mercoledì 17 aprile 2019

L’Umbria rossa secondo Alessandro Campi


Poverino. Non deve essere stato facile vivere in Umbria e votare a destra  o ancora peggio  simpatizzare per il   Movimento Sociale.   A questo pensavo,  leggendo l'astioso editoriale   di Alessandro  Campi sullo scandalo perugino   delle assunzioni pilotate nella sanità. 
Le indagini sono in corso,  eppure Campi  buttandola furbamente sul   politologico,   dà  il colpo di grazia a un Pd sempre più in debito di ossigeno,  per dirla con il grande Bruno Pizzul.   Complimenti per il garantismo.  E per  il taglio  popperiano.
Nella sua  disamina il capo di accusa, apparentemente  sociologico, è rappresentato  dal clientelismo.  Un fenomeno che risale ai tempi dei Romani,  come giustamente  nota Campi.  Oggi  ripreso e sviluppato nelle democrazie da partiti sempre più ideologicamente  svuotati.   
Però Campi non dice che  il Pci,  la democrazia cristiana e lo stesso Movimento Sociale soprattutto nel  Mezzogiorno,  quando i partiti ancora contavano ideologicamente,  avevano  già il nome in ditta. Quindi sotto c’è  qualcosa  che va al di là della  crisi delle ideologie. 
Campi sfiora  la questione, quando accenna al keynesismo umbro: a una certa modalità dirigista  di concepire il rapporto tra  lo stato  (e di conseguenza la regione) e il  cittadino. Che però, altra cosa ignorata,  precede e di molto la religione  del  deficit spending.  
Il clientelismo italiano,  legato al voto di scambio (lavoro contro voto),  risale al fascismo, che in quanto partito unico,   sistematizzò, per così dire,   l’intera materia,  prima di allora magmatica, appena sbozzata  nell’Italia liberale,  dove  lo stato era molto meno intrusivo.    
A dire il vero,  l’ideologia della   tessera, come mostrò Missiroli (La monarchia socialista),  rinvia al satrapico socialismo comunale dei primi due decenni del Novecento,  che tutto controllava, tutto decideva.
Il fascismo, che pure distrusse l’apparato clientelare socialista, istituzionalizzò la tessera e  il voto di scambio, certo in  chiave totalitaria. E una volta  caduto,   comunisti, socialisti, democristiani e missini ne raccolsero subito, per la felicità degli elettori,  l'eredità antropologica.  Ovviamente su basi democratiche e secondo la rispettiva forza politica.   Attenzione,  non dico nulla di nuovo:  sulla "Repubblica dei partiti" esiste una ricca letteratura scientifica.
E oggi?  Le ideologie sono morte o quasi,  ma il cadavere del clientelismo, chiuso nella bara, curiosamente,  continua a  muovere le mascelle.  E Campi che fa?  Se la prende con l’Umbria rossa. Con gli ultimi arrivati.
Purtroppo, il  problema  non nasce  dalla permanenza al potere,  ma dall’ideologia della tessera "per lavorare".  Si tratta di una questione di antropologia sociale che ci riporta al  malefico  rapporto tra stato  e cittadino  instauratosi nel Ventennio. Ovviamente ripreso e sviluppato dai “partiti democratici”.
Un “sistema”  che quindi  dobbiamo a Mussolini, già socialista e profondo conoscitore del clientelismo social-comunale,   al quale il Duce mise la camicia nera.  Una megamacchina, davanti alla quale i mazzieri  giolittiani, e prima ancora crispini,  assomigliano a  pallide collegiali uscite  dalle Orsoline.
Ricapitolando, il Pci-Pd (per semplificare), non è che l’ultimo anello di una catena storica dai risvolti antropologici. Non è dunque  un problema di buona o cattiva amministrazione e  di esperienza governativa o meno,  ma di come ripensare, radicalmente il rapporto tra  stato e cittadino in chiave liberale.  Serve un'antropologia altra.
Ovviamente Campi, che proviene da una cultura fascista, assistenzial-clientelare,  con tutta la sua scienza, non potrà mai capire  il senso della cittadinanza liberale  e della libertà dalle tessere. Gli è profondamente estraneo. Come del resto il garantismo.
A meno che non ci si chiami Gianfranco Fini...

Carlo Gambescia              

                                                                    
         

    

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