martedì 20 dicembre 2011


Il timido sorriso di Hannah Arendt



«Dopo cena andarono tutti nel soggiorno, e cominciarono a discutere (…). All’improvviso, sotto gli occhi spaventati dei suoi ospiti, dopo un breve accesso di tosse, la Arendt ricadde all’indietro nella poltrona dalla quale stava a loro servendo il caffè, priva di conoscenza. I Baron corsero all’armadietto delle medicine e vi trovarono l’indirizzo del suo medico personale. Questi venne immediatamente (…); ma prima del suo arrivo Hannah Arendt era morta per un attacco cardiaco senza aver ripreso conoscenza ».
Questi sono gli ultimi istanti di vita della grande Hannah Arendt, morta il 4 dicembre del 1976, come dire, sul campo: ragionando con i suoi amici di storia, filosofia e politica. E non è un brutto modo per dire addio al mondo. Dobbiamo la preziosa testimonianza a Elisabeth Young-Bruehl, autrice di una bellissima biografia: Hannah Arendt. Per amore del mondo 1906-1975, pubblicata all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. L’edizione italiana, per i tipi di Bollati Boringhieri, risale al 1990. E, crediamo, tuttora disponibile, in ristampa.
L’opera filosofica di Hannah Arendt è probabilmente fra le più intriganti del XX secolo. Come la sua persona del resto: ebrea tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, teologa di formazione ma lettrice onnivora, soprattutto di filosofia politica, classici antichi, romanzi e poesia tedesca. Nonché dotata, particolare non secondario, di un timido sorriso, tra i più teneri dell’intera storia della filosofia. Sorriso che all’inizio degli anni Venti del Novecento fece addirittura perdere la testa al trentenne Heidegger, allora giovane e promettente docente a Friburgo …
Ma il destino esistenziale ed intellettuale della Arendt è figlio del terremoto nazionalsocialista. Infatti, dopo l’ascesa di Hitler, si rifugia prima in Francia e poi negli Stati Uniti, sua seconda patria. Ma anche dell’altro sisma novecentesco, quello comunista. Due cataclismi che la spingono ad occuparsi di teoria politica.
E così la Arendt, per sfuggire alla morsa totalitaria, abbraccia un liberalismo politico “malinconico”, molto particolare. Un approccio che nasce in chi sappia mantenere la giusta distanza dalle cose umane; in chi sia capace di osservare la realtà, conservando un senso di dolce mestizia. Per un verso la Arendt è mestamente consapevole dei limiti del liberalismo all’interno della società di massa, e per l’altro è perfettamente cosciente di come esso sia la sola alternativa al totalitarismo moderno. La Arendt è perciò, al tempo stesso, testimone della necessità, non propriamente liberale, di aprire la politica alla partecipazione collettiva, ma anche assolutamente consapevole dei pesanti limiti di un liberalismo perfidamente economico e purtroppo in sintonia con una società dedita ai crescenti consumi di massa .
In questo ridotto spazio interstiziale, segnato anche dalla smisurata ammirazione per la democrazia degli antichi, si sviluppa la filosofia politica arendtiana. Secondo la pensatrice, dal momento che l’uomo è un animale politico, il fardello dei filosofi è quello di indicare i confini tra politica ed etica, tra essere e dover essere, senza però sperare di individuarne di definitivi. Perché, a suo avviso, esiste un rischio. Quale? Di ricadere nell’ideologia: in una specie di sapere cristallizzato nell’utopia. Secondo la Arendt, per evitare ogni deriva utopistica, sottoposta allo stolto criterio dell’azione pura (l’azione per l’azione), sono necessari realismo e immaginazione: una forma di pensiero concreto che illumini la prassi, pensando il mondo non separatamente (come certa filosofia elitaria), ma rapportandosi a esso. Tradotto: il vero politico prima di parlare al mondo, deve capirlo e conoscerlo, con quella cura che si deve avere per le «cose buone» del mondo. E soprattutto accettare, che come tutte le cose, anche quelle «buone», vanno e vengono. Insomma, non durano per sempre: il paradiso non è sulla Terra.
Pertanto una pensatrice profonda, e tutto sommato imprevedibile. Come scrive Elisabeth Young-Bruehl, la «Arendt era e sarebbe rimasta sempre conservatrice e insieme rivoluzionaria». Il che ha tuttora un suo grande fascino…
Come avvicinarsi al suo pensiero? Insomma, cosa leggere di e su di lei? La letteratura critica dedicata alla Arendt è sterminata. Diciamo subito che un’ ottima base di partenza è proprio la biografia della Young- Bruehl: opera di oltre seicento pagine, non recente, ma scritta da un’allieva che ne conosceva a fondo il pensiero e, se ci si passa l’espressione, anche il “retro-pensiero”.
A chi invece abbia fretta di avvicinarsi direttamente al suo pensiero, consigliamo la lettura dell’ antologia curata da Paolo Costa: Hannah Arendt. Pensiero, azione e critica nell’epoca di totalitarismi (Feltrinelli). Una raccolta, uscita in occasione del centenario della nascita, che riprende alcuni testi inclusi nei due precedenti volumi dell’Archivio Arendt, 1930-1954, sempre pubblicati da Feltrinelli (eccetto quello su Lessing, l’umanità in tempi bui, 1960).
Si tratta di un’ ottima scelta di articoli, saggi, conversazioni. Basta scorrere l’indice per scoprire che sono affrontati tutti i nodi principali del suo pensiero, poi sviluppati in libri, ormai classici, come Le origini del totalitarismo (1951), Vita activa. La condizione umana (1959), Tra passato e futuro (1961), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Sulla violenza (1970), Politica e menzogna (1972).
Proprio prendendo spunto dall’ antologia, desideriamo affrontare due punti decisivi del suo pensiero
In primo luogo, la polemica della Arendt con Voegelin, altro importante studioso del totalitarismo. Una polemica in cui si giunge a discutere del concetto stesso di natura o essenza dell’uomo. Insomma, siamo a livelli stratosferici, soprattutto se pensiamo a certe polemiche filosofiche terra terra di oggi; per capirsi alla Massimo Cacciari…

