Scriviamo un articolo inutile. Lo sappiamo prima ancora di cominciare: inutile come spiegare la differenza tra liberalismo e liberismo a chi pensa che siano scritte su striscioni da stadio; inutile come evocare Margaret Thatcher in un Paese che la confonde con la Regina Elisabetta; inutile come ricordare che certi premi non consacrano, ma autocertificano. Eppure lo scriviamo lo stesso, perché c’è un livello di inutilità che diventa necessario: quello in cui, quando nessuno dice le cose ovvie, queste diventano improvvisamente profonde.
Il “Margaret Thatcher Awards” (“Premio Margaret Thatcher”) non è il Nobel della politica. Giorgia Meloni è stata premiata alla sua prima edizione (quindi si rifletta anche sulle improvvise ragioni di istituire un premio del genere…). Parliamo perciò di un evento ad hoc organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei (Ecr).
Cioè citiamo la stessa famiglia politica — Ecr — alla quale appartiene Fratelli d’Italia. Un premio di casa, dunque: legittimo, certo, ma più simile alla targhetta di una convention di partito che a un riconoscimento internazionale.
Nel riceverlo, Meloni ha rivendicato il suo essere una “conservatrice” e — soprattutto — di trovarsi “dalla parte giusta della storia”. Formula impeccabile per Instagram. Peccato che sia l’opposto del linguaggio e della mentalità di Margaret Thatcher. La “Iron Lady” non dichiarava mai di essere dalla parte giusta della storia: non per modestia, ma perché non concepiva la politica come un pellegrinaggio nel senso unico del destino. Per lei la storia non era un’onda da cavalcare ma un muro da sfondare. La sua filosofia era ferma e lineare: “Se non le faccio io, certe riforme non le farà nessuno”. Niente missioni morali, niente investiture provvidenziali.
Ed è proprio qui che emerge un’altra verità che molti preferiscono evitare: Giorgia Meloni e Margaret Thatcher non potrebbero essere più diverse, non solo politicamente ma nelle biografie, nella formazione, nella cultura originaria.
La Thatcher veniva da una famiglia ordinaria, figlia di un droghiere metodista, educata nella disciplina del dovere protestante, laureata a Oxford, con un impianto culturale costruito fra liberalismo classico e tenacia personale.
La Meloni arriva invece da un percorso completamente diverso: una cultura politica nata nel Movimento Sociale Italiano, la tradizione post-fascista che in Europa era ai margini; una formazione scolastica più fragile, interrottasi dopo il diploma tecnico; una biografia familiare complicata e poco lineare, dove la stabilità non era un dato ma una conquista.
La Thatcher aveva un marito e una vita familiare molto tradizionale; Meloni ha una figlia ma non un marito: tutto modernissimo, per carità, ma sideralmente lontano dal modello conservatore britannico del tardo Novecento che oggi qualcuno si ostina a evocare. Come del resto la stessa Meloni che dichiara di riconoscersi nel “Dio, patria e famiglia”.
In teoria. Perché poi di fatto non è si è mai particolarmente distinta nella pratica religiosa visibile o regolare: qualche celebrazione ufficiale, certo, com’è normale per un premier, ma nulla che rimandi a un cattolicesimo militante o di pubblico esempio. Per dirla alla buona, chi l' ha vista andare a messa ogni domenica? I paparazzi mai avrebbero perso un’occasione del genere. Di conseguenza, il contrasto con la retorica identitaria resta lì, evidente come un soprammobile fuori posto o una grossa macchia sulla tappezzeria dell’auto nuova.
Non sono sfumature da gossip: sono ciò che plasma due modi diversi di stare nella politica.
La Thatcher nasce nell’etica protestante del dovere e della competizione. Meloni dentro un mondo politico identitario, che per decenni è stato ai margini e che solo negli ultimi trent’anni ha tentato una blanda normalizzazione. Che le politiche migratorie, dell’ordine pubblico, dell’economia, solo per citare tre settori importanti, smentiscono.
La Thatcher costruisce la propria leadership attraverso studio e determinazione; Meloni attraverso militanza, appartenenza e una buona capacità comunicativa. La Thatcher condanna il fascismo senza possibilità di appello. Per la Meloni, Mussolini fece “anche” cose buone. Se la Meloni si dichiara conservatrice lo è in chiave occasionalista. Come lo erano i gerarchi che il 25 luglio votarono contro il duce, nemici del liberal-democrazia.
Se la destra, questa destra, evolverà verso una destra “normale” di tipo occidentale – cosa a nostro avviso molto difficile – sarà per un effetto non intenzionale delle azioni politiche e non per merito della Meloni. Solo ieri, ad esempio, discutevamo dell’atteggiamento revanchista di Fratelli d’Italia – e dei conseguenti silenzi meloniani – a proposito del vecchio cavallo di battaglia fascista sull’ “oro del popolo” (*). Per dirla alla buona, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Quindi – e ci rivolgiamo ai pochi intellettuali ancora vigili – mai proiettare i propri desideri sull’oggetto sbagliato.
Due storie che non si sfiorano nemmeno per sbaglio, se non nella fantasia dei comunicatori. E tuttavia, la macchina retorica della destra europea, soprattutto quella italiana dalle radici neofasciste, macina somiglianze anche quando non esistono, magari in cerca di titoli di nobiltà politica.
E il punto è che, se proprio vogliamo giocare ai paragoni, i poco più di tre anni di governo parlano da soli: Thatcher si ritrovò a vincere una guerra (le Falklands) e a imprimere una svolta economica che cambiò il Regno Unito; Meloni, per ora, cincischia tra Ue e Stati Uniti, e di vittoria può rivendicare il riconoscimento Unesco della cucina italiana. Due bilanci che non appartengono nemmeno alla stessa categoria analitica.
Ed ecco allora il teatrino del premio, che funziona perfettamente per un pubblico di aficionados politici e per la gente comune, che, come detto, non sa nulla di nulla. Giorgia Meloni diventa “l’erede” di questa o quella tradizione conservatrice, e a pochi interessa verificare se le due figure siano davvero comparabili. E se, come detto, il pubblico a cui ci si rivolge non conosce la Thatcher, tanto meglio: la metafora scivola morbida.
E noi? Noi scriviamo lo stesso, proprio perché sembra inutile. Per ricordare che la storia non è una scenografia, e che i paragoni non sono confronti tra figurine Panini. La Thatcher era la Thatcher, la Meloni la Meloni. E distinguere le due — anche quando sembra superfluo — è uno dei pochi atti di igiene intellettuale che vale ancora la pena di compiere.
Carlo Gambescia








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