giovedì 4 dicembre 2025

Liberalismo senza illusioni

 




Ieri, nel mezzo del minaccioso silenzio dei fascisti chiamati in causa (*), ho letto con piacere questo commento privato, che l’amico Aldo La Fata, eccellente studioso, mi ha fatto pervenire. Commento che con il suo permesso propongo agli amici lettori. Al quale seguono la mia risposta, la replica di Aldo, la mia controreplica, e le sue conclusioni (C.G.)

(*) Qui:  https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/12/legalita-si-legittimita-no-passaggio-al.html 


 


Caro Carlo,

Ho letto con grande attenzione il tuo intervento sul caso Passaggio al Bosco e, come sempre, ho apprezzato la lucidità con cui riesci a mettere a fuoco il nodo della destra italiana e la sua evidente deriva regressiva. Tuttavia, da amico e da lettore partecipe, permettimi qualche osservazione.

La prima domanda che mi viene spontanea è come sia stato possibile che quella apertura liberale di cui tu stesso, insieme a pochi altri, fosti tra i protagonisti, si sia dissolta nel nulla. Tu parli di “regressione”, ma sarebbe interessante chiarire di che tipo di regressione si tratti. Culturale, etica o addirittura antropologica?

Sul piano dell’analisi, la parte più solida e documentata del tuo testo è certamente quella dedicata al catalogo della casa editrice incriminata e tuttavia varrebbe forse la pena ampliare lo sguardo e far notare che non c’è solo Passaggio al Bosco, ma che esistono, in altri ambiti e anche a sinistra, fenomeni analoghi di costruzione ideologica non meno perniciosi e mi permetto di dire persino più pericolosi (potrei farti degli esempi, ma tu li conosci senz’altro).

Quanto al richiamo e alla distinzione tra legalità e legittimità, l’appello a Carl Schmitt rischia di rovesciarsi contro la tua stessa tesi. Come sai, per Schmitt la legittimità ha un significato decisionista e anti-liberale; citarlo in questo contesto potrebbe generare un effetto paradossale. Io direi che la legalità formale non basta a fondare la legittimità morale e culturale di un atto pubblico.

Anche il passaggio sulla libertà d’espressione, per quanto cruciale mi sembra scivoloso. Tu affermi che “non è in gioco la libertà di espressione”, ma proponi implicitamente di escludere un editore dalla fiera. Il rischio, lo sai, è che qualcuno interpreti questa posizione come una forma di censura morale.

Infine, denunci con forza e chiarezza la “normalizzazione legale del fascismo”, ma il discorso resta aperto sulla via d’uscita. Quale risposta proporresti? L’educazione storica? La responsabilità culturale? Una rinnovata memoria critica condivisa?

Un abbraccio fraterno,

Aldo

 



Caro Aldo,

Perché l’apertura liberale si dissolse nel nulla? Per la semplice ragione che certi habitus politici, radicali, non cambiano mai: il lupo può nascondersi sotto la pelle di agnello, ma lupo resta. Fui io a illudermi. Ovviamente, e in particolare Giorgia Meloni, politicamente molto più intelligente di Fini, oggi si muove bene e in una situazione favorevole in cui gli italiani – come prova l’altissimo tasso di astensionismo – sono tornati, come accaduto per secoli, a non occuparsi di politica, se vuoi, a vivere nel limbo del familismo.

Sotto questo aspetto la “regressione” politica è un recupero pieno del progetto antimoderno (nel senso del patriarcalismo politico di Filmer, a suo tempo ben contrastato da Locke), che va a coincidere con l’indifferenza della gente comune per coloro che la governano. Come ho appena detto: “Franza o Spagna, purché se magni”? Un dato sociologico, non un giudizio morale. Per l’uomo della strada, come del resto mostrano i sondaggi, Mussolini e De Gasperi pari sono.

Per contro, da Meloni all’ultimo estremista si sa bene ciò che si vuole: magari ci si differenzia su tempi e modi, ma il disprezzo verso la liberal-democrazia accomuna. Come unisce la volontà di approfittare di tutti i mezzi legali che offre la democrazia per sovvertirla.

Di qui l’importanza della distinzione tra legalità e legittimità avanzata da Carl Schmitt. Per capirsi: iscriversi a una fiera del libro è perfettamente legale, ma illegittimo dal punto di vista dei valori liberali, perché si propagandano idee e libri antiliberali e antidemocratici. 

E ciò accade nel preciso momento  in cui al governo ci sono politici che,  sebbene tacciano, condividono gli stessi valori nemici della libertà. E del resto Passaggio al Bosco non ha ottenuto il suo bravo stand in fiera? Secondo l' ordine di iscrizione...  Ma di quale censura si blatera?  Caro Aldo  ti chiedo scusa per la volgarità:  ma a  Napoli si dice "Chiagni e fotti".  

Il liberalismo deve farsi decisionista, ma un decisionismo diverso da quello illiberale: orientato alla difesa dell’ordine aperto, non alla sua sospensione arbitraria. Decisionismo e liberalismo possono convivere. Come prova il grande sforzo militare, accompagnato da modi spicci, per così dire, che portò alla sconfitta del nazifascismo.

Serve un liberalismo schmittiano. Aron, Freund, e altri realisti liberali – liberali tristi – se non tutti lettori di Schmitt, erano consapevoli del fatto che “a brigante si risponde con brigante e mezzo”. Ai nemici della liberal-democrazia non deve essere concesso spazio. Morte per consunzione o per spada. Non è questione morale ma di sopravvivenza.

Quindi vi sarebbe una base teorica e storica, diciamo pure metapolitica. Mancano però gli uomini politici capaci di rivendicare il decisionismo, a cominciare da quei liberali che persistono nel non distinguere tra legalità e legittimità. Un disastro.

Del resto, quanto al “popolo”, altra nota a sfavore della libertà, a chi vuoi importi, come dicevo, nell’Italia del “Franza o Spagna”, che al governo ci siano i nemici della libertà? Ripeto: basta che “se magni”.

Mi chiedi infine di una via d’uscita? Credo di aver risposto. Purtroppo il ciclo politico liberale, durato ottant’anni, sembra  essere  al termine. Quindi non scorgo al momento alcun lieto fine. Probabilmente ci rialzeremo solo dopo aver toccato il fondo. È anche vero che la storia ogni tanto conosce risvegli improvvisi. Però resto pessimista.

