venerdì 30 novembre 2018

La sociologia e i suoi amici




Colgo l’occasione,  prendendo spunto da un commento di ieri al post sulla “segregazione” (*),   per una micro-lezione  di sociologia.
Il commento  è il seguente:

«Chi ha scritto questo articolo ha una percezione della realtà e del contesto storico pari a zero. Mettere in prima fila una persona che rischia la morte rispetto a chi deve essere rimborsato dopo un tamponamento non è segregazione o favoritismo. È semplice dare un giusto ordine di importanza alle cose. Soccorrere chi è in pericolo prevale sulle cose banali o comunque prorogabili. Quando si usa un termine forte come "segregazione", occorre avere la capacità di esprimersi liberi da condizionamenti politici o rabbia ideologica, cosa che raramente accade. Se non si riesce meglio parlare di altro. Parlare di calcio, ad esempio.»

Due cose.
La prima inerente ai Social. Si noti il tono,  in pratica mi si invita a darmi all’ippica.  La cosa è anche divertente…  Purtroppo, sulle reti sociali è così,  i codici di deferenza non sussistono. Si è giudicati per ciò che si dice.  O meglio,  per ciò che Alter crede di intuire  del correlato sociolinguistico di Ego.  Pertanto i  Social non sono il  luogo adatto per intavolare pacate e proficue conversazioni:  senza i codici di deferenza tutti possono parlare di tutto. Semplificando, si potrebbe definirla  cognitività democratica. Nel senso che l’atto cognitivo è sganciato dal concetto di  merito e di status,  che invece, piaccia o meno,  rinvia alla natura aristocratica di ogni sapere.  Infatti,   l’atto  cognitivo  rimanda  in forma scalare  alle rispettive  formazioni e ai livelli di  preparazioni individuale. Quindi?   Internet (mi riferisco al  fenomeno  generale dei Social),  dove i tempi di reazione sono nulli e dove si leggono due cose su wiki e via,  si colloca nei gradini inferiori  della sfera cognitiva. Per alcuni osservatori ne rappresenta addirittura la totale negazione. Del resto, i mediocri  risultati, circa il ruolo dei Social in ambito politico,  sono sotto gli occhi di tutti.
Alexis de Tocqueville
La seconda cosa, è che  alla maggior parte delle persone sfugge  il ragionamento di tipo teorico. Non riesce a "sintonizzarsi"  sulla differenza che passa tra la descrizione di un  processo sociologico  e il processo storico, che spesso è processo ideologico. Cioè,  frutto di  un’interpretazione ideologica della storia, nel senso della condivisione di idee che vanno a nutrire differenti e molteplici visioni del progresso o regresso storico. Detto altrimenti: tanti gli esseri umani, tanti i pareri. Se si resta sul filo della teologia politica, e delle differenti priorità sociali che da essa  discendono, non se ne esce.  
Si tratta, insomma, della stessa differenza che passa tra descrizione e prescrizione, tra giudizio scientifico, fondato sull'osservazione dei fatti e  giudizio di  valore determinato da un'etica della convinzione. La scienza non è per tutti. 
Nel mio articolo, sulla scorta di un nobilissimo  padre del pensiero sociologico, Alexis de Tocqueville, riscoperto da Raymond Aron,  descrivo un processo di segregazione sociale, di separazione politica (dunque costruttivista, per dirla con Hayek) dei gruppi sociali,  a prescindere da qualsiasi giudizio di valore. Purtroppo,  il nesso tra  un credo prevalente ( di tipo storico o ideologico)  e  potere, tende a generare, sul piano giuridico (se si vuole, legale-organizzativo),  dei processi di segregazione sociale, che possono cambiare di segno politico, ma che tali restano.
Le ragioni storicamente evocate  possono essere le più nobili o le più abiette,  ma  una volta che quella macchina per fabbricare gli dei (per dirla con Moscovici), che si chiama società, si è messa giuridicamente e organizzativamente in moto,   la segregazione, dei gruppi sociali non prevalenti, è inevitabile.  
Raymond Aron
Per contro, la sociologia -  oggi purtroppo ridotta all' ancella dei servizi sociali -   ha  un  forte nucleo teorico, opera dei suoi padri, tra i quali Tocqueville,  che ci permette di  “smontare”   e  studiare la società. Può piacere o meno, ma i processi sociali -  e dunque anche quello di segregazione -  hanno una propria logica interna, una consequenzialità  fattuale che conduce inevitabilmente a forme di discriminazione sociale, a prescindere dal tipo di regime politico o dalle intenzione umane.
Il che, per una società, che si batte  per l’eguaglianza è una contraddizione. Ma, potrebbe essere diversamente?  La sociologia ci dice di no, perché, come spiegato,  c’è una logica interna, eccetera, eccetera, che il sociologo studia e conosce.
Sotto tale aspetto (che non è secondario, anzi…), la sociologia è una scienza triste, o se si vuole realista,  perché studia la natura  eterogenetica dei fenomeni sociologici.  E dunque gli effetti perversi delle azioni sociali. E in qualche misura mette in guardia dai  pericoli del costruttivismo sociale, come ad esempio di uno stato, che  atterri o susciti come il dio manzoniano.     
Lo scopo del sociologo non è quello di favorire questa o quella politica, questo o quel costruttivismo, ma di indicare le possibili conseguenze delle azioni sociali sulla base di una conoscenza, per carità limitata, ma scientificamente fondata, dei processi sociologici.  Ciò significa, che  un processo di segregazione, dal punto di vista del razza o del genere  anche se a fin di bene,  resta tale.
Cosa che molti, in particolare i politici,  non amano sentirsi dire.  Di qui, ripetiamo,  il carattere triste, se si vuole antipatico della sociologia. Se rettamente intesa.  Non  come la si intende oggi,  una specie di ancella  del welfare state...

Carlo Gambescia

(*) carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/violenza-alle-donne-approva-codice.html .                                                 

         

giovedì 29 novembre 2018

Violenza alle donne:  Cdm approva Codice Rosso
  Tu chiamala se vuoi, segregazione di genere...



