martedì 25 marzo 2025

Tradizione, metafisica, modernità, tra passioni e interessi


 



Desidero riproporre i commenti di Aldo La Fata e Carlo Pompei, già apparsi sulla mia pagina Fb in coda al post dedicato al rapporto fra modernità e trumpismo (*). Ovviamente segue la mia risposta. Buona lettura. 

Carlo Gambescia 

(*) Qui:  https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/03/il-trumpismo-e-la-modernita-sotto-tiro.html .

 

***

 


Carissimo Carlo, pur condividendo le tue preoccupazioni per il clima che, dopo l’elezione di Trump, si sta diffondendo in Occidente – dalla delegittimazione del pensiero liberale alla messa in discussione dello stato di diritto (eppure, va detto, alcuni giudici negli Stati Uniti stanno opponendosi ai licenziamenti di massa imposti da Musk) – temo che la tua chiave di lettura rimanga ancorata a una prospettiva esclusivamente politica e storicistica.

Così facendo, rischia di smarrire la vera radice del problema, che a mio avviso è innanzitutto di natura spirituale. La modernità non è soltanto un fenomeno sociopolitico, ma il trionfo della quantità sulla qualità, della frammentazione sulla sintesi, della dispersione sull’unità.

Stiamo assistendo al disfacimento di un mondo che, avendo reciso ogni legame con il Principio, è ormai avviato verso la propria dissoluzione. Tu vedi nel cosiddetto “Ur-Tradizionalismo” una minaccia feroce e distruttiva, ma la Tradizione (con la maiuscola) non è un semplice relitto del passato: è un ordine metafisico che trascende il tempo e la storia.

È vero, molte delle attuali forme di “ritorno alla tradizione” non sono altro che caricature, espressioni profane e deteriorate di qualcosa di infinitamente più profondo. Ed è qui che l’associazione con il fascismo diventa problematica: il fascismo è stato un fenomeno politico, una manifestazione storica contingente, priva di autentico legame con la Tradizione. Anzi, proprio come il Nazionalsocialismo, ne ha rappresentato una parodia secolarizzata.

Il conflitto che descrivi, dunque, non è una semplice guerra tra destra e sinistra, tra reazione e progresso. È piuttosto il segnale di una civiltà che sta giungendo alle sue fasi finali di dissoluzione.

La vera opposizione, perciò, non è tra “modernità” e “tradizione” in senso politico, ma tra ciò che conserva ancora un legame con il Principio e ciò che si è ormai interamente consegnato al caos.

Comprendo le tue inquietudini e le condivido, ma temo che la questione sia ben più grave di quanto possiamo esprimere, e che le nostre doglianze – per quanto fondate – non saranno sufficienti ad arginare questa deriva. Eppure, fare qualcosa o almeno tentare di farlo è un dovere al quale non possiamo sottrarci. In questo senso, plaudo alla tua denuncia e al tuo impegno.
Un abbraccio,
Aldo La Fata

***

 


Caro Carlo, “… La vera normalità è quella della Tradizione: un capo, una fede, una terra da difendere…”
In questo passaggio estrapolato e manipolabile del tuo scritto (come ha fatto la giornalista con Prodi) c’è il punto.
C’è un grosso cortocircuito mediatico e politico, perché gli equilibri sono stati scombinati da tempo, ma non così remoti.
Come ho sempre affermato, un conservatore diventa progressista quando un progressista diventa conservatore, ovvero quando qualcuno acquisisce posizione e potere a scapito di altri.
Insomma, poche ideologie, nessuna idea e molti Interessi.
Trump è il frutto di tutto ciò, ma ha interessi né più né meno dei suoi omologhi.
In pista si chiama controsterzo, se sbandi serve una manovra giusta e rapida.
Il problema, concordo con te, è il sovrasterzo trumpiano, ma confido nei riequilibri.
Non della ragione, ma degli interessi.
Anche il più spietato faraone aveva bisogno di schiavi vivi.
Più di questo, al momento, non possiamo fare.
Soprattutto avendo previsto in tempi non sospetti una degenerazione fisiologica del capitalismo che diventa repentina in momenti di crisi, essendo un sistema che si basa su crescita e decrescita esponenziale.
Un abbraccio,
Carlo Pompei

***


Carissimo Aldo La Fata, non è la prima volta che rilevi, ovviamente in modo rispettoso e amichevole, la natura “politica e storicistica” del mio approccio.

Se mi permetti parlerei di taglio metapolitico, nel senso in cui ho rifondato questa disciplina, tuttora oggetto di strumentalizzazioni, queste sì politiche, a destra come a sinistra.

Quanto allo storicismo, devo amichevolmente rimproverarti: sei fuori strada. Dal momento che non giustifico alcun particolare regime politico o storico (Hegel), né propongo teorie stadiali della storia (Comte e Marx, ad esempio). Le “regolarità metapolitiche”, da me individuate, sono semplicemente degli strumenti di indagine. 

Accorgimenti cognitivi, validi fino a prova contraria, per indagare i fenomeni politici e sociali. Lo studio dei  massimi sistemi preferisco lasciarlo a coloro che ne sanno più di me: filosofi e teologi. Non ne disconosco la necessità dalle due  angolazioni dello studio in quanto tale e della meravigliosa vastità dell'animo umano, che merita sempre di essere indagata.  Però preferisco tenere separati i due approcci.  Solo per  una questione di umiltà cognitiva.

Del resto sul rapporto fra metafisica e modernità, sei troppo intellettualmente onesto per non capire che parlo a ragion veduta, soprattutto dopo la stesura dei due volumi del Trattato di metapolitica, soprattutto la parte storica. Purtroppo, per te, non sono riuscito a individuare alcuna società metafisica in senso concreto.

Ho individuato, questo sì, alcuni principi regolatori, in termini di razionalizzazioni-giustificazioni, quasi sempre ex post, lontani però da qualsiasi realizzazione storica. Può esistere una tensione metafisica in alcuni filosofi, religiosi, re, imperatori e profeti. Di più: la stessa tensione può essere presente in alcune persone comuni. Però, ecco il punto, finora non è mai esistita una concreta società metafisica. Siamo tuttora sul piano dei desiderata.

Per contro sul rapporto fra tradizione e modernità ci si muove sul piano di concrete esperienze storiche. Diciamo pure che la tradizione è metafisica applicata. Di qui le imperfezioni sociologiche in base alla inevitabile distanza  dai desiderata metafisici.

Stesso discorso può essere rivolto  alla modernità liberale. Nessuno è perfetto. Anche l’idea regolativa di libertà, che è al centro della modernità, come quella di ordine è al centro della tradizione, può essere applicata male.

Con una differenza di fondo però: che la modernità, è ancora giovane, ha due, trecento, quattrocento anni, al più cinque-seicento (dipende dalle impostazioni storiche scelte), la tradizione ne ha di sicuro più di quattromila.

Pertanto il caos, al quale ti riferisci, può essere frutto di una crisi di crescita. Si deve avere pazienza. Il catastrofismo non aiuta, come ben sai, da attento lettore di Passeggiare tra le rovine.

Capisco però che quattromilacinquecento anni di ordine tradizionale, non sono passati invano. Siamo davanti a una specie di seconda natura, che può sempre rivelarsi – il fiume carsico di cui scrivo, l'Ur eccetera... – assumendo come già accaduto forme strumentali e pericolose. Delle quali si può discutere, ci mancherebbe altro, dal punto di vista della storia delle idee, su quanto si allontanino o tradiscano l’ “idea” metafisico-tradizionalista. Non però  dall'angolazione  metapolitica come qui definita.

Ci salverà l’Olimpo metafisico? La metafisica si tradurrà in perfetta tradizione applicata? Non credo. Però credo che ciò che chiamo normalità liberale (mercato, stato di diritto, parlamentarismo, welfare) sia, almeno per ora, l’unica possibilità che abbiamo. Non difendo alcun regime politico, il problema, come scrivo, va al di là della dicotomia destra-sinistra. Si dà il caso (storico), piaccia o meno, che modernità e liberalismo coincidano, così come tradizione e ordine.

