideologiche nel Sessantotto: è un portato di quell’idea di rivoluzione
dei costumi senza rivoluzione politica violenta, che ha costituito per molti
intellettuali d’assalto, poi venuti a più miti consigli, una sorta di porto
sicuro. Una normalizzazione dell’impegno politico precedente, appagante anche
sotto l’aspetto economico. Ci spieghiamo meglio.
Il Sessantotto, ha rappresentato per le generazione, nate tra gli anni Quaranta
e Cinquanta, l’ultimo tentativo di coniugare festa e rivoluzione, sulla scia
del “modello” pietrogradese: come è noto, la rivoluzione non è riuscita, ma è
restata la festa. Così come sono rimasti i rivoluzionari, privi ovviamente di
ogni fede. Perciò i grandi eventi, soprattutto quelli musicali, ma anche di
forte impatto mediatico e partecipazione ( si pensi alla moda delle “notti
bianche”), sono diventati la ripetizione sublimata, innocua e individualistica,
della grande rivoluzione tanto sognata. Con quel pizzico, se uno vuole, di
trasgressività che basta: consumo di droghe leggere, alcol e di fugaci rapporti
sessuali. Comunque sia, come spesso si legge, si va al concerto, giovani e meno
giovani, solo per “scaricare e ricaricare” le “pile” di una vita individuale
altrimenti vuota e triste.
Ovviamente, l’ intellettuale postrivoluzionario, ha avuto gioco facile
all’interno di una società come quella capitalistica che si fonda e alimenta
sulla trasformazione di ogni attività in ricchi profitti. Di qui il gigantismo,
tipico di ogni razionalizzazione industriale, la commercializzazione e anche i
lauti guadagni per i quadri e i vertici del settore.
La rivoluzione, ma nella sua versione canora e ludica, è perciò divenuta un
“evento” programmabile, inoffensivo e perfino incoraggiato dalle stesse
autorità politiche, che non si sentono assolutamente minacciate. La lotta di
classe ha lasciato il posto al divertimento, ai consumi e, se capita, anche
all’ amore universale. Come dire, da Lenin a Ligabue.
Si assiste così alla "marcia" di masse festanti e consumiste,
composte anche di giovani, "armati" solo di zainetti e gadget del
cantante preferito.
Ciò è un bene, perché la violenza non va mai approvata, ma è anche un male
perché il finto ecumenismo "divertentistico" dissolve la politica,
che è tragica divisione in amici e nemici, in un abbraccio universale che dura
solo il tempo di un concerto musicale. C’è però un’ attenuante, soprattutto per
i giovani: non c’è adulto che sappia loro indicare un Palazzo d’Inverno da
conquistare.
Ammesso che, da qualche parte, ce ne sia ancora uno.
Carlo Gambescia
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