Sarebbe interessante poter  intervistare Tocqueville sul ddl Codice Rosso. Un provvedimento che, praticamente,  crea un diritto segregazionista.  E dove? In una società che predica l’eguaglianza.  Cosa vogliamo dire?  Che, il ddl,   dal punto di vista delle misure  giuridiche, giudiziarie e di polizia introdotte, separa  gli uomini dalle donne.  Semplificando: in caso di violenza domestica e di genere, scatteranno corsie preferenziali, come per i  casi gravi al pronto soccorso, di qui la denominazione (*). Osserviamo umilmente che le metafore medico-giuridiche erano molto  in voga nella Germania nazista e nell'Italia fascista a proposito della  "difesa" della  "salute"  razziale.
Va però anche  ammesso che non abbiamo alcuna  preparazione specifica  per commentare tecnicamente il provvedimento.  Tuttavia, da sociologi, non possiamo non rilevare che nell’autobus storico della procedura penale italiana, come un tempo per i neri  nel Sud suprematista degli Stati Uniti,  le donne  d'ora in avanti  siederanno  davanti e gli uomini dietro, alcuni posti indietro.  Si chiama segregazione.   Di genere, ma segregazione. 
Tocqueville, che di diritto e storia se ne intendeva ( e pure di donne, sembra),  potrebbe osservare che la famosa marcia verso l’eguaglianza,  tipica dei moderni,  ha preso  una strana direzione.  Quella opposta.
Perché?  A questa seconda domanda, il grande pensatore liberale risponderebbe, asserendo  che purtroppo,  c’è una cosa che si chiama tirannia della maggioranza.  E che si fonda  sulla diffusione, per emulazione, di credenze condivise, a prescindere dalla loro verità o meno.  E in cosa crede, "maggioritariamente",  la nostra società?   Nel fatto, che i torti subiti in passato,  possano essere  espiati e riparati,  introducendo un diritto particolare  per soddisfare  il  bisogno di una giustizia, che però sembra  somigliare troppo alla vendetta di questo o quel gruppo sociale.  E l’idea maggioritaria, oggi condivisa,  è quella di   reintrodurre in nome dell’eguaglianza la diseguaglianza di trattamento. Ovviamente,  a fin di bene... 
Sicché, si combatte la schiavitù con la schiavitù. O se si preferisce  la segregazione con la segregazione.  Le donne, che nell’autobus della storia, prima sedevano dietro, ora siedono davanti.  E gli uomini sono finiti  in fondo.  Come il liberalismo.  

Carlo Gambescia     
          

mercoledì 28 novembre 2018

Il libro di Carlo Calenda e la crisi del Pd
Segnali di vita?  
  di Teodoro Klitsche de la Grange



Il saggio di Carlo Calenda, Orizzonti Selvaggi(*), è una riflessione sulla globalizzazione e sull’antagonista da esso generato, ossia il populismo. Al contrario di altri, critica gli eccessi della globalizzazione, con la conseguenza che ha indotto. Scrive l’autore che nel ventennio tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 2008 (inizio della crisi) si è avuta una separazione tra politica e potere “La separazione tra politica e potere deriva da errori interni alla politica, ma è anche un frutto guasto della prima fase della globalizzazione e dell’ideologia che l’ha ispirata. La politica deve tornare ad avere il potere di indirizzare gli eventi a partire dall’oggi… La ricerca della rappresentanza è stata sostituita dalla retorica della competenza. La tecnica ha sostituito il pensiero politico e poi la politica stessa”. Si è rotta la relazione di fiducia tra i cittadini e la classe dirigente.  “Questa frattura si è allargata rapidamente, poi nel 2008 la prima fase della globalizzazione si è chiusa, traumaticamente e i suoi dogmi sono crollati, insieme al progetto egemonico dell’Occidente iniziato nell’89”.

L’ “ideologia del potere”, cioè il progresso non è più creduta dalle masse. È la paura del presente su cui insistono le forze populiste a determinare la loro ascesa “I populisti prevalgono, pur rimanendo inconsistenti sul piano delle proposte, perché riconoscono le paure contemporanee, mentre i progressisti hanno venduto e continuano a vendere le meraviglie di un futuro lontano”.
A differenza di altri, pregio di questo libro è di fare l’autocritica (dei favorevoli alla globalizzazione) e di riflettere sulle cause di una decadenza, specie in Italia assai accelerata dalla vecchia élite e dal sistema politico da essa costituito.
L’autore ricorda i dieci fallimenti del “progetto egemonico dell’Occidente” indotto dalla globalizzazione: il lavoro che è diventato una commodity, l’iniquità della distribuzione del carico fiscale, la sregolarizzazione della finanza, l’insostenibilità del modello di sviluppo (ed altri). Ma anche i successi: il progresso economico dei paesi in via di sviluppo (è il dato più favorevole) la diminuzione dei prezzi nei paesi sviluppati (sul che ci sarebbe da discutere) le istituzioni di governance internazionale.
Il populismo, di converso rifiuta l’ipotesi tecnocratica e “ha ridato centralità all’oggi ma soprattutto alla rappresentanza contro la retorica della competenza”, mentre “le classi dirigenti liberali hanno pensato di poter sostituire la rappresentanza con la competenza per un trentennio, in forza del fatto che il pensiero liberale era l’unica “narrazione globale” sopravvissuta, compito della politica era esclusivamente applicare tecnicamente i principi di questo pensiero”. Ma “la democrazia non si fonda sul cv, ma sulla rappresentanza, e le elezioni non sono un colloquio di lavoro. La rappresentanza non dipende dalla competenza tecnica ma dalla capacità di essere in contatto con la società”. Peraltro il tutto, nella migliore delle ipotesi, ha provocato uno iato tra efficienza e giustizia; ma “la mancanza di etica nel capitalismo contemporaneo è una delle cause fondamentali della sua crisi di reputazione”. L’ideologia della globalizzazione ha favorito il dumping da parte della Cina “L’industria dell’acciaio è stata distrutta dalla competizione scorretta cinese dovuta a una sovrapproduzione largamente incentivata dallo Stato in barba a ogni norma del Wto”. L’antagonista sovran-populista ha soprattutto sfruttato la paura provocata dalla crisi, dalla migrazione e dalla “revisione” dello Stato sociale; d’altra parte, scrive – a ragione – Calenda, la sinistra ha perso il contatto con la propria base “Un caso esemplificativo della mancanza di qualsiasi riflessione sulle ragioni della sconfitta è quello della manifestazione che il Pd ha deciso di dedicare “all’Italia che non ha paura”. Vale a dire ai vincenti, gli unici che infatti continuano a votarlo. Non sono un appassionato di distinzioni tra destra e sinistra ma una cosa mi è chiara: la sinistra nasce per difendere chi ha paura, non per allontanarlo. Qualsiasi nuovo progetto politico che abbia l’ambizione di diventare maggioranza deve partire da qui: dare rappresentanza all’Italia che ha paura”. Il progetto politico proposto è “aperto”: “Le linee di demarcazione tra destra e sinistra si sono spostate. La vera discriminante oggi è tra chi vuole rinnovare la democrazia liberale mantenendone i valori di fondo e chi invece vuole sostituirla con una democrazia illiberale, infetta e manipolata”. In altri termini il nascente “partito globalista”.
Carlo Calenda, già Ministro dello Sviluppo Economico 