Inoltre, la modernità non è l’ultimo stadio dell’umanità, né il prodotto di un qualche tribunale hegeliano della storia. Mi piace invece definirla un esperimento. Tra l’altro ancora agli inizi. Tutto qui.
Ricambio di cuore l’abbraccio.
Carlo Gambescia

***


Carissimo Carlo Pompei, concordo anch’io con la tua analisi.

Resta solo un problema. Quale? Quello della durata di questi processi. Che dipendono da vincoli non legati agli interessi ma alle passioni: orgoglio, risentimento, fiducia, fede in un’idea, in una religione ad esempio. Magari esistesse l’uomo economico, perfettamente capace di badare solo ai suoi interessi. Il mondo funzionerebbe come un orologio. E invece le passioni incidono, quanto meno temporalmente.

Mi spiego: ammesso e non concesso che vincano sempre gli interessi, esiste un problema di definizione dei tempi processuali, problema legato al vincolo delle passioni, che rinviano ai valori. Di qui tempi che possono essere lunghi, medi, brevi perché la dinamica sociale include il conflitto tra passioni e interessi, E qui ti rinvio al famoso libro di A.O. Hirschman in argomento (Le passioni e gli interessi, Feltrinelli).

Cosa che però si scopre solo dopo che il processo storico si è concluso. E che fa dire ad alcuni storici, impropriamente, che vincono sempre gli interessi.

Sì, ma quando? Intanto però eccetera, eccetera…
Grande abbraccio,
Carlo Gambescia 

 ***

Seguono  le controrepliche di  Carlo Pompei e Aldo La Fata.

 

 


Caro Carlo , il dibattito è assolutamente vivo e funzionale per chi dovesse aver travisato sia il tuo post, sia i commenti miei e di Aldo La Fata che purtroppo conosco soltanto virtualmente e per tuo tramite.

Serve un caffè letterario…

Cerimonie d’obbligo a parte, tengo a precisare, sempre a beneficio dei tuoi lettori, che il mio intervento mirava ad evidenziare l’ossimoro trumpiano: una spavalda pavidità, simbolo comunque di decadenza.

Altrettanto ovviamente anche io auspico tempi brevi per gli effetti degli interessi “condivisi”, anche se per mia natura ed esperienza non sono ottimista a 360°.

Un abbraccio, grazie per tutto.

Carlo Pompei

 ***

 


Carissimo Carlo, ti ringrazio per la tua puntuale, lucida e franca risposta. 

Permettimi però alcune osservazioni. Intanto, la distinzione che operi tra un approccio “politico e storicistico” e un presunto taglio “metapolitico” solleva alcune riserve.                                                  

Io affermo che il primato della metafisica è assoluto e che ogni prospettiva che non parta da essa è inevitabilmente relativa, e quindi limitata. Anche un approccio metapolitico che si limiti a osservare regolarità senza riconoscere l’ordine trascendente rischia infatti di rimanere nell’ambito delle contingenze storiche. Su questo ci siamo confrontati più volte, quindi non starò a ripetermi. 

Quando affermi di non aver individuato alcuna civiltà metafisica in senso concreto, è evidente che la tua prospettiva è condizionata da criteri storici e fenomenologici. Tuttavia, nella visione tradizionale, la civiltà metafisica non è un dato empirico ma un ordine originario, un modello trascendente che informa le civiltà tradizionali. La società vedica, l’antico Egitto, la civiltà islamica nei suoi periodi più alti, la cristianità medievale: tutte queste forme hanno manifestato, in gradi diversi, un principio metafisico superiore, pur con tutte le inevitabili limitazioni imposte dalla condizione umana che sappiamo. E qui non si tratta di idealizzare il passato, ma di riconoscere che ci troviamo in una fase discendente, come a mio giudizio ben espresso dalla dottrina tradizionale delle quattro Età.                                                                                                                        

Tu dici che la tradizione è “metafisica applicata” e che, essendo stata storicamente imperfetta, si muove sullo stesso piano della modernità, che consideri un “esperimento ancora agli inizi”. Ma la tradizione non è semplicemente una costruzione umana: è la trasmissione di un principio perenne che precede e trascende la storia.                                                

La modernità, al contrario, rappresenta una frattura, una deviazione rispetto all’ordine tradizionale. Non si può ridurre la crisi moderna a un “processo di crescita”: essa è piuttosto un fenomeno di dissoluzione, il cui esito naturale è il caos.                                                          

In questo senso mi piacerebbe che tu avessi ragione, ma temo che le cose stiano esattamente come dico. 