Un’ultima cosa. Non nego, come tu dici, “che esistono a sinistra fenomeni analoghi di costruzione ideologica non meno perniciosi e persino più pericolosi”, però il problema è che l’Italia ha il privilegio, per così dire, di aver inventato il fascismo, e che questo, a differenza degli utopisti comunisti e anarchici, è rimasto al potere per venti anni. Il che fa la differenza.

Ricambio l’abbraccio fraterno.

Carlo

 

 


Caro Carlo,

Ti ringrazio per la tua risposta puntuale, lucida, appassionata e come sempre coerente nella prospettiva liberale che rappresenti. La crisi italiana e più in generale occidentale purtroppo non è solo politica ma antropologica ed è segnata da una perdita importante di tensione etica e civile. Siamo, come scriveva Vico, nel punto basso del ricorso. Ma anche dal fondo possono rinascere i corsi. Io me lo auguro sinceramente, pur condividendo, in ultima analisi, il tuo pessimismo. Capisco poi molto bene il tono della tua risposta all’amico Carlo Pompei, e, credimi, comprendo anche la stanchezza che traspare tra le righe. Il tuo “decisionismo liberale” nasce da un’esperienza diretta di battaglie culturali che pochi hanno combattuto con altrettanta continuità, lucidità e coerenza. Continuità, lucidità e coerenza che, puoi credermi, ammiro molto e che considero un esempio di vita, un magistero autentico. Il punto, per me, resta solo la misura dell’azione. Fin dove può spingersi un liberalismo militante senza smettere d’essere se stesso? Un grandissimo abbraccio!

Aldo

 



Caro Aldo,

Grazie per la lucida e altrettanto appassionata risposta (che con questo mio commento, trasporrò sul blog, sempre se sarai d’accordo). E ovviamente delle belle parole, che non merito. Hai colto il punto essenziale della mia analisi, e con l’umiltà cognitiva, che ti distingue: “Fin dove può spingersi un liberalismo militante senza smettere d’essere se stesso?” Ti rispondo subito – in fondo non ti rispondo però… Dove può spingersi? Lo deciderà la storia. La risposta rinvia alla logica del successo: se il liberalismo riuscirà a sconfiggere i nemici e conservare la libertà: sarà sempre se stesso, ma vittorioso. Se invece – come sosteneva Maritain – all’epoca la sfida era quella nazista – in polemica con Aron (che difendeva la logica del brigante e mezzo, vedi il IIII capitolo dell’Aron di Molina), finirà per assomigliare al suo avversario, allora la sfida della libertà, pur nella vittoria, sarà persa. Caro Aldo non ci sono risposte definitive. Come ti ho detto, la mia è una risposta non risposta. Grazie ancora del prezioso scambio di opinioni. 

Carlo

 



Caro Carlo, 

Grazie a te per la consueta chiarezza e per la generosità intellettuale con cui sai sempre trasformare un confronto in dialogo autentico. Hai perfettamente ragione, sarà la storia con la sua dura logica del successo e della sconfitta a decidere fin dove potrà spingersi il liberalismo senza tradire se stesso. E’ in fondo proprio questo il rischio della libertà. Con piacere per la pubblicazione sul blog, e ancora grazie per lo scambio.

Aldo

mercoledì 3 dicembre 2025

Legalità sì, legittimità no: Passaggio al Bosco, la fiera del libro di Roma e la normalizzazione neofascista

 


Chi scrive conosce bene l’editoria di destra, ha collaborato con la casa editrice Settimo Sigillo, fondata e diretta da Enzo Cipriano, che mi lasciò la più ampia libertà di azione. Pubblicai autori liberali, ma anche critici del liberalismo. In ogni caso, tutti pensatori di altissimo livello scientifico e accademico.

Il progetto era quello di un’apertura progressiva verso una destra liberale, non economicista, europeista non in senso nazionalista, aperta al mondo, come diceva Giano Accame, probabilmente una delle menti più illuminate di quella destra in progress. Una destra non neofascista, capace di parlare a tutti, senza imporre visioni preconcette.

Contribuì ad alimentare “quelle” illusioni (con l’ottica di oggi, purtroppo) il tentativo politico di Gianfranco Fini, che sembrava muoversi verso una visione liberale e progressiva, soprattutto sui diritti civili e politici e di apertura verso i migranti.





Inoltre apprezzavo di Enzo Cipriano, oltre che l’amicizia, anche quella della sua famiglia, il pragmatismo e l’apertura mentale. Era Settimo Sigillo una casa editrice identitaria? Forse. Però c’era uno sforzo evidente, come detto, di parlare al mondo. Di sposare la causa di una retorica della transigenza. Di accettare la legittimità liberale.

Ormai, da questa mia esperienza — consegnata in un libro a quattro mani scritto con Nicola Vacca — sono passati quasi vent’anni (*). La ricordo con piacere, nulla di più, nulla di meno. E devo dire che su “quel” mondo ho imparato tanto, nel bene come nel male.

“Regressione”

Però quante cose sono cambiate in questo lungo periodo. Si potrebbe usare un termine di sintesi: regressione. Dal momento che la destra allora in movimento verso il liberalismo è praticamente tornata alle origini.



Oggi, al di là dei silenzi strategici di Giorgia Meloni (tra l’altro definita fin troppo moderata dai suoi “correligionari”), si rivendica con durezza l’appartenenza a una linea ideologica che affonda le radici nel fascismo e che, risalendo, "per li rami" abbraccia il nazionalsocialismo. Cosa evidentissima. Come prova, ad esempio, la produzione editoriale di Passaggio al Bosco, la cui “ragione sociale” rinvia fin da subito al titolo di un volume di Ernst Jünger, cavallo di battaglia cartaceo del romanticismo fascista: lui che, prima di atteggiarsi a padre nobile della cultura tedesca, civettò con il nazionalsocialismo, dopo aver deificato, sulla scia della cosiddetta rivoluzione conservatrice, le “tempeste d’acciaio” della Grande Guerra.

La petizione

Proprio in questi giorni la partecipazione della casa editrice Passaggio al Bosco alla fiera romana Più Libri Più Liberi ha scatenato un acceso dibattito. Si dirà: soliti isterismi di una sinistra che non vuole rassegnarsi alla sconfitta politica e ideologica… Oppure solito bisticcio da social…

 

 


In realtà, considerata l’evoluzione del quadro politico e culturale, non solo italiano ma mondiale, verso una destra dura e pura, sembra essere in gioco qualcosa di più del semplice scontro sulla responsabilità culturale delle istituzioni nell’offrire spazio — in una fiera pubblica e finanziata con soldi pubblici — a un soggetto editoriale che opera con una linea dichiaratamente identitaria, militante e, nelle parole dei suoi critici, apertamente neofascista se non addirittura nazionalsocialista.