Per Voegelin il totalitarismo, di qualsiasi colore, non può distruggere quel che vi è di più nobile nell’uomo: la sua essenza spirituale. Perciò il totalitarismo, sarebbe un errore di percorso, frutto dell’agnosticismo e del secolarismo, malattie dalle quali l’uomo moderno può guarire ma a una condizione: quella di recuperare la sua dimensione spirituale.
Per contro, secondo la Arendt, studiosa molto concreta e per nulla interessata alle «essenze» voegeliniane, il totalitarismo implica il rischio di una trasformazione della natura umana: una specie di punto di non ritorno, a prescindere dalla reversibilità storica dei regimi totalitari. Ma lasciamole la parola : «Il successo del totalitarismo coincide con una soppressione della libertà, in quanto realtà politica e umana, molto più radicale di qualsiasi altra verificatasi in passato. Stando così le cose, sarebbe una ben magra consolazione aggrapparsi all’immutabilità della natura umana (…). Storicamente, noi abbiamo cognizione della natura dell’uomo solo nella misura in cui ha un’esistenza, e nessuna delle sfere di essenze eterne potrà mai consolarci se l’uomo perderà le sue facoltà essenziali». E poche righe più sotto, citando Montesquieu, aggiunge: «L’uomo questo essere flessibile, che si adatta nella società ai pensieri e alle impressioni altrui, è ugualmente capace di conoscere la propria natura quando gli viene mostrata, e disperderla fino al punto di non accorgersi che gli è stata sottratta».
E qui, il groviglio di contraddizioni sociali che segna il difficile presente di molti paesi post-totalitari, a cominciare dall’Unione Sovietica, dà ragione alla Arendt e torto a Voegelin. Non sarà mai facile per l’uomo ex sovieticus liberarsi dalla malattia totalitaria.
In secondo luogo, rimane molto interessante la distinzione arendtiana tra politico e non politico. A suo avviso, il discrimine è costituito dalla natura del vicolo: «L’appartenenza a un gruppo è una condizione naturale. Si appartiene a un gruppo per nascita, sempre (…). Ma (…) aderire o formare un gruppo organizzato, è qualcosa di completamente diverso. Questo genere di organizzazione si costituisce sempre in relazione al mondo: ciò che accomuna gli uomini che si organizzano sono quelli che in genere vengono chiamati interessi (…). Di conseguenza, persone delle organizzazioni più diverse possono anche essere amici personali, ma se si confondono questi piani, se, per parlar schietto, si porta l’amore al tavolo del negoziato, si commette secondo me un errore fatale ».
E qui si pensi all’impoliticità di certo pacifismo attuale, che vuole appunto portare «l’amore al tavolo del negoziato», ignorando che spesso in politica, come nota la pensatrice, possono più gli interessi che le passioni. Il che non significa, che l’amicizia, tra uomini spesso diversi, per idee e religione, non sia effetto di «una scintilla d’umanità» o fratellanza. Ma che, come nota la Arendt, parafrasando Lessing, la politica impone che ognuno di noi si comporti da «amico di molti, ma fratello di nessuno» .
Tuttavia sotto la scorza del suo realismo si nasconde un ideale di democrazia che rinvia alla città di Pericle, basato su un’estesa partecipazione politica, come appunto nella polis ateniese. Un repubblicanesimo antico, capace però di conciliare modernamente, difesa liberale delle minoranze con gli interessi collettivi, all’interno di uno spazio politico, nel quale tutti possano liberamente partecipare e dissentire. Questo “liberalismo repubblicano” ( se ci si passa l’espressione, una specie di Mission Impossible filosofico-politica), causò alla Arendt critici e nemici di ogni genere, a destra e sinistra.
Alla domanda di come conciliare libertà private e pubbliche, o di come evitare le manipolazioni politiche, la pensatrice ha sempre risposto asserendo di non avere in tasca soluzioni salvifiche, ma solo un pugno di principi liberali da difendere. E, ovviamente, tanti rischi… Collegati, appunto, ai pericoli insiti nell’esercizio della moderna libertà di massa, sempre pronta a vendersi al primo offerente, magari in stivaloni… E dunque, ripetiamo con la pensatrice, sempre a rischio.
Di qui il suo liberalismo malinconico. Ma i rischi, osserva la Arendt, vanno sempre accettati: fare politica, a tutti i livelli «è dare inizio a qualcosa». Significa « aggiungere il nostro filo a un intreccio di relazioni. E che ne sarà di esse [le relazioni, ndr] non ci è dato saperlo » .
In fondo, la sua lezione è lineare. Da una parte la libertà dall’altra il dispotismo, e in mezzo uomini e donne che devono scegliere a proprio rischio e pericolo. Alcuni cadono, molti vengono a patti, pochi lottano. E pochissimi, riescono a scrivere, come la Arendt, libri veramente belli.
Sì, belli, come il suo timido sorriso… Perché, per dirla con Benedetto Croce, altro inascoltato profeta di un liberalismo politico e malinconico, quel « velo di mestizia» che pare «avvolga la bellezza, (…) non è velo, ma il volto stesso della bellezza» .


Carlo Gambescia

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