mercoledì 22 gennaio 2025

Il ritorno del maestro di palazzo. Alle origini della tecnodestra

 


Parlare di tecnodestra, a proposito del “mix” ideologico Trump-Musk, non è sbagliato. Però bisogna affrontare il tema evitando ricadute di tipo populista.

Partiamo perciò da una grande questione che non può essere ignorata: la crescente separazione tra economia e politica. Tra stato e mercato: due sfere dai tempi diversi. Tempistiche diverse. Ecco il punto fondamentale da analizzare.

I tempi dei mercati si sono sempre fatti più veloci, diciamo da XXI secolo, mentre quelli della politica rispondono a meccanismi che risalgono al XIX.

Ad esempio, insistere sull’interventismo dello stato, particolarmente sviluppatosi nel XX secolo, significa continuare ad affidarsi a burocrazie lente, legate al formalismo giuridico, incapaci di raccordarsi con la realtà economica digitalizzata di mercati: continente emersi di ricchezza che in pochi istanti spostano da una tasca all’altra miliardi.

Per capirsi: una legge per essere elaborata richiede mesi, addirittura anni per l’ implementazione; per contro una grande impresa può essere comprata e venduta digitando sulla tastiera il codice di un conto bancario.

Pertanto, sotto l’aspetto delle misure temporali governi e parlamenti sembrano risultare obsoleti rispetto ai mercati.

Questo fenomeno è collegato a due altri fenomeni: 1) l’insoddisfazione delle imprese high tech (dell’alta tecnologia) per una politica elefantiaca nei suoi tratti principali; 2) l’insofferenza della gente comune per strutture politiche e sociali incapaci di rispondere ai cittadini in tempi brevi.

L’idea di base, che dobbiano capire, e non si tratta di una narrazione qualsiasi, è quella di un mondo sempre più veloce in grado di fornire servizi in modo istantaneo. La dimensione temporale è divenuta sempre più importante. Diremmo addirittura centrale.

Perciò non parleremmo di una “economicizzazione” del mondo e neppure di una sua “tecnologizzazione”. Siamo invece davanti alla “velocizzazione” del mondo. Alla sua accelerazione. Semplificando: la tecnologia, in sé neutrale, ha dato una mano alla filosofia del tutto e subito. Quindi parliamo di un fatto culturale. E per giunta di massa.

Il nostro mondo occidentale, che come sistema di mentalità, va comunque estendendosi a tutto il globo, sembra essersi tramutato in un mondo di clienti schizzinosi, incontentabili, pignoli. Per dirla in altro modo: si esigono diritti pubblici al ritmo dei diritti privati. Lo stato welfarizzato ha creato aspettative che non possono essere soddisfatte in tempi brevi (se mai lo saranno…). E quanto più lo stato si welfarizza tanto più aumenta la distanza, in termini di ritmi, delle istituzioni pubbliche dalle istituzioni di mercato.

Sotto il profilo politico, destra e sinistra hanno creduto di poter intercettare e rispondere alla crescente insofferenza della gente comune digitalizzando lo stato (cioè le sue istituzioni). Quindi, per dirla brutalmente, favorendo la propria autodistruzione in termini di incontenibile crescita delle aspettative, che un digitale  pubblico, sottoposto allo stessto ritualismo burocratico della pubblica ammnistrazione, non potrà mai soddisfare. Anche per ragioni di autofinanziamento fiscale.

Per contro, il mondo dell’high tech, per un verso ha favorito  il processo di digitalizzaizone del pubblico perché costitutivo di posizioni di rendita, per l’altro ha scorto la possibilità di impadronirsi dello stato stesso, alla stregua dei maestri di palazzo. Cominciando da apparentemente modesti incarichi governativi.

Un fenomeno che non riguarda solo il declino della dinastia Merovingia, ma riguarda la fase in cui un potere centrale incomincia a disgregarsi (forze centrifughe), quasi costringendo il maestro palazzo a fare appello all’unità (forze centripete). Maestro di palazzo che può essere un ministro, un generale, visir, shogun, avventuriero, plutocrate, e così via fino ai moderni imprenditori dell’high tech.

La cosiddetta tecnodestra, rappresentata, come spesso si legge, da Elon Musk (Tesla), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Dara Khosrowshahi (Uber), Sam Altman (OpenAi), Tim Cook (Apple), presente in forze alla cerimonia di insediamento di Trump, dopo aver finanziato la sua campagna elettorale, non è altro che la personificazione – in particolare Elon Musk – di un gruppo di aspiranti maestri di palazzo.

Un gruppo di tecnocrati, che ovviamente, poiché non siamo nella Francia dei Merovingi, giustificano la propria scalata al potere – se si vuole razionalizzano – evocando ideologie elitarie e parafasciste,  dal momento che questo offre oggi  il mercato estremista delle idee.

Ideologie particolarmente adatte all’uso perché privilegiano la decisione rapida rispetto alle lentezze procedurali del liberalismo. Per inciso, la decisione del governo Meloni di affidarsi per la sicurezza a digitale a Musk assume valore emblematico, a prescindere dal fatto che sia Musk o altro personaggio high tech ad assumere il compito.

Di conseguenza, per tornare allo scenario americano (ma il fenomeno ha natura metapolitica, universale), l’ evoluzione politica del maestro di palazzo è legata alle capacità di resistenza di Trump e di quella che potrebbe essere definita destra identitaria, reazionaria, che non ha un buon rapporto con la tecnologia e con l’economia.

Fermo restando che il conflitto di fondo è tra il decisionismo centripeto della tecnodestra e la titubanza centrifuga del liberalismo.

Sotto questo aspetto, per tornare agli Stati Uniti di Trump, l’isolazionismo, come teoria che però ammette l’allargamento dei confini vicini (Canada, Groenlandia, Panama), come misura per accrescere la sicurezza del paese contro ogni forza centrifuga, calza a pennello alla “tecno” perché concilia, quantomeno temporaneamente, la sua ricerca di rendite politiche con il nazionalismo centripeto della “destra” identitaria.

Insomma, per dirla in termini metapolitici, nulla di nuovo sotto il sole. Tranne, cosa che particolarmente duole, la crisi di un  liberalismo che non sembra essere al passo con i tempi.

Siamo però sicuri che sia così? Che in realtà siano i tempi a non essere al passo con il liberalismo? Cioè che le regole procedurali, come salvaguardia delle libertà individuali, impongano tempi propri, quindi da preservare a prescindere dalla “velocizzazione” del mondo?

Carlo Gambescia

martedì 21 gennaio 2025

Trump non è pazzo (come dice la sinistra)

 


Ieri pomeriggio abbiamo seguito in diretta su CNBC l’ insediamento di Donald Trump. Due cose ci hanno colpito: 1) la durezza del suo linguaggio, che se si concretizzerà in decisioni effettive, per l’Europa e per un’Italia di nuovo “repubblichina” la situazione politica ed economica (crisi della Nato e dazi) si farà molto dura politicamente ed economicamente; 2) la presenza di Giorgia Meloni, unico leader europeo (per una cerimonia di regola da ambasciatori), che, sebbene Cerasa sul “ Foglio” di oggi, fin troppo generosamente, definisca “riformista”, in realtà non è meno dura e cospirativa di Trump verso la liberal-democrazia.

Italia “repubblichina”, dicevamo. Nel senso di Salò, come Repubblica fantasma tributaria di Hitler. Un acuto storico, Deakin, definì l’alleanza tra il duce e il führer, “brutal friendship”: un’amicizia brutale. La stessa cosa si può dire del legame tra due personaggi – inutile nascondersi dietro gli eufemismi – potenzialmente capaci di atti di brutalