Parlare di tecnodestra, a proposito del “mix” ideologico Trump-Musk, non è sbagliato. Però bisogna affrontare il tema evitando ricadute di tipo populista.
Partiamo perciò da una grande questione che non può essere ignorata: la crescente separazione tra economia e politica. Tra stato e mercato: due sfere dai tempi diversi. Tempistiche diverse. Ecco il punto fondamentale da analizzare.
I tempi dei mercati si sono sempre fatti più veloci, diciamo da XXI secolo, mentre quelli della politica rispondono a meccanismi che risalgono al XIX.
Ad esempio, insistere sull’interventismo dello stato, particolarmente sviluppatosi nel XX secolo, significa continuare ad affidarsi a burocrazie lente, legate al formalismo giuridico, incapaci di raccordarsi con la realtà economica digitalizzata di mercati: continente emersi di ricchezza che in pochi istanti spostano da una tasca all’altra miliardi.
Per capirsi: una legge per essere elaborata richiede mesi, addirittura anni per l’ implementazione; per contro una grande impresa può essere comprata e venduta digitando sulla tastiera il codice di un conto bancario.
Pertanto, sotto l’aspetto delle misure temporali governi e parlamenti sembrano risultare obsoleti rispetto ai mercati.
Questo fenomeno è collegato a due altri fenomeni: 1) l’insoddisfazione delle imprese high tech (dell’alta tecnologia) per una politica elefantiaca nei suoi tratti principali; 2) l’insofferenza della gente comune per strutture politiche e sociali incapaci di rispondere ai cittadini in tempi brevi.
L’idea di base, che dobbiano capire, e non si tratta di una narrazione qualsiasi, è quella di un mondo sempre più veloce in grado di fornire servizi in modo istantaneo. La dimensione temporale è divenuta sempre più importante. Diremmo addirittura centrale.
Perciò non parleremmo di una “economicizzazione” del mondo e neppure di una sua “tecnologizzazione”. Siamo invece davanti alla “velocizzazione” del mondo. Alla sua accelerazione. Semplificando: la tecnologia, in sé neutrale, ha dato una mano alla filosofia del tutto e subito. Quindi parliamo di un fatto culturale. E per giunta di massa.
Il nostro mondo occidentale, che come sistema di mentalità, va comunque estendendosi a tutto il globo, sembra essersi tramutato in un mondo di clienti schizzinosi, incontentabili, pignoli. Per dirla in altro modo: si esigono diritti pubblici al ritmo dei diritti privati. Lo stato welfarizzato ha creato aspettative che non possono essere soddisfatte in tempi brevi (se mai lo saranno…). E quanto più lo stato si welfarizza tanto più aumenta la distanza, in termini di ritmi, delle istituzioni pubbliche dalle istituzioni di mercato.
Sotto il profilo politico, destra e sinistra hanno creduto di poter intercettare e rispondere alla crescente insofferenza della gente comune digitalizzando lo stato (cioè le sue istituzioni). Quindi, per dirla brutalmente, favorendo la propria autodistruzione in termini di incontenibile crescita delle aspettative, che un digitale pubblico, sottoposto allo stessto ritualismo burocratico della pubblica ammnistrazione, non potrà mai soddisfare. Anche per ragioni di autofinanziamento fiscale.
Per contro, il mondo dell’high tech, per un verso ha favorito il processo di digitalizzaizone del pubblico perché costitutivo di posizioni di rendita, per
l’altro ha scorto la possibilità di impadronirsi dello stato stesso,
alla stregua dei maestri di palazzo. Cominciando da apparentemente modesti incarichi governativi.
Un fenomeno che non riguarda solo il declino della dinastia Merovingia, ma riguarda la fase in cui un potere centrale incomincia a disgregarsi (forze centrifughe), quasi costringendo il maestro palazzo a fare appello all’unità (forze centripete). Maestro di palazzo che può essere un ministro, un generale, visir, shogun, avventuriero, plutocrate, e così via fino ai moderni imprenditori dell’high tech.
La cosiddetta tecnodestra, rappresentata, come spesso si legge, da Elon Musk (Tesla), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Dara Khosrowshahi (Uber), Sam Altman (OpenAi), Tim Cook (Apple), presente in forze alla cerimonia di insediamento di Trump, dopo aver finanziato la sua campagna elettorale, non è altro che la personificazione – in particolare Elon Musk – di un gruppo di aspiranti maestri di palazzo.
Un gruppo di tecnocrati, che ovviamente, poiché non siamo nella Francia dei Merovingi, giustificano la propria scalata al potere – se si vuole razionalizzano – evocando ideologie elitarie e parafasciste, dal momento che questo offre oggi il mercato estremista delle idee.
Ideologie particolarmente adatte all’uso perché privilegiano la decisione rapida rispetto alle lentezze procedurali del liberalismo. Per inciso, la decisione del governo Meloni di affidarsi per la sicurezza a digitale a Musk assume valore emblematico, a prescindere dal fatto che sia Musk o altro personaggio high tech ad assumere il compito.
Di conseguenza, per tornare allo scenario americano (ma il fenomeno ha natura metapolitica, universale), l’ evoluzione politica del maestro di palazzo è legata alle capacità di resistenza di Trump e di quella che potrebbe essere definita destra identitaria, reazionaria, che non ha un buon rapporto con la tecnologia e con l’economia.
Fermo restando che il conflitto di fondo è tra il decisionismo centripeto della tecnodestra e la titubanza centrifuga del liberalismo.
Sotto questo aspetto, per tornare agli Stati Uniti di Trump, l’isolazionismo, come teoria che però ammette l’allargamento dei confini vicini (Canada, Groenlandia, Panama), come misura per accrescere la sicurezza del paese contro ogni forza centrifuga, calza a pennello alla “tecno” perché concilia, quantomeno temporaneamente, la sua ricerca di rendite politiche con il nazionalismo centripeto della “destra” identitaria.
Insomma, per dirla in termini metapolitici, nulla di nuovo sotto il sole. Tranne, cosa che particolarmente duole, la crisi di un liberalismo che non sembra essere al passo con i tempi.
Siamo però sicuri che sia così? Che in realtà siano i tempi a non essere al passo con il liberalismo? Cioè che le regole procedurali, come salvaguardia delle libertà individuali, impongano tempi propri, quindi da preservare a prescindere dalla “velocizzazione” del mondo?
Carlo Gambescia