Questo libro ha due pregi, che sono anche due difetti: tiene conto che è cambiato il contenuto dell’opposizione amico/nemico, per cui riproporre la vecchia scriminante del secolo breve, ossia borghese/proletario è inutile e politicamente debole. Se il comunismo dal 1991 è stato collocato nell’archivio della Storia, è inutile combatterci contro. Tuttavia, specie in Italia, la lentezza delle classi dirigenti, ma quella di centrosinistra ancor più che quella di centrodestra, nel valutare la nuova situazione, rende problematico recuperare il (troppo) tempo perduto.
Dall’altra la seconda componente fondamentale del successo del populismo, già sottolineato negli anni ’90 del XX secolo, tra gli altri, da Lasch e Paul Piccone, e cioè la frattura tra popolo ed élite che non condividono più l’ethos delle masse, così che “si sono estraniate totalmente dalla vita comune” (Lasch), appare altrettanto forse più difficile da superare. Il rigetto dell’elettorato nei confronti dell’ “ancien régime”, specie in Italia e così esteso e diffuso che anche una radicale rottamazione potrebbe non bastare.
Anche perché molti delle “nuove leve” condividono (gran parte degli) errori e degli idola delle vecchie volpi, almeno di quelle della “seconda Repubblica”. Comunque, malgrado la strada in salita, il percorso di Calenda è nella direzione giusta. Auguri.
Teodoro Klitsche de la Grange


(*) Carlo Calenda, Orizzonti selvaggi. Capire al paura e ritrovare il coraggio, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 216, € 16,00.



Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica “Behemoth"   (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).



martedì 27 novembre 2018

Bernardo Bertolucci e le grandi illusioni del Novecento
Erotomane e comunista, ma non fesso



Perché il cinema  italiano  non ha mai dedicato un film biografico   a Cavour  o  Giolitti?  I pochi film sul Risorgimento o sono incolori o egemonizzati dalla versione cinematografica delle tesi di Gramsci.  Su Cavour esistono un paio di sceneggiati televisivi, ben interpretati, ma fondati più sul dramatis personae, che sull’effettivo, e determinante, ruolo storico cavouriano.  
Quanto a  Giolitti, odiato dai fascisti e in chiave postuma da comunisti e democristiani, di pellicole, neppure a parlarne. Forse se ne occuperanno nel XXIII secolo.  
Per fare un esempio, sempre a proposito di Cavour,  nessun regista -  e soprattutto  sceneggiatore -  si è cimentato con  i quattro ricchissimi  tomi che un grandissimo storico, come Rosario Romeo,  dedicò a Cavour… Neppure negli anni del “liberale”  Berlusconi, quando i soldi giravano.
Invece,  il colpo di grazia al Risorgimento  lo  inferse  nel 2010  Mario Martone,  rimasto fermo alla vulgata gramsciana   di una necessaria rivoluzione secondo il modello giacobino.  Per inciso, storiograficamente,  smontata,  già negli anni Cinquanta del secolo scorso, sempre da Rosario Romeo.
Dicevamo perché?  Per la stessa ragione per la quale  oggi si celebra,   anche da morto,  un comunista erotomane come Bernardo Bertolucci: egemonia culturale del marxismo e di certo progressismo laico filocomunista,  complice una mediocre e pavida borghesia, prona a Mussolini come a Togliatti e Berlinguer. E che comunque, se e quando  c'era da prendere  (tipo aiuti di stato), servile, nei piani meni nobili, anche verso la Democrazia Cristiana.  Una borghesia, in particolare quella con pretese intellettuali, tuttora schiava della coazione a ripetere, anche con i populisti al potere.  Un pensiero è dominante, o ancora dominante, quando non è necessario che qualcuno  dia  gli  ordini. Va da solo, in automatico.  E non servono le ruspe. Occorrono invece dosi massicce di culturale liberale.  Ma questa è un'altra storia.
Novecento, film incensatissimo, resta  forse la pellicola più faziosa in assoluto sulla storia d’Italia.  Bertolucci,  attingendo al realismo cinematografico sovietico e cinese  (e al porno, neppure tanto soft,  come ad esempio il threesome Casini-De Niro-Depardieu),  chiuse il film in un tripudio di bandiere rosse e di processi  ai padroni: anno di grazia 1976.  Nel maggio il film venne presentato a Cannes.  In giugno,  le Brigate Rosse uccisero il magistrato Francesco Coco, reo di non  essere comunista, e  gli  agenti di scorta:  nessuno sapeva, e mai seppe per chi votavano.  Due anni dopo sarebbe toccata a Moro e in seguito a tanti altri.  Nessun legame diretto, per carità.  Ma quello era il clima politico dei tragici Anni di Piombo. Non esistono altre "narrazioni".  
E lui, il regista  rosso ed  erotomane, che faceva?  Incensava il modello del comunismo double-face  russo e cinese. Come? Lanciando palle di  merda (pardon) su una borghesia cinefila  che invece di tornare a Cavour e Giolitti, vezzeggiava un  intellettuale, compagno di strada, di un comunismo, dentro e fuori il Pci, che liquidava come fascista il terrorismo brigatista.  
A proposito dell’erotomania di Bertolucci, che in pratica attraversa tutta la sua opera,  va detto che solo lo stupido virtuismo democristiano poteva consentire al regista  di trasformarsi in santo laico. Permettendo a  un film mediocre senza capo  né coda, come L’ultimo tango a Parigi, di trasformarsi, dopo il sequestro e addirittura la distruzione della pellicola ordinata dalla Cassazione,   in capolavoro e campione di incassi. Per dirla, parafrasando il titolo di uno dei film meno inguardabili di  Bertolucci: una tragedia da uomini ridicoli.
Pareto, liberale non per caso, scrisse un magnifico pamphlet  sul virtuismo, ripubblicato di recente da Liberilibri (*), dove si metteva alla berlina l’ossessione, al contrario,   per il sesso dei bacchettoni  cristiani e cattolici.  Un testo, ancora oggi godibilissimo. Dove però si scrive  che il residuo sessuale   - chi conosce la terminologia paretiana, sa, chi non la conosce si compri il libro -  agisce a doppio senso:   del virtuismo e dell’erotomania.  Due fenomeni sociali uguali e contrari.  Che non giovano  - ambedue - al sano vivere sociale, di cui il sesso, anche nei suoi sviluppi erotici (perché no?), è una una componente, non la componente.
Purtroppo,  il Novecento, come scrisse un grande storico francese, François Furet, è il secolo della grande illusione comunista. Che però, nonostante il tremendo capitombolo storico, stenta a morire. Ma il Novecento,  con Freud che pure scrisse cose interessanti (come del resto Marx), è anche il secolo di un'altra grande illusione:  quella dell’ eros di massa.
L’opera cinematografica di Bertolucci, rispecchia queste due grandi illusioni collettive.  Inoltre,  senza scendere in pettegolezzi, nonostante le palle di merda (aripardon), Bertolucci era borghese fino al midollo, ma "all'italiana": secondo il Morandini, Novecento  fu un  “film sulla lotta di classe antipadronale finanziato con dollari americani” (**).  Ma il discorso  varrebbe anche per  altri  film di Bertolucci,  i più sfarzosi e inutili.
Comunista, erotomane e antiborghese. Ma con i soldi della borghesia. Di sicuro, non era un fesso.

Carlo Gambescia

(**)   Novecento, in  Il Morandini. Dizionario del film 1999, Zanichelli, Bologna 20013, p. 887.   
         

lunedì 26 novembre 2018

Un articolo  di  Flavia Perina sulla "Stampa"  
 Gilet gialli e fazzoletti fucsia? Diversamente libertari...




Quanti anni contano oggi sul pallottoliere della vita  i ragazzi degli anni Settanta? Tra i cinquanta e i sessanta con punte, i più anziani, i sessantottini autentici, di settanta.
Ebbene,  secondo Flavia Perina (*) - tesi che non  può non colpire  il sociologo -  queste “classi di età”  rappresentano  il fulcro sociale delle proteste di piazza a Parigi, ma anche a Roma, come la manifestazione di  sabato.  E in nome di che cosa? Della cultura dei diritti: dal  diritto alla pensione, costi quel che costi,   a quello per  una legislazione ad hoc, dunque particolare, secondo il genere. E così via. I nonni, o quasi, difendono i diritti conquistati negli anni Sessanta-Settanta. Se ci si perdona la battuta,  li si potrebbe definire:  diversamente libertari, anche  nel senso dei capelli grigi...
Non sappiamo, se al di là del giudizio impressionistico, vi sia una reale rispondenza nei fatti “anagrafici”.  Mancano, al momento,  cifre precise sulla composizione sociale delle proteste, in Francia come in Italia.  Tuttavia la tesi è interessante.  Però ecco il punto:  Flavia  Perina assegna un valore politico positivo  -  almeno così sembra  -  alla protesta,  a suo avviso,    prezioso ed  eroico portato di una cultura dei diritti. 
Noi invece non crediamo che queste manifestazioni abbiano natura, semplificando (in sociologhese), altruistica. Come del resto abbiamo scritto ieri (**).  Almeno a prima vista, sembrano essere  fenomeni sociali egoistici. Che, ecco il punto,  portano - oggettivamente -  acqua al mulino della protesta populista, rischiando così di delegittimare  i tre  pilastri dell’ ordine liberale: la democrazia rappresentativa, l’economia di mercato, lo stato di diritto. 
Flavia  Perina,  purtroppo,  sembra  continuare  a confondere libertarismo  e liberalismo.  In realtà, il libertarismo, dopo il Sessantotto,  ha condotto, una volta calato dall’alto in una società di massa, al “politicamente corretto di sinistra”, se si vuole alla pratica liberal-socialista.  Per limitarsi a due esempi:  al  diritto per segregazione di genere e a una contorta antropologia  delle pensioni,  totalmente sganciata dalle regole dell’economia di mercato. In una parola, anzi due, all’ individualismo protetto, e di massa,  tipico delle socialdemocrazie, spiccatamente socialiste, insomma, poco o punto, liberali.
Mentre il liberalismo ha edificato spontaneamente, dal basso,  per prove ed errori, durati alcuni secoli, quella  rete politica, economica e giuridica, che, dopo aver sconfitto armi in pugno i totalitarismi,  ha consentito settant’anni di pace, sviluppo e benessere.  
Il libertarismo del Sessantotto si è invece convertito in una dittatura dei diritti particolari  dei più differenti  gruppi sociali  in continua lotta fra di loro.  Come,  per  ogni   fenomeno  di parassitismo sociale, il libertarismo  ha fatto leva sulle rete politica, economica e giuridica liberale. Solo per stravolgerla però.  E in nome di  certo  pluralismo corporativo,  tutto pratico,  che con lo stato di diritto, la democrazia rappresentativa e l’economia di mercato, non aveva e non  ha nulla a che vedere.
E poiché la verità si vendica sempre,  il conflitto tra le diverse “coalizioni distributive”, favorite da un diritto motorizzato, e socialistoide,  da macchinetta distributrice di liofilizzato libertario,  ha condotto alla crisi sociale e  fiscale dello stato. E per dirla tutta, anche morale, perché   ha minato il senso di responsabilità verso l’intelaiatura  liberale.  Di qui, i necessari tagli e redistribuzioni economiche, ai quali le generazioni  ricordate dalla Perina si ribellano, anche al solo minimo accenno.  Andando così  a ingrossare quell’onda lunga populista che rischia di distruggere l’ordine liberale. Detto altrimenti: il pericolo è quello di   cancellare una rete politica, giuridica ed economica, che finora ha consentito, pur tra gli stravolgimenti libertari o meglio liberal-socialisti, l’esercizio delle  libertà. Insomma, si rischia di  tagliare l'albero, sui cui rami si sta comodamente seduti, ammirando un panorama, mai prima goduto  nella storia umana.
Parliamo delle stesse libertà che i  nonni e le nonne in gilet gialli e fazzoletti fucsia, negli anni Sessanta e Settanta, da giovani baldanzosi, per ragioni politiche, estreme ma opposte, impedivano o negavano  nelle università e nelle piazze. Ieri come  oggi.
E Flavia Perina  queste cose dovrebbe ricordarle.  Certo, i diversamente libertari provano anche  di aver conservato  le "competenze tecniche". Ma è  proprio il caso di andarne fieri?  Qui,  non si tratta solo di saper usare  un  megafono  e  fronteggiare la polizia. C'è tutto un mondo intorno, chiuso in difesa di un egoistico individualismo protetto, come abbiamo cercato di spiegare. O no?  

Carlo Gambescia   



(**) http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/panuelo-rosa-e-gialli-come-distruggere.html :

domenica 25 novembre 2018

Pañuelo  fucsia e  gilet giallo
Come distruggere l'ordine liberale


Ancora non sappiamo come andrà a  finire in Francia la jacquerie dei gilet gialli. Contestatori  che da lontano  ricordano gli addetti alla manutenzione stradale. Macron non ha ancora preso posizione, ufficialmente. Parlerà martedì. Cederà?
In Italia, dove  è al potere  una specie di mostro a due teste, sovranista e populista,  la rivolta fiscale è ancora di là da venire, se mai verrà: perché da noi, sulla scia del vecchio cripto-populismo democristiano di  Tambroni, che voleva governare con i voti missini,  il Governo Salvini-Di Maio parla di tagli alle accise e forse, come allora, pure al prezzo dello zucchero...  

Per contro, ieri, Roma ha visto sfilare, pacificamente (ma non a parole e slogan)  le donne  dal  pañuelo  fucsia -   un fazzolettone triangolare,  che,  a dire il vero, da lontano, ricorda slippini femminili.  Si  marciava, con la benedizione welfarista dell'Onu, “contro la violenza di genere”: aggiornamento lessicale  di quella che una volta si definiva “violenza classe”. Nel senso, per capirsi, della colpevolezza a priori, un tempo, di tutti i borghesi, oggi di tutti gli uomini. Ragionamento totalitario.  E infatti la sinistra  si è intestata la gloriosa giornata.   
Parigi e  Roma, due manifestazioni profondamente diverse, ma in qualche misura simili. In che cosa?  Nell’egoismo da gruppo di pressione fuori controllo,  fiscale nel primo caso, sociale  nel secondo.      
In Francia, come si è  notato, protesta la  provincia dei Suv  in gilet giallo, divoratrice di chilometri e formaggi;  in Italia, l’individualismo  protetto del   pañuelo fucsia,  cittadino,  divoratore di "diritti garantiti" e tisane. 
Quel che però sembra prevalere  in tutti  è l’assoluta incomprensione della gravità del momento e del rischio che corre in Europa il sistema liberale.   Il vero  problema  non è il prezzo della benzina o il ritiro gratuito presso le Asl di  spray urticante, bensì l’onda antiliberale  che rischia di sommergere l’Europa. Sicché,  protestare, da un lato,  per mezzo euro di meno al litro e, dall'altro, per imporre un “politicamente corretto” che non è liberale  ma socialista (non lo si dimentichi mai...), significa  contribuire  alla vittoria dei populismi. Vuol dire non aver capito che equipaggio e passeggeri   protestano, e  stupidamente,  mentre la nave rischia di affondare.

Gilet gialli e fazzoletti fucsia sono oggettivamente alleati di Marine Le Pen, che gioca all'arruffapopoli, e di Matteo Salvini, che così può continuare a  recitare la parte della vittima del "politicamente corretto".    
Due stupidità politiche, quelle del Suv e dello spray,   che vanno a  fondersi insieme, come animate da un cieco desiderio di autodistruzione. Coinvolgendo nella caduta un sistema politico, economico e sociale, come quello liberale,  che, dalla democrazia parlamentare all’economia di mercato e allo stato di diritto,  ha giustamente favorito, se ci passa l’ accostamento,  motorizzazione individuale e  ascesa sociale, a cominciare proprio dalle donne.  
Non si vuole vincere, si vuole stravincere. E per il proprio egoismo, di classe e di genere. Che poi è la stessa cosa. Perché si vuole imporre un conflitto sociale fondato sulla non negoziabilità e su uno stramaledetto  individualismo protetto, di stampo socialista, che è l'esatto contrario dell'individualismo liberale.
Si è perso il senso del limite politico.  E  del ridicolo.

Carlo Gambescia


sabato 24 novembre 2018

Le radici  metapolitiche  dello scontro  tra l' UE e l' Italia  di Salvini e Di Maio
Comunità  e  contratto 





Comunità e contratto sembrano concetti astratti, ma in realtà  non è così.  Mi è capitato di scoprire. durante lezioni e conferenze,  che l’uditorio, soprattutto se composto di giovani  non ne  capisse il contenuto, né  in particolare il  valore esemplificativo, quando e se concettualmente applicati all’analisi metapolitica  della politica.  

Ad esempio   - il lettore sorriderà,  perché vado a sempre a parare  da “certe parti” -    il Governo giallo-verde   crede nell'idea di   comunità, e infatti vuole fare cartastraccia del contratto europeo.
Salvini e  Di Maio, nonostante abbiano firmato un contratto di governo (classico omaggio del vizio alla virtù), ragionano secondo lo stesso  schema che a suo tempo, oppose Robert Filmer,  difensore di una società patriarcale, da Adamo ai monarchi inglesi,  fondata sulla comunità-famiglia, comandata da un Padre-Dio,  e John Locke, che invece teorizzava, il libero contratto, anche politico, tra individui liberi,  non   legati o frenati  da  alcuna comunità organica. 
Sicché, per venire al punto,  il  nazionalismo -  oggi si chiama sovranismo… -  non è che una sopravvivenza  di un pensiero fondato sull’idea di comunità: la nazione come grande famiglia per la quale ci si deve sacrificare, se occorre, come in guerra, addirittura  donando la propria vita.
Naturalmente, semplifico.  Ad esempio,  i vari Risorgimenti nazionali dell’Ottocento, tra cui quello italiano, furono forme miste di  comunità-contrattuali: mescolanza di  tradizione (la comunità) e modernità (il contratto).  Esiste anche in politica, quindi,  un problema, come in chimica, di predominanza o equilibrio, in una determinata formula-sostanza,  di un elemento  sull’altro. 
Però, ecco il punto, alla radice, un pensiero comunitario resta tale. Soprattutto, in occasione delle  prove di forza.  Quindi, per capirsi, coloro che votano allegramente  Cinque Stelle o Lega, potrebbero ritrovarsi  un giorno  - certo, è un’ipotesi -  con un fucile  tra le mani e una divisa militare addosso.  Perché la grande famiglia, dunque la comunità, impone, come detto,  grandi sacrifici, persino quello della vita.  Comunità, non significa solo reddito di cittadinanza,  ma anche, come recitava la propaganda fascista, arcicomunitaria:  "Credere Obbedire Combattere".  
Ripeto, il comunitarismo, una volta che si è accettata la sua logica, non fa alcuno sconto. Si pensi, come dicevo all’inizio,  alla differenza di approccio, a proposito della legge finanziaria (per chiamarla all’antica),  tra l’Italia e l’UE.  Bruxelles chiede il rispetto del contratto (semplifichiamo), come  si trattasse di un rapporto commerciale  tra due macro-individui, Roma, vuole sottrarsi, evocando le ragioni, non commerciali,   di una  macro-comunità, l’Italia. 
Ovviamente, il Governo giallo-verde, si nasconde, neppure tanto bene,  per ora, dietro le ragioni commerciali della crescita economica, eccetera, eccetera,  ma alla radice la sua logica è comunitaria. Difficilmente, UE e Italia  potranno intendersi, a meno che uno degli attori non decida di  fare un passo indietro.

