giovedì 31 agosto 2006


Il "grande evento musicale" ha sostituito la  presa del Palazzo d' Inverno 
Da Lenin a Ligabue 


Ogni epoca ha avuto i suoi eventi, nel senso attuale del termine: i greci hanno inventato e conosciuto i giochi olimpici, i romani le grandi feste circensi, l’uomo medievale i tornei in occasione di fiere e cerimonie religiose, i moderni le celebrazioni popolari collegate alle consacrazioni di re assoluti e, più in là, le feste rivoluzionarie intorno agli “Alberi della Libertà”.
Secondo gli storici, nella fredda Pietrogrado dell’ottobre 1917, si sparava e si uccideva, ma incredibilmente si ballava, cantava e si faceva l’amore. Si celebrava così la rivoluzione proletaria, come festa, o evento ludico assoluto, in cui vita e morte (quella vera, a ogni angolo infatti si potevano scorgevano i poveri resti dei “controrivoluzionari” giustiziati) si mescolavano misteriosamente.
E oggi? Come è noto si fa festa, ci “si ricarica di energia”, come scrivono i giornali, senza assaltare nessun Palazzo d’Inverno. Né ci si esalta più in nome di valori assoluti, divini o terreni, incarnati da santi, monarchi o Marianne rivoluzionarie. Oggi, gli eventi, ad esempio le grandi manifestazioni musicali, sono programmati economicamente e poi magari inseriti in quel che resta di antiche celebrazioni “locali”. Esistono addirittura corsi di laurea e master in “organizzazione e gestione degli eventi”.
Può apparire curioso ma il grande evento, così come ora lo intendiamo, ha precise radici ideologiche nel Sessantotto: è un portato di quell’idea di rivoluzione dei costumi senza rivoluzione politica violenta, che ha costituito per molti intellettuali d’assalto, poi venuti a più miti consigli, una sorta di porto sicuro. Una normalizzazione dell’impegno politico precedente, appagante anche sotto l’aspetto economico. Ci spieghiamo meglio.
Il Sessantotto, ha rappresentato per le generazione, nate tra gli anni Quaranta e Cinquanta, l’ultimo tentativo di coniugare festa e rivoluzione, sulla scia del “modello” pietrogradese: come è noto, la rivoluzione non è riuscita, ma è restata la festa. Così come sono rimasti i rivoluzionari, privi ovviamente di ogni fede. Perciò i grandi eventi, soprattutto quelli musicali, ma anche di forte impatto mediatico e partecipazione ( si pensi alla moda delle “notti bianche”), sono diventati la ripetizione sublimata, innocua e individualistica, della grande rivoluzione tanto sognata. Con quel pizzico, se uno vuole, di trasgressività che basta: consumo di droghe leggere, alcol e di fugaci rapporti sessuali. Comunque sia, come spesso si legge, si va al concerto, giovani e meno giovani, solo per “scaricare e ricaricare” le “pile” di una vita individuale altrimenti vuota e triste.
Ovviamente, l’ intellettuale postrivoluzionario, ha avuto gioco facile all’interno di una società come quella capitalistica che si fonda e alimenta sulla trasformazione di ogni attività in ricchi profitti. Di qui il gigantismo, tipico di ogni razionalizzazione industriale, la commercializzazione e anche i lauti guadagni per i quadri e i vertici del settore.
La rivoluzione, ma nella sua versione canora e ludica, è perciò divenuta un “evento” programmabile, inoffensivo e perfino incoraggiato dalle stesse autorità politiche, che non si sentono assolutamente minacciate. La lotta di classe ha lasciato il posto al divertimento, ai consumi e, se capita, anche all’ amore universale. Come dire, da Lenin a Ligabue.
Si assiste così alla "marcia" di masse festanti e consumiste, composte anche di giovani, "armati" solo di zainetti e gadget del cantante preferito.
Ciò è un bene, perché la violenza non va mai approvata, ma è anche un male perché il finto ecumenismo "divertentistico" dissolve la politica, che è tragica divisione in amici e nemici, in un abbraccio universale che dura solo il tempo di un concerto musicale. C’è però un’ attenuante, soprattutto per i giovani: non c’è adulto che sappia loro indicare un Palazzo d’Inverno da conquistare.
Ammesso che, da qualche parte, ce ne sia ancora uno.

Carlo Gambescia

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