Il caso è scoppiato ieri, quando oltre ottanta autori — tra cui Alessandro Barbero, Zerocalcare, Gad Lerner, Paolo Foa e non poche case editrici — hanno firmato un appello pubblico: la richiesta è semplice e secca, escludere Passaggio al Bosco dalla fiera (**).



Le accuse sono pesanti: il catalogo dell’editore, si legge, “si basa in larga parte sull’esaltazione di figure fondanti del pantheon nazifascista e antisemita”. Una denuncia che sembra fotografare una percezione abbastanza diffusa: quella casa editrice non è semplicemente di destra, ma pare costruita per alimentare immaginari, autori e riferimenti della destra radicale europea.

Cosa c’è di vero

La sinistra (semplifichiamo) non ha torto. Anzi diciamo pure che basta sfogliare il catalogo per capire che non si tratta di un’interpretazione malevola.
Qualche esempio, tra i più eclatanti:

La dottrina del Fascismo: un compendio delle teorie di Mussolini e Gentile pubblicato non per ragioni storiografiche, ma come testo “fondativo”.
Risorgere e combattere, un’apologetica raccolta di discorsi del Mussolini degli anni di Salò, unitamente al suo testamento politico.
–  Léon Degrelle, tradotto e riproposto più volte: non uno qualunque, ma un volontario delle Waffen-SS.
–  Junio Valerio Borghese e la Decima Mas, basta il nome.
–   Corneliu Zelea Codreanu, padre della Guardia di Ferro romena.
– Pubblicazioni sulle Brigate Nere, presentate come “eroica resistenza”.

Seguono, tra gli altri, sempre in chiave “soldati politici”: Alessandro Pavolini, Dominique Venner, Nasser, Francis Parker Yockey, Henry de Montherlant, Oswald Mosley. Non mancano neppure “classici” come Ezra Pound, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Gentile, nonché modernariato di alto livello come Alain de Benoist e Guillame Faye. Va anche detto che in catalogo troviamo Giano Accame, con il suo Ezra Pound economista, all'epoca pubblicato dalla casa editrice Settimo Sigillo. E probabilmente ripreso da Passaggio al Bosco, più per il titolo, intriso di romanticismo fascista, che per la  sua lettura non apologetica di Pound.  Un "mezza fregatura" per i suoi affezionati lettori (***).



Non si tratta di materiali critici o analisi accademiche: sono proposti come testi di ispirazione, parte di una concezione del mondo identitaria da cui attingere valori e miti.

Autodefinizione

Nella pagina “Chi siamo”, Passaggio al Bosco si descrive come progetto “libero e militante”, in lotta contro il “pensiero unico”, “officina del dissenso”, “cantiere permanente delle idee non allineate”. È un linguaggio tipico dell’ambiente neofascista contemporaneo: identità, tradizione, comunità organica, spiritualità guerriera, anti-modernità, anti-liberalismo. La collana “Identitas” non lascia spazio a dubbi.

Qui non siamo di fronte a un editore “coraggioso” o “contro-corrente”, ma a una piattaforma culturale orientata, che lavora per costruire un immaginario politico preciso, e lo fa, va riconosciuto, con coerenza militante.

Legalità e legittimità

L’Associazione Italiana Editori ha risposto che a Più Libri Più Liberi si accede “non per linea editoriale, ma per ordine di prenotazione e rispetto delle leggi”.



E, va detto, la posizione è comprensibile nella sua logica formale: una fiera pubblica non può trasformarsi in un tribunale ideologico né pretendere di esercitare una censura preventiva. Se un editore paga lo stand e non viola il codice penale, il suo ingresso è garantito. È un punto che va riconosciuto.

Ma la concessione si ferma qui. Perché legalità e legittimità non viaggiano sullo stesso binario. Ciò che è ammesso dalla legge non è automaticamente compatibile con l’etica di una società liberale. Mussolini e Hitler — si ripete spesso — furono votati. Ed è vero. Ma concorrere e vincere le elezioni per abolirle non significa condividere una visione liberale della politica.

Per capire la gravità della situazione si deve ricorrere alla distinzione tra legalità e legittimità, sviluppata da Carl Schmitt (che non fu sicuramente un pensatore di sinistra, ma che curiosamente non è in catalogo…). Trasponendola dal piano costituzionale a quello culturale.

Ci spieghiamo subito: la legittimità dell’impatto culturale non si misura solo in termini di rispetto dei regolamenti elettorali o del codice penale, o — come in questo caso — dei regolamenti di iscrizione alle fiere. Mai confondere la legittimità con la legalità. La presa del potere dei fascismi fu per certi aspetti legale, ma non legittima, dal punto di vista della qualità liberal-democratica del discorso pubblico.

E permettere la presenza di un editore che pubblica Degrelle e Codreanu non è una scelta neutra: può essere legale, ma non è culturalmente legittima.

Il vero problema

Qui non è in gioco la libertà di espressione,  che ovviamente nessuno nega.

La questione è un’altra e rinvia a un problema vitale e preciso: se una società aperta può dare legittimità e visibilità culturale a un progetto politico nostalgico del fascismo se non addirittura del nazionalsocialismo. Sotto questo ultimo aspetto,  nel catalogo, nella parte riservata ai gadget  ( italianizzati  in "manufatti", non sia mai, "O Perfida Albione..."), disvela un lato paganeggiante da "Ultima Thule" ariosofica  di  impronta nazionalsocialista  (****).



Quando l’editore si presenta come “militante”, quando pubblica gli ideologi della destra radicale europea, quando costruisce un pantheon fatto di SS, caudillos e brigate nere, è difficile fingere che la linea sia sfumata.

Non è un “editore scomodo”: è un editore che propone una cultura illiberale, che normalizza una tradizione politica dichiaratamente anti-democratica. Senza se, senza ma.

Conclusioni

Nonostante ciò, Passaggio al Bosco partecipa alla fiera romana. In nome, attenzione, perché il punto è fondamentale, della legalità liberale, non della legittimità liberale.