Si dirà, ma l’idea europea, non rinvia anch’essa a un’idea comunitaria? Sì, ma anche in questo caso, sfrondata dalla sua retorica,  la radice della logica UE rimanda al contrattualismo.  
I concetti sociologici, come quelli di contratto e comunità sono utilissimi  perché  racchiudono una valenza metapolitica, nel senso delle regolarità, cioè di fenomeni che si ripetono  e che rispondono a una loro logica interna, spesso inesorabile.
Il lettore, come gli studenti di cui parlavo all’inizio,  si e mi chiederà la ragione precisa dell' asserzione.  Presto detto. Perché i concetti di contratto e comunità  consentono di ricondurre l’analisi della politica al suo grado zero, al raffronto tra fattori elementari, racchiusi, per l'appunto,  in concetti, nudi e crudi (per così dire),  privi di qualsiasi valore retorico.
E cosa ci dice il grado zero?  Uno, che storicamente,  in termini di  danno sociale,  il contrattualismo  è meno pericoloso del comunitarismo. Due, che se si accetta la logica comunitaria,  non si può poi sfuggire alle sue conseguenze, buone  e cattive: dal  reddito di cittadinanza all’elmetto chiodato.
Credo, non ci sia altro da aggiungere.  Qui terminano le terre conosciute della metapolitica.  Hic sunt leones.

Carlo Gambescia                

                  

venerdì 23 novembre 2018

 Il brillante saggio di  Hayek  arricchisce la "Biblioteca Austriaca" di  Rubbettino      Money, money, money…

  

Quarant’anni, eppure non li dimostra. Parliamo del saggio di Friedrich August von Hayek, La denazionalizzazione della Moneta (*), meritoriamente pubblicato da Rubbettino. Perché il lavoro di Hayek, uscito nel 1976 (e in  seconda edizione nel 1978),  è ancora così fresco e interessante? Per due semplici ragioni.  
La prima, perché, è un ottimo antidoto al sovranismo  populista, spendaccione e semi-militarizzato, che oggi impazza, illudendo gonzi e sfaticati. 
La seconda,  perché ribadisce il fallimento della vulgata keynesiana,  e non solo in ambito  monetario,  tesa a rimpinguare le tasche dei gruppi di interesse,  con in prima fila il governo.  
Denazionalizzare il denaro, significa fine delle banche centrali, tuttora ubbidienti ancelle, se non schiave dei gruppi di pressioni, governativi e non,  travestiti da potere politico. Non solo: significa  libera  competizione, dentro e fuori i singoli Paesi, tra valute diverse. Tutti liberi di stampare moneta.  Sarà  il consumatore a scegliere sulle basi di un prezzo finale, rappresentato dal valore costante della  moneta, quindi dalla stabilità della stessa in termini del miglior potere d’acquisto. Il che perciò non implica la sua "fissità". Di riflesso,  le banche  trarranno i loro profitti non dai soldi facili dispensati dai  paperoni della politica, ma  dalla qualità dei servizi resi a imprese e cittadini.
Ma allora, per attualizzare le tesi di Hayek,   la politica, l'euro, i burocrati e i lori finti nemici? In concreto, cosa devono  fare?  Un passo indietro.  Strategia del gambero.  Realismo politico significa capire  quando ritirarsi dal tavolo da gioco della politica,  riducendo smithianamente al minimo sindacale il ruolo del governo. O dello "Stato" con la maiuscola, secondo la fin troppo nobile definizione, così  amata  dai parassiti politici.
Si tratta di una questione metodo. Ad esempio,  applicando la ricetta di Hayek, si sarebbe comunque arrivati all'euro  (o agli "euri"),  ma senza imposizioni dall'alto. E come?  Attraverso la libera competizione tra banche (di emissione)  private:  concorrenza  che avrebbe premiato la moneta o le monete  migliori, secondo i consumatori. Si pensi, ad esempio, a quando un tempo si partiva per un viaggio, preferendo di portare con  sé  dollari o marchi, invece di lire, perché dotati di maggiore potere d'acquisto. Il meccanismo di preferenza della moneta denazionalizzata - semplificando, ovviamente -  è  lo stesso.      
Una vera  rivoluzione:  il nemico principale di Hayek    -  non dimentichiamo che il saggio venne scritto negli anni Settanta -  è l'inflazione ( e le conseguenti deflazioni), frutto di manipolazioni politiche per guadagnare consenso, illudendo  masse instupidite dalla droga inflattiva e dal metadone deflattivo.  Hayek  ritiene che solo attraverso la libera competizione  tra valute  (non soggette alle banche centrali, né agli ordini dei gruppi di pressione, politici o meno) si possa giungere, ripetiamo,  a valori costanti ( ma  non fissi),  in termini di potere d'acquisto, della moneta denazionalizzata.  E nel suo saggio, si diffonde, anche tecnicamente, e molto bene,  illustrando i perché economici di una moneta non più schiava di politici-banchieri e di banchieri-politici. E dunque dell''inflazione indotta. Pagine  memorabili alle quali rinviamo i lettori addottorati in Economics e  non  succubi  del fascino perverso - soprattutto per chi non provenga da Nazareth -  di moltiplicare i pani e i pesci ad uso però di speculatori, fessi e nullafacenti.  
Hayek ne ha per tutti: Keynes e keynesiani, come appena ricordato;  monetaristi (si  infierisce particolarmente sull’idea di friedmaniana, di prefissare a priori la quantità di  valuta  necessaria al mercato); stralunati e inflazionisti  profeti della  free money: qui, per inciso,   la differenza tra la teoria di Hayek e quelle, da sindrome del denaro facile,  di Gesell,  Douglas, eccetera, eccetera. 
Anche se in realtà,  a dirla tutta,  non siamo davanti a un libro di economia  in senso stretto.  E se proprio tale deve essere, la sua lettura non può prescindere dalla gaia scienza sociale  della  teoria istituzionale di Hayek.  Teoria che,  piaccia o meno a certi suoi cultori, ha radici  sociologiche. Terminologia,  anche in chiave disciplinare, che lo stesso Hayek  non apprezzava particolarmente. Però le cose stanno così. 
Ma procediamo per gradi.  Come egli  osserva  acutamente: 

«Nell’immaginazione popolare, l’espressione “corso legale” è comunque giunta a essere circondata  da un alone di idee vaghe sulla supposta necessità che lo Stato fornisca la moneta. Ciò è una sopravvivenza  di quella concezione medievale secondo cui è lo Stato a conferire in qualche modo un valore che altrimenti la moneta non avrebbe. E questo a sua volta , è vero solamente nella molto limitata misura in cui il governo può imporci di accettare qualunque cosa esso decida in sostituzione di quel che abbiamo contrattato; il tal  senso, conferisce al sostituto lo stesso valore che per  il debitore  ha l’oggetto originario del contratto»

Hayek riceve il  Premio Nobel (1974) 
In realtà, 

« la superstizione in base a cui è necessario che il governo (usualmente chiamato “Stato” per ottenere un suono  migliore) dichiari che  cosa debba essere considerato denaro, come se fosse una creazione che non esisterebbe senza lo stato, ha probabilmente origine dall’ingenua credenza secondo cui il denaro è stato “inventato” da qualcuno, sicché noi lo abbiamo ricevuto da un originario inventore».

E invece non è così. Siamo giunti al  vero nocciolo sociologico della questione. Hayek sta per dispiegare tutta la forza euristica di una teoria dell’azione sociale, inclusiva delle sue conseguenze, individualmente irriflesse. Il lettore prenda fiato; siamo all'assalto finale.  Perché, continua Hayek,   «detta credenza», quella dell’ «originario inventore»,  viene

«completamente sconfessata  dalla nostra comprensione della nascita spontanea di istituzioni non programmate, attraverso un processo  di  evoluzione sociale, di cui il denaro è divenuto il paradigma più importante (altri esempi sono costituiti  dal diritto, il linguaggio, le regole della morale)».
L' edizione italiana della summa di  Hayek

Pertanto - modesto consiglio -  per apprezzare pienamente La denazionalizzazione della moneta, crediamo  si debba prima leggere, o comunque alternare sapientemente nella lettura,  il  magnum opus  di Hayek:  Law, Legislation and Liberty. Autentica summa del  suo proteiforme, ma raziocinante, pensiero filosofico, economico e sociale:  opera alla quale,  a quanto sembra,  lavorò, indefessamente negli stessi anni  in cui scriveva Denazionalizzazione.
In Law, Legislation and Liberty Hayek sviluppa, reinventando il concetto di mano invisibile, la sua straordinaria teoria delle istituzioni sociali, viste come  un'ordine spontaneo, esito di innumerevoli interazioni individuali  tra soggetti che perseguono l'interesse personale.  Ordine, per l'appunto, di cui solo in seguito si ha la  piena consapevolezza - circa i risultati -  in termini di successo selettivo. 
Certo, gli interessi, anche all'interno del pensiero e della pratica liberali, possono essere composti in modi diversi, non esclusa la manipolazione politica.  Diciamo che Hayek, secondo la nostra classificazione è un liberale micro-archico. E' per lo stato minimo (**). 
Quindi, semplificando,  moneta, linguaggio, morale, come sistema strutturato, se si vuole come forma di concettualizzazione, vengono dopo (al massimo durante),  mai  prima.  E qui piace ricordare, come Pareto sostenesse la stessa cosa:  prima il feudalismo, scriveva, poi la "teoria feudale"; prima  il capitalismo, poi la "teoria economica capitalistica", eccetera, eccetera.
Gli esiti finali delle azioni umane individuali sono imperscrutabili: ecco il grande mistero sociologico. Anche Hayek, assolutamente convinto della umana  fallibilità,  ne è consapevole. E fino in fondo. Perché in Denazionalizzazione  si suggerisce.  Ci si guarda bene dal prescrivere cure miracolose, come tanti medici leninisti dei pazzi.  Come egli osserva:

«È stato detto che la mia proposta di “costruire” istituzioni monetarie completamente nuove è in conflitto con la mia generale attitudine filosofica. Ma nulla è più lontano dai miei pensieri che la volontà di disegnare nuove istituzioni. Quel che propongo è semplicemente la rimozione degli attuali ostacoli che per secoli hanno impedito l’evoluzione di desiderabili istituzioni monetarie». 

Hayek  collega umilmente  fallibilità e libertà.  Una cosa è tentare di rimuovere gli ostacoli, apprendendo dai propri errori,   un'altra ignorarli,  vantandosi per giunta di costruire un mondo nuovo, dove non ci saranno più né ostacoli  né errori. Per dirla, ancora una volta, e degnamente, con Hayek: la prima è la strada che conduce alla  libertà, la seconda alla schiavitù.        
                                                                           Carlo Gambescia


(*) Friedrich A. von Hayek, La denazionalizzazione delle moneta, presentazione di Lorenzo Infantino, prefazione di  José Antonio De Aguirre,  “Biblioteca Austriaca”,   Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2018, pp. 214,  Euro, 16,00. Per le citazioni  si rinvia alle pagine  66-67 e  204, nota 4.   Per acquisti diretti:  :http://www.store.rubbettinoeditore.it/la-denazionalizzazione-della-moneta.html  .
(**) Per la classificazione si rinvia al nostro Liberalismo triste, Un percorso: da Burke a Berlin, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2013, pp. 71-75.  Le altre forme - quattro in tutto -  rimandano al liberalismo archico (o triste), an-archico, macro-archico.   
                      