Circa il fatto che la normalità liberale – con il suo mercato, stato di diritto e parlamentarismo – sia l’unica possibilità che abbiamo, dissento perché invece temo che siano i frutti di una progressiva materializzazione e desacralizzazione del mondo. 

La società attuale, infatti, non è un semplice esperimento contingente, bensì il riflesso di una perdita della centralità del Principio. E qui non si tratta di opporre una tradizione statica alla modernità in divenire, ma di riconoscere che l’ordine autentico non nasce dal compromesso con le forze dissolventi, bensì dallo sforzo di ricongiungere la civiltà umana a principi spirituali e trascendenti.                                                                                               

Per ultimo dirò che considerare la modernità come un “esperimento” implica che vi sia una teleologia aperta, una possibilità di evoluzione indefinita. Ma la concezione ciclica del tempo che, ripeto, a me sembra la più idonea a spiegare la realtà, insegna che la modernità non è un processo lineare, bensì l’ultima fase di un ciclo in declino. Pensare quindi che il caos odierno possa risolversi con una semplice maturazione, purtroppo temo sia un’illusione.                                        

Solo una connessione con il trascendente, può ricostituire una vera normalità.                                                                                                            

Spero però di non aver dato l’impressione che mentre tu dici “ripariamo il tetto della casa prima che crolli”, io stia sostenendo che è inutile preoccuparsene perché tanto inevitabilmente finirà col crollare qualunque cosa noi si intenti per evitarlo. No, io non dico questo. Io dico che è necessario intervenire (e in questo sono totalmente d’accordo con te), ma che solo rettificando i nostri comportamenti e orientandoli verso Dio e il trascendente, potremo garantire anche per il futuro che quel tetto venga tenuto in sicurezza. 

Perché è solo educando l’uomo a essere migliore di quel che è che potremo portarlo verso un maggiore senso di responsabilità e di attenzione per tutto ciò che esiste, manutenzione costante del tetto compresa. È così che si interrompe e si spezza il cerchio e la ciclicità e si riprende in mano il proprio destino. 

Ti ringrazio di cuore per lo scambio e spero di aver chiarito il mio punto di vista. 

Un grande abbraccio, 

Aldo La Fata

*** 

Per non concludere

 


Carissimi Aldo e Carlo,  vi  ringrazio per il tempo che mi avete dedicato.

Mentre con Carlo registro minori differenze  di pensiero, con Aldo  la distanza sembra notevole.  Ne prendo atto.  

Del resto, non si offenda l’amico  Aldo, che conosce molto bene la  stima che nutro nei suoi riguardi,   come confutare  un enunciato non verificabile, se non  condividendo l’assiomatizzazione sul primato della metafisica?

Mi si può rispondere che la  stessa critica  può essere rivolta all’assiomatizzazione, semplifico, della “fisica” della modernità. Concordo.  

Qual è  allora il vero punto della questione?  Che mentre io accetto il rifiuto dell’assiomatizzazione,  o comunque la pluralizzo riconducendola all’interno dei differenti sistemi di pensiero, l’amico Aldo si riserva una specie di prelazione di assiomaticità.

Mi si può rispondere che  anche  i moderni, i “fisici” (vs i metafisici),  non respingono  prelazioni sulla modernità.  Verissimo. Però non è il mio caso  e di altri pensatori pluralisti.  E in  ogni modo l’imperialismo cognitivo, resta tale, a prescindere  dall’uso che possono farne metafisici e fisici.

Diciamo pure che l’assiomatizzazione, come forma di prelazione “imperiale”,  può essere rovinosa sotto il profilo sociale.  

E se la  ordinasse   dio in persona?  Il dio dei metafisici o dei “fisici”? Risponderei,  che per obbedire   si dovrebbe credere nell’esistenza di dio. 

Un grande abbraccio,

Carlo