Insomma, a ottant’anni dal 1945,  a più di cento dal 1922, in Italia non si è riusciti a tracciare una linea culturale chiara tra legalità e legittimità, tra dissenso legittimo e propaganda,  legale, organizzata, ma identitaria e di marca nazifascista.

 


Il fascismo non torna con le camicie nere: torna grazie a una normalizzazione legale di simboli e narrazioni. E anche le fiere del libro, nel loro piccolo, possono contribuire.

In definitiva, il punto è semplice: continuare a far finta che certi fenomeni siano folklore significa regalare terreno a chi lavora nell’ombra per normalizzare ciò che non deve tornare normale. Se non chiamiamo le cose col loro nome, poi non stupiamoci se altri lo faranno al posto nostro. E a loro vantaggio.

Carlo Gambescia

(*) Carlo Gambescia e Nicola Vacca, A destra per caso. Conversazioni su un viaggio, Edizioni Il Foglio, 2009. Ma si veda anche Carlo Gambescia, Retorica della transigenza. Giano Accame attraverso i suoi libri, Edizioni Il Foglio, 2018.

(**) Qui: https://tg24.sky.it/cronaca/2025/12/02/fiera-piu-libri-piu-liberi-roma-editori-fascisti .

(***) Qui il catalogo: https://www.passaggioalbosco.it/ .

(****)  Qui:  https://www.passaggioalbosco.it/catalogo/?yith_wcan=1&product_cat=manufatti  .

martedì 2 dicembre 2025

L’ammiraglio Cavo Dragone e il rischio della politica in uniforme

 


Dal punto di vista strategico-militare l’idea di un attacco preventivo è un’idea come un’altra, nel senso che appartiene al ventaglio delle possibili  azioni contro il nemico.

Pertanto che un generale parli della possibilità di un attacco preventivo alla Russia è dal punto di vista militare cosa perfettamente normale. Fermo però restando tutto il valore della nota regola Clemenceau: la guerra è cosa troppo seria per lasciarla fare solo ai generali.

Pertanto senza una decisione politica, l’ammiraglio Cavo Dragone, presidente del comitato militare Nato, autore dell’esternazione, deve limitarsi a formulare ipotesi di scuola.

Ripetiamo: la regola delle democrazie liberali è quella di diffidare dei militari, a differenza delle dittature che invece vanno a braccetto con gli eserciti e che spesso hanno origine militare, soprattutto dove non esiste una società civile solida e indipendente, come in Russia, Cina, Corea del Nord, Cuba, Venezuela.

Di conseguenza quando i militari cominciano ad avere troppa voce in capitolo le cose possono diventare serie e pericolose. Perciò quel che non torna è la militarizzazione della politica.





Si pensi a un Vannacci e a molti altri militari che scalpitano. Il militarismo in politica è pura scienza dell’organizzazione, applicata alla politica: nel senso del lasciateci fare, ci pensiamo noi, ordine e disciplina per tutti. Insomma, l’ennesima riedizione del mito di Sparta, la realizzazione di una società-caserma. Con la differenza che gli spartani erano militaristi senza saperlo. L’ideologia del militare tuttofare risale alla Rivoluzione francese, in particolare all’avventura napoleonica. 

In realtà, dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, è mancata soprattutto la politica, che in Occidente, soprattutto in Europa, si è presentata divisa e indecisa. Di qui, poiché il potere non ammette il vuoto, il largo spazio lasciato ai militari, quanto meno di intervenire con dichiarazioni, solo apparentemente tecniche, in favore di un fronte o dell’altro.

Qualche esempio in senso contrario alle dichiarazioni di Cavo Dragone?  In Francia, l’ex capo dell’esercito Bertrand de la Chesnais ha usato il suo prestigio per spingere letture “comprensive” verso Mosca, rivestendole di linguaggio tecnico. In Germania, l’ex generale Harald Kujat, dopo la pensione, ha espresso posizioni filorusse che hanno sollevato più di un sopracciglio.

In Italia, il generale Marco Bertolini si è spesso distinto per tesi considerate troppo indulgenti verso il Cremlino, dall’allargamento della NATO visto come “provocazione” alla minimizzazione delle responsabilità russe. Il punto non è censurare le opinioni: è che quando a parlare non è un analista qualunque, ma un alto ufficiale, il peso del grado finisce per orientare il dibattito e — volenti o nolenti — dare fiato alla propaganda altrui.



Diciamo che si è verificato un vuoto politico. Il che, oltre alle divisive esternazioni di non pochi alti gradi militari, ha favorito le iniziative russe e americane, da un lato Putin, con le sue pose napoleoniche, dall’altro un Biden e un Trump favorevoli, il primo alla resistenza, il secondo alla resa dell’Ucraina.

L’Europa, come detto, altrettanto divisa al suo interno, non è in grado, almeno per il momento, di condurre una guerra senza l’aiuto americano, pertanto il lasciare spazio ai generali, che ragionano solo in termini di ipotesi militari può essere pericoloso. Perché per verso attizza contro le democrazia liberali,  dipinte come guerrafondaie. i pacifisti  di tutti i colori, per l’altro consente ai russi di passare da lupi aggressori a futuri agnelli aggrediti.





Per capirsi: dichiarazioni come quelle dell’ammiraglio Cavo Dragone finiscono per avvantaggiare, al tempo stesso, i molteplici nemici della liberal-democrazia, che spaziano dai pacifisti di ogni orientamento ideologico ai guerrafondai ammiratori delle dittature militari.

Cosa fare? In primo luogo, va messa la museruola a ammiragli e generali, però al tempo stesso va rafforzata la preparazione militare europea. In secondo luogo, l’Europa deve smettere di flirtare politicamente con il pacifismo. La museruola va messa anche ai pacifisti.

Quanto alla NATO, il suo senso dipende dalla possibilità di continuare a contare sugli Stati Uniti. Si tratta quindi di resistere fino al prossimo presidente americano, confidando in un nuovo Eisenhower — primo comandante in capo della NATO e propugnatore della difesa collettiva Stati Uniti‑Europa — sperando che a Washington si insedi, a differenza di Trump, un autentico sostenitore della liberal-democrazia. 

E  cosa che va sottolineata: sotto la divisa, Eisenhower era prima di tutto un civile, un militare atipico con uno spiccato senso politico, perfettamente in linea con quanto abbiamo fin qui detto. Basta leggere le sue memorie.

Concludendo, al momento l’Europa deve riamarsi, tacere e sperare.

Carlo Gambescia

lunedì 1 dicembre 2025

L’assalto alla “Stampa” e il fascismo che non si può più nominare

 


Invitiamo il lettore a riflettere su un paradosso curioso e inquietante. Quale? Nell’Italia di oggi criticare il potere non significa più essere liquidati come “di sinistra”, ma comporta il rischio molto più grave di essere marchiati come antifascisti. E  ovviamente non in senso positivo ma come insulto, come stigma, come sospetto politico.

Il che è già singolare di suo. Però diventa preoccupante quando in mezzo c’è un giornale. L’assalto alla sede della “Stampa” avrebbe dovuto evocare, in modo naturale, un parallelo storico chiaro e netto: quello con le spedizioni punitive contro le redazioni dei giornali durante il primo squadrismo.

Allora c’era Mussolini che ordinava, oggi non c’è più Mussolini, ma la dinamica è quella. Aggiungiamo pure che dal 1945 in poi, in Italia non si sono più registrati attacchi collettivi ai giornali in stile “Avanti” 1919.



Certo, giornalisti sono stati uccisi, feriti, bombe sono esplose, però nessuna spedizione punitiva: nessuna azione collettiva di “stampo” fascista.

E invece no. Quel parallelo non lo fa quasi nessuno. Si preferisce parlare d’altro.

E l’altro, questa volta, si chiama Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei territori palestinesi. Una figura, dunque, esterna alla politica italiana. Però, da qualche tempo, basta che che apra bocca — ovviamente quasi sempre in modo discutibile, discutibilissimo, ma il punto non è questo — perché scatti la caccia all’etichetta: Propal, Amica degli islamici, di Hamas, eccetera, eccetera.

E dopo l’assalto alla “Stampa” cosa ha detto? Che quanto accaduto va condannato, ma che deve servire di monito per quei giornalisti che ignorano il pluralismo informativo. Apriti cielo.

Pertanto critichiamo pure Francesca Albanese quando dice sciocchezze. Però ricordiamo pure che capita qualcosa di strano: che mentre la si crocifigge per il suo presunto “filo-islamismo”, sparisce completamente la dimensione centrale dell’episodio. Che un gruppo organizzato ha assaltato la sede di un giornale, fisicamente e simbolicamente. Attenzione, anche “sim-bo-li-ca-men-te. Cioè al di là dei danni effettivi.



Ed è proprio qui che emerge il cuore del problema.

L’anti-islamismo, nell’Italia politica di oggi, funziona come una scorciatoia retorica. Detto alla buona: specchietto per le allodole. Permette di spostare il discorso su un nemico culturale esterno (“i ProPal, gli islamici, gli infiltrati) e di evitare la parola che davvero brucia: fascismo.

Perché dire che un azione punitiva contro un giornale richiama lo squadrismo significa costringere la destra di governo a fare i conti con il suo passato compromettente. Per farla breve: guardare la storia in faccia.

Significa scalfire quella fragile cornice identitaria per cui la destra è “sì democratica”, purché nessuno si azzardi mai a evocare le radici storiche da cui proviene.

E allora la scena si rovescia: chi usa la parola antifascismo diventa automaticamente sospetto; chi liquida tutto come teppismo ProPal o infiltrazione islamica appare più rassicurante, più allineato, più accettabile.

Insomma, si preferisce parlare di islamici e crocifiggere Francesca Albanese, sparando nel mucchio (Greta, i lunatici di Pd, eccetera, eccetera), pur di non tirare in ballo i fascisti.



Quando si dice che il governo Meloni è democratico, bisognerebbe aggiungere una postilla: democratico entro il perimetro retorico che esso stesso accetta.

E in quel perimetro la parola “fascismo” non deve entrare. Non deve essere evocata, nemmeno quando la dinamica degli eventi la richiama in modo quasi didascalico. Come una spedizione punitiva contro un giornale, cosa che non accadeva in Italia, dagli anni del fascismo.

Detto altrimenti ci troviamo nel mezzo di  una auto-censura morbida che pervade giornali, talk show, opinionisti e addirittura i social. Non la impone nessuno, ma tutti la praticano.

Si teme di essere marchiati “antifascisti”. Termine che oggi, paradossalmente, è diventato un insulto, un’accusa, o comunque un cosa passata di moda. Ci si sente ripondere: “Ancora con questa solfa?” oppure “Ma io non ero nato”, “Roba di cento anni fa”. E così via.

Tre anni fa sembrava impossibile. Oggi è un dato di fatto. Insomma, al di à delle scelte di governo, pur discutibili, questo rovesciamento dei valori la dice lunga sui rischi che corre la nostra libertà. Il lato tragicomico è che Fratelli d’Italia, per bocca dei suoi esponenti, non perde occasione per evocare la censura Woke. E atteggiarsi a martire. Ridicolo. Eppure funziona. C’è chi ancora crede all’accerchiamento.

Va anche ricordato un altro punto fondamentale: la destra di governo non ha mai avuto un rapporto sereno con i grandi gruppi editoriali, soprattutto quelli della galassia Elkann.

Giorgia Meloni, più volte negli ultimi anni, ha attaccato direttamente John Elkann: accusandolo di aver spostato l’italianità della Fiat altrove; contestando il mancato rispetto verso il Parlamento per la sua assenza nelle audizioni; leggendo le critiche dei suoi giornali come parte di una ostilità politica strutturale.



Non che questo renda l’assalto meno grave, ci mancherebbe altro. Ma perché aiuta a capire il clima: quando un governo considera alcuni giornali come avversari politici, l’aria si appesantisce. E un assalto fisico, in questo clima, diventa ancora più preoccupante: non perché sia voluto, ma perché trova un discorso pubblico già pronto a non vedere.

La domanda è semplice, e proprio per questo nessuno la fa. A dire il vero  tace anche lo stesso Elkan, stando almeno ai suoi interventi pubblici dopo l’assalto. Del resto sembra che da ottobre “La Stampa” sia passata di mano. E prossimamente toccherà a “La Repubblica”. La destra può vincere facile.

Per quale ragione in Italia, anno di grazia 2025, è più facile parlare male degli islamici che del fascismo? Perché evocare un nemico esterno è comodo, mentre evocare un’eredità interna è pericoloso. So badi bene: il fascismo non è solo una memoria, è una responsabilità. E la responsabilità, si sa, pesa.



Un assalto a un giornale non è un episodio isolato. È sempre un segnale.

E se non si ha più il coraggio di chiamarlo con il suo nome — se la parola “fascismo” viene bandita e la parola “antifascismo” derisa — allora la democrazia non è più un fatto: è una scenografia.

E il problema non è Francesca Albanese, né l’ONU, né i ProPal. Il problema è che l’Italia preferisce la scorciatoia identitaria del nemico esterno alla fatica civile della memoria interna.

Quando l’antifascismo diventa un insulto, il fascismo non ritorna: esce dall’ombra.

Carlo Gambescia

domenica 30 novembre 2025

Maduro, Trump e la crisi di coscienza di un liberale

 


Detestiamo Trump. Senza mezzi termini lo riteniamo un leader autoritario, con pulsioni chiaramente illiberali, secondo alcuni addirittura fasciste, animato da una volontà di potenza che in Occidente non si vedeva dal 1945, dalla caduta di Hitler e Mussolini.

Trump è pericoloso perché, insieme alla Russia e alla Cina, rappresenta un nemico dell’Occidente e dei suoi valori illuministi e liberali.

Ora, stando ai giornali, Trump, tiranno virtuale (il suo nemico principale è lo stato di diritto), si appresterebbe ad abbattere con la forza un tiranno reale: Maduro, liquidato come presidente di uno stato narcos.

Il che, per un verso, è vero. Ma solo in parte. Perché il dittatore venezuelano, nel cuore di quell’area rosso-bruna dove estremismi opposti finiscono per toccarsi — e dove si spiega anche il sostegno di russi e cinesi — soffoca nel suo paese ogni forma di libertà in nome di un’ideologia nazional-sociale, una miscela di castrismo e peronismo. L’esatto contrario dei  prestigiosi valori occidentali.

Il vero punto è che un nemico della civiltà occidentale, Trump, si prepara a colpire un altro nemico della civiltà occidentale, Maduro.

E qui nasce la crisi di coscienza del liberale: da che parte stare? Difendere l’azione di Trump? Lo stesso Trump che abbandona un’Ucraina che sogna l’Occidente al suo destino di stato satellite della dittatura russa? Che insulta, disprezza e ricatta l’Europa democratica e liberale?



Si dirà che la politica estera segue la logica degli interessi. E da questo punto di vista — al netto di eventuali tornaconti personali — Trump avrebbe più convenienza a riaffermare la propria presa su un Paese che, dalla dottrina Monroe in poi, gli Stati Uniti considerano parte naturale della loro sfera d’influenza. Allo stesso modo, l’Ucraina rientra — nelle intenzioni di Mosca — in quella russa, e l’Europa, nella visione muscolare del Cremlino, orizzonti europei che la Russia insegue almeno da Pietro il Grande.

Qui si consuma la scelta più grave, quella che distingue Trump da una lunga linea blu  (nel senso di "arrivano i nostri") di presidenti americani, liberal-democratici, da Wilson a Obama e Biden.



Pertanto, al netto delle sue ciarlatanerie, se Trump dovesse “liberare” il Venezuela non lo farà certo in nome dei valori occidentali o liberali, ma in nome di un concetto di egemonia tanto ruvido quanto esplicito Un concetto che, applicato retrospettivamente alla Prima e alla Seconda guerra mondiale, avrebbe potuto condurre gli Stati Uniti ad abbandonare l’Europa prima al Kaiser, poi a Hitler e Mussolini. E forse a perdere il Pacifico, favorendo l’espansionismo del Giappone nazionalista, e secondo alcuni studiosi mezzo fascista.

Sotto questo aspetto, la crisi di coscienza di un liberale, un liberale davvero dalla parte dell’Occidente, si supera solo partendo dalla considerazione — già accennata — che Trump, come tanti altri leader autoritari o aspiranti tali, è un nemico dell’Occidente liberale, e come tale va trattato. Trump non ragiona come Churchill, che non si arrese a Hitler, in nome di un  realismo politico liberale a lungo termine, che scorgeva nei valori occidentali di libertà la via maestra.



Trump va a braccetto con i dittatori: il suo non è liberalismo politico, ma un realismo, a breve termine, del mordi e fuggi, deformato, quasi criminogeno, perché il personaggio sembra godere del male che provoca. Non ha forse dichiarato di odiare i suoi nemici, a prescindere dal loro colore politico? La stoffa con cui è cucito Trump è molto più simile a quella di Maduro di quanto i suoi sostenitori ammetteranno mai.

E il popolo venezuelano? Se Trump attaccherà, verrà probabilmente liberato da Maduro. Ma non per questo sarà emancipato. Cambiare il padrone non significa cambiare il destino di un paese. Un liberale non può dimenticarlo: l’Occidente non si difende applaudendo chi rovescia un dittatore per imporre la propria egemonia, ma tenendo ferma la distinzione tra liberazione ed emancipazione. Tra puro dominio e valori liberal-democratici.

E Trump, nemico dichiarato di quella distinzione, resta comunque un nemico dell’Occidente liberale.

Carlo Gambescia

sabato 29 novembre 2025

Troppo Novecento. Sciopero generale e sinistra: tra welfarismo e rituali pacifisti

 


A proposto dello sciopero generale c’è qualcosa di stonato, quasi fossile, nel sentir parlare di "finanziaria di guerra" e "di miseria". 

 Parole grosse. Troppo.

Ieri è toccato ai “sindacati di base” (le principali sigle autonome), di solito i più arrabbiati.  Il 12 dicembre sarà il turno di quelli di “vertice”, ufficiali diciamo, più politici (cioè Landini & Co. ).  In realtà, visione e slogan, sono più o meno gli stessi. Stesse idee, stesso massimalismo. Di sinistra.

Insomma è una retorica, che accomuna sindacati di “base” e di “vertice”, e che sembra provenire direttamente cuore del Novecento. Più precisamente dal 1914:  dai tempi del pacifismo massimalista incapace di distinguere tra aggressione e autodifesa, e che finì per provocare la dissoluzione della Seconda internazionale dinanzi alla Prima Guerra mondiale. E così consegnare un intero pezzo di socialismo europeo all’ingenuità geopolitica che spianò la strada a Lenin. Che a Zimmerwald, 1915, sotto la candida veste del pacifismo ufficiale, fece circolare la seguente parola d’ordine: “Trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Il che in seguito, come insegna Nolte, favorì, pur con portate differenti, la reazione di Mussolini e Hitler.

Oggi lo schema, almeno mentale, si ripete: un pacifismo d’accatto che scambia ogni spesa militare per militarismo, senza chiedersi chi stia sparando e morendo. Oggi a essere aggredita è l’Ucraina, non qualche impero coloniale. Sostenere Kiev non è un vezzo moralistico: è una necessità politica per chiunque viva in Europa. Se l’Ucraina cade, crolla il principio della sovranità territoriale, e la Russia avrebbe un precedente pronto da replicare.

 


Eppure si continua a chiedere “pace”, come se bastasse una parola d’ordine per risolvere una guerra di aggressione. È curioso che proprio chi urla “pace subito” finisca – magari in modo inconsapevole – sulle stesse posizioni di Donald Trump, Orbán e di tutta la galassia sovranista, parafascista, che sogna un’Europa debole. Una sinistra che, invece di farsi liberale, si ritrova affiancata alla destra più illiberale non per convinzione, ma per riflesso ideologico.

Il discorso si fa ancora più evidente sul fronte israelo-palestinese. Anche qui la parola “pace” viene usata dagli organizzatori dello sciopero generale come scorciatoia morale, senza guardare alla complessità degli attori in campo né alle responsabilità reciproche.

Si sciopera “anche” per mostrare solidarietà verso il popolo palestinese. Cosa umanamente comprensibile. Ma se si riduce tutto a “cessate il fuoco subito, senza se e senza ma”, si ripete lo stesso errore commesso sull’Ucraina: si cancella il fatto che esiste un’aggressività concreta, strategica, organizzata.

 


Anche qui il pacifismo da rituale manifestazione del sabato diventa un alibi che impedisce di vedere la realtà: la pace non si ottiene chiedendola come un atto di fede, ma creando condizioni politiche, militari e diplomatiche che la rendano possibile. Il che vale per Gaza, vale per Kiev. E invece? Si continua a usare lo stesso vocabolario emotivo e sbrigativo, sempre più lontano dalla complessità del mondo.

Sia chiaro: la nostra contrarietà al governo Meloni è totale. È un governo di estrema destra, con figure profondamente nostalgiche del fascismo: basta guardare a Ignazio La Russa, che non è esattamente un fan della cultura democratica antifascista. Ma essere anti-Meloni non può significare rifugiarsi nella retorica di un socialismo romantico, diciamo pure vintage, che non ha fatto i conti con la modernità. Non basta urlare contro “le armi” per essere progressisti; basta vedere chi applaude dall’altra parte dell’oceano per capire che qualcosa non torna.

 


Quanto alla manovra economica, sulla quale ha posto l’accento soprattutto Landini, definirla “ingiusta” o “di miseria” è una scorciatoia propagandistica che non aiuta a capirla. Non è una finanziaria di miseria: è una finanziaria piatta. Una manovra che non cambia nulla, amministrativa, priva di visione. E che, paradossalmente, ripropone proprio quella logica welfarista che la sinistra e il sindacato difendono da decenni: bonus, micro-riduzioni del cuneo fiscale, mance alle minime, ritocchi sull’Irpef, nessuna vera politica industriale, nessuna riforma del welfare, zero strategia sulla produttività. È tutto dentro lo schema classico italiano: distribuire un po’ qua e un po’ là, senza mai mettere mano alle fondamenta economiche del Paese.

Il problema è che una parte del sindacato sembra ancora convinta che la ricchezza sia una variabile indipendente. Si parla solo di redistribuzione, quasi mai di produzione. Come se la ricchezza comparisse spontaneamente, per diritto naturale, e non fosse invece il risultato di investimenti, innovazione, lavoro qualificato, competitività, rischio imprenditoriale.

In Italia la produttività del lavoro è ferma da quasi trent’anni. Dal 1995 a oggi è cresciuta in media di appena +0,2% l’anno,  con oscillazioni intermedie, certo, ma senza mai imboccare una traiettoria solida. Nel quinquennio 2019-2024 è addirittura negativa (–0,1% annuo). È la performance peggiore tra i grandi Paesi europei. Con una produttività così stagnante, salari, welfare e investimenti non possono crescere seriamente: la ricchezza da redistribuire semplicemente non si crea (CNEL / elaborazioni su dati Istat, rapporti 2024-2025).

Capito il liberalismo selvaggio? O per meglio dire immaginario? Che la sinistra, sempre da trent’anni, tira regolarmente fuori dal cilindro? E che addirittura ora rimprovera al governo Meloni? Che invece, come detto, tira a campare secondo le consuete linee welfariste

Questa mentalità, da maghi della pioggia (dello sciopero generale) deriva davvero — e non è un’esagerazione — dalla cultura della Seconda Internazionale: la redistribuzione come gesto etico, non come esito di un processo materiale. È un approccio che può andare bene per un comizio, non per gestire un Paese avanzato.
 

Scioperare è giusto, il conflitto sociale è necessario, nessuna obiezione. Ma se la protesta è accompagnata da un vocabolario ideologico fermo al secolo scorso, allora non si sta difendendo il lavoro: si sta difendendo un’idea arretrata del lavoro. Non siamo nel 1914. Quando solo per dirne una: la giornata di lavoro di un operaio era in media fra le 10 e le 14 ore, 6 giorni a settimana.

 


Quanto al pacifismo dei sindacati, possibile che si sia dimenticato che, come allora, l’Europa rischia la disgregazione e l’Italia non è affatto al riparo? Continuare a parlare come se vivessimo in un mondo immobile, chiuso nelle vecchie categorie del Novecento, non aiuta nessuno: né i lavoratori né il Paese.Serve realismo, non nostalgia. E soprattutto serve il coraggio di misurarsi con la fase storica in cui siamo davvero e non con quella che fa più comodo evocare.

Il governo Meloni merita di cadere, certo. Ma non per tornare all’età della pietra socialista. Non basta essere contro qualcuno per essere moderni. Se davvero vogliamo costruire un’alternativa credibile dobbiamo liberarci tanto dei nostalgismi di destra quanto del pacifismo automatico e della liturgia redistributiva della sinistra. Serve un svolta liberale. Troppo Novecento. Ora basta.

Anche perché la modernità richiede altro: capire la geopolitica ( e la metapolitica), sostenere chi viene aggredito, innovare il welfare, aumentare la produttività, garantire diritti senza affossare la crescita.

È una sfida liberale, ripetiamo, che nessuno può affrontare con lo stesso linguaggio dei bisnonni. 


Carlo Gambescia

venerdì 28 novembre 2025

L’invenzione della tradizione femminista e il caso Cortellesi

 


Riflettevamo – grazie a un post fulminante dell’amico Facebook, il professor Pellicanò – sulla laurea honoris causa in giurisprudenza conferita a Paola Cortellesi. La seconda. 

Si dirà che l’attrice – e non solo attrice – vanta un curriculum artistico di prim’ordine. Giusto.

Però il punto è un altro: oggi la Cortellesi è una figura fortemente schierata sul fronte femminista ( ci si passi la semplificazione). E questo, molto più del suo pur notevole percorso artistico, spiega il taglio disciplinare della laurea, dal sapore  vagamente foucaultiano.

Cosa c'è che non va? Che i pericoli per la società aperta e liberale, soprattutto se vuole restare tale, possono provenire da qualsiasi direzione. Anche a prescindere dalle migliori intenzioni, come nel caso del perseguimento dell’uguaglianza uomo-donna. Obiettivo, in sé, più che lecito, dopo secoli e secoli di oppressione e discriminazione.

Però, si rifletta. Dal punto di vista metapolitico – delle regolarità; di ciò che si ripete nei comportamenti politici e sociali – ogni movimento, per diventare istituzione, ha bisogno di una genealogia. Una tradizione, vera o presunta, che gli permetta di presentarsi come “naturale” e “necessaria”. Qui la lezione di Hobsbawm e della sua scuola storiografica (*). È un meccanismo antico: si costruisce un passato che giustifica il presente. I nazionalismi vi hanno giocato a lungo e male. Oggi il femminismo dominante sta lavorando esattamente in questa direzione. E il successo mediatico di "C’è ancora domani" ne è la prova più evidente.



Paola Cortellesi è un’attrice di talento, nulla da eccepire. Ma la sua elevazione a icona nazionale dice più sulla fase storica del movimento che sul valore cinematografico dell’opera. Il film, al di là del suo effettivo valore artistico o meno, è stato accolto come un rito civile, una celebrazione collettiva della tradizione femminista che si sta costruendo ora, in tempo reale. Una “Madre della patria femminista”, per usare un’immagine brutale ma efficace. Non è colpa della regista: è il sistema politico-mediatico che ha bisogno di figure rappresentative per consolidare la sua narrazione.

Il punto non è giudicare Cortellesi, ma osservare il processo: la trasformazione del movimento in istituzione. Quando un movimento diventa apparato culturale, produce simboli, eroine, liturgie, feste comandate. Il femminismo istituzionalizzato funziona così: racconta un passato selezionato, moralizzato, riscritto per adattarsi all’identità contemporanea. L’invenzione della tradizione, insomma.

In questo quadro si inserisce anche la categoria di femminicidio. Non è solo un termine sociologico o mediatico: è diventato un dispositivo penale che segna un passo indietro rispetto alla tradizione liberale del diritto. Il reato è l’omicidio, e dovrebbe valere per tutti. La creazione di fattispecie speciali introduce, di fatto, un diritto degli affetti: l’idea che alcune vittime “valgano” più di altre per ragioni simboliche. È una logica identitaria che rompe l’universalismo giuridico e affida al tribunale il compito di difendere una categoria morale, non una persona concreta.



Si potrebbe obiettare che anche altri crimini o tragedie — dalla Shoah ai conflitti nazionalisti contemporanei — vengono trattati in modo differenziato. Ma il punto è un altro. In quei casi la distinzione serve a registrare un rischio sistemico: l’annientamento di un popolo, di una comunità, di un’intera identità collettiva. Si parla di situazioni eccezionali, dove la tutela particolare mira a prevenire genocidi o pulizie etniche, non a rafforzare una intransigente retorica identitaria.

Il femminicidio, invece, non descrive un progetto di sterminio, ma una tipologia simbolica di vittima. È una categoria identitaria, non strutturale. E non riguarda la sopravvivenza di un gruppo umano minacciato, bensì la volontà di attribuire un valore morale diverso a vittime diverse. Qui sta la differenza: non nelle cifre, ma nella funzione che la categoria svolge all’interno del discorso pubblico.

Non è un’idea nuova. La retorica secondo cui “serve distinguere per arrivare all’uguaglianza” era già cara al socialismo ottocentesco, almeno a far tempo dal protocomunista Babeuf. Ma allora come oggi, l’esito è ambiguo: si creano nuove burocrazie, nuove élite morali, nuovi dogmi. E soprattutto una narrativa rigida, dove gli uomini sono sospetti per definizione e le donne vittime per definizione. Un mondo diviso in ruoli fissi. Altro che emancipazione.



Non si tratta di difendere la tradizione conservatrice e patriarcale della sacra trinità “Dio, patria e famiglia”, oggi rilanciata dalla destra. Una visione che, per chi crede nella libertà individuale, resta anacronistica. Ma la simmetria va riconosciuta: se la destra pretende la Donna come angelo del focolare, la sinistra identitaria pretende la Donna come simbolo sacro della Nuova Etica. In entrambi i casi, un ruolo imposto. Un altro modo per dire alle persone come devono essere.

Il problema non è la battaglia per i diritti delle donne, sacrosanta. Il problema è la trasformazione di quella battaglia in un apparato normativo, in una religione civile che pretende fedeltà e punisce la dissidenza. E, soprattutto, pretende di riscrivere storia, cinema e diritto come strumenti di rieducazione culturale.


 

Ma una società aperta vive di pluralismo, non di crociate. Se un solo movimento diventa istituzione morale — che sia patriarcale o femminista, di destra o di sinistra — il risultato è lo stesso: asimmetria, controllo sociale, riscrittura del passato per legittimare il presente. Cinema, diritto e storiografia non sono pistole cariche da puntare contro una categoria sociale. Sono strumenti di comprensione, non di vendetta.

Il femminismo, se vuole restare forza vitale, deve accettare il rischio della convivenza, non quello della canonizzazione. Perché quando un movimento si trasforma in chiesa, con le sue sante — come Santa Paola Cortellesi da Roma — le sue martiri e la sua ortodossia obbligatoria, ha già smesso di essere liberatorio. E ha cominciato a somigliare a tutto ciò che voleva combattere.

Carlo Gambescia

(*) Sulle regolarità rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, 2023, 2 volumi. Si veda Eric Hobsbawm e Terence Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, Einaudi, 1987.