giovedì 22 novembre 2018

L’UE boccia la manovra giallo-verde
La frittata è fatta
di Carlo Gambescia






Nessuno fece nulla per fermare Mussolini nel 1940. Gli storici osservano che alcuni industriali e generali  segnalarono al  Duce l' impreparazione italiana.  Ma Mussolini, fu irremovibile. E finì, come tutti sappiamo.   Franco invece fu più prudente, si guardò bene, nonostante le fortissime pressioni di Hitler, dall'intervenire. E così  rimase al potere per altri quarant’anni.
Per carità,  nessun elogio della dittatura spagnola. Magari della prudenza politica, sì.  Virtù, di cui Mussolini era privo ( manchevolezza deleteria in  un dittatore),  come, purtroppo  lo sono Salvini e Di Maio,  leader repubblicani,   ai quali  però  piacerebbe molto disporre di  maggiore  potere.  E non è detto, se continuerà così, che non vi riescano. Le crisi politico-economiche, spingono all’accentramento del potere, facilitando la riduzione della libertà in nome dell’interesse superiore, come ad esempio quello di vincere  una guerra.  
E da oggi, dopo la bocciatura UE,  fortemente voluta da chi ci governa,  siamo ufficialmente in guerra, guerra economica, con  Bruxelles.  E nessuno ha fatto nulla per fermare Salvini e Di Maio, quando ancora si poteva  fare qualcosa.  In giugno. A cominciare dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. 
Oggi, pubblico un editoriale dell’amico Teodoro Klitsche de la Grange, uomo colto e intelligente, dove però ci si arrampica sugli specchi, pur di giustificare,  non tanto la sovranità del Parlamento in sé,  quanto quella del Governo giallo-verde.  Si cita a sproposito  Bismarck,  che si muoveva in un regime che non era parlamentare, per giustificare,  via parlamento,  la  continuità  delle funzioni dello stato, rappresentata però -  quando si dice il caso -   dall’attuale e sconsiderata maggioranza di governo, ricorrendo, perché torna argomentativamente utile, a una interpretazione, ripetiamo,  parlamentarista  (che sussiste, per carità,  ma tra le altre… ) della Costituzione e del ruolo del Presidente della Repubblica. Addirittura sconfinando  nel recupero, via  Hauriou (che pure ne fu critico), del disastroso parlamentarismo della Terza Repubblica francese.  E tutto questo, per giustificare una continuità di potere dello stato, presentata come legge  metapolitica, ma  imposta da una guerra economica, che metapolitica non è,  volontariamente scatenata dagli stessi Salvini e Di Maio  a disposizione dei quali ora  si vuole mettere una teoria costituzionale pronta all’uso. Ma certamente, Dura lex, sed lex, solo  se al potere ci sono  "i Nostri", o presuntivamente ritenuti tali.  
Purtroppo, continuo  a non capire,  anche perché sarà il primo  a pagare le conseguenze economiche della guerra scatenata da Salvini e Di Maio,  l’ atteggiamento filopopulista di certo notabilato liberale, colto, intelligente, dotato di mezzi non solo intellettuali.
Comunque sia, la frittata è  fatta. L’Italia è in guerra. Economica. Per ora.
 Carlo Gambescia         
                

***

Bismarck e Mattarella

di Teodoro  Klitsche de la Grange



Tra le tante novità che si leggono (e vedono) in questa fase di transizione, e probabilmente di “dualismo di poteri”, da qualche settimana si attribuisce a Mattarella l’intenzione - ed il potere – di non firmare la legge di bilancio. La possibilità è stata ripetutamente avanzata; si è letto (sulla rete) che “il cerino sarà sempre nelle mani del presidente Mattarella, alla fine. Sarà lui, infatti, che deciderà con la sua firma se la Legge di bilancio del governo gialloverde sarà legge dello Stato o meno. E, a dispetto di quanto si pensi, non è una scelta scontata, né un mero atto formale”. Qualche costituzionalista è intervenuto, ricordando all’uopo gli artt. 81 e 97 della Costituzione, nonché gli immancabili vincoli europei e qualche opinione di uffici. La soluzione appare dubbia.
Piuttosto che lottare – normativisticamente - fino all’ultimo cavillo, a mio sommesso avviso occorre prendere esempio da chi giurista (di professione) non era, ma statista - ed ai massimi livelli -  sicuramente si, come Otto von Bismarck.
Questi, chiamato a risolvere il conflitto costituzionale prussiano, ed (anche) all’uopo nominato cancelliere dal Re di Prussia, dette una propria interpretazione del rapporto tra organi costituzionali relativamente al bilancio dello Stato. In un discorso al Landtag affermò “su ciò che sia giusto quando nessun bilancio viene approvato, sono state messe insieme teorie sul cui giudizio non voglio qui impegolarmi”, ma data la diversità delle opinioni giuridiche, la soluzione data dal “cancelliere di ferro” era altra: “basta per me la necessità che lo Stato esista e che neanche nelle più pessimistiche visioni si lasci accadere ciò che succederebbe se la cassa chiudesse. Solo la necessità è determinante; di questa necessità abbiamo tenuto conto e Loro stessi non chiedono che noi avremmo dovuto sospendere il pagamento degli interessi e degli stipendi ai funzionari” (si rivolgeva all’opposizione liberale). Tale teoria fu chiamata “teoria del gap”: quando c’è uma “lacuna” costituzionale non si può abolire lo Stato (salus reipublicae suprema lex) rendendone impossibile l’esercizio delle funzioni; onde (nella monarchia costituzionale prussiana) spettava al Re – e al suo governo – continuare a garantire il funzionamento (cioè l’esistenza) dell’istituzione statale, anche senza bilancio approvato.
Una tale situazione era in linea con quanto avrebbe sostenuto, decenni dopo, Santi Romano (e non solo).
Piuttosto occorre chiedersi a chi spetti di “colmare la lacuna” (il bilancio “non firmato”) in una Repubblica parlamentare come quella italiana
Non c’è dubbio che più che gli artt. 81 e 97 della costituzione, vadano applicati gli artt. 1 (la sovranità appartiene al popolo) e l’art. 67 (il Parlamento – anzi ogni membro di questo - è rappresentante dalla Nazione); tuttavia anche il Presidente della Repubblica rappresenta “l’unità nazionale” (art. 87) ed ha quindi carattere di organo rappresentativo.
A risolvere il problema di chi debba prevalere nel caso della “lacuna” costituzionale soccorre (a tacer d’altro) il carattere parlamentare della Repubblica e la teoria di Hauriou del Pouvoir déliberant. Scriveva il giurista francese che il potere déliberant di una tipica (la prima – sosteneva – al mondo) repubblica parlamentare come la III Repubblica francese era quello del parlamento, non essendo limitato alle funzioni legislative, ma colmo di ben più importanti funzioni politiche (la fiducia al governo, l’approvazione del bilancio, la ratifica dei trattati, la deliberazione sullo stato di guerra e così via), il quale aveva così anche il potere di allargare o stringere i condoni della borsa. Tradotto ai tempi nostri (e tenuto conto che il giurista francese riteneva comunque principale potere quello governativo-esecutivo), la “centralità” del parlamento comporta che in caso di contrasto o di “lacuna” sia questo a colmarla.
D’altra parte, in una Repubblica parlamentare il governo, ossia il potere che ha in mano l’organizzazione dello Stato, dipende dalla fiducia del parlamento; mentre nella monarchia costituzionale dipende da quella del Re.
Difficilmente l’esperienza e la prudenza del Presidente lo porranno in una situazione di “conflitto costituzionale” con l’effetto politico di alimentare la straripante ondata populista; tuttavia è bene ricordare che oltre all’articolo tale e comma tal altro, le costituzioni – e i rapporti costituzionali – sono fatte per rendere possibile l’esistenza e l’azione della comunità, e non per impedirle. 

Teodoro Klitsche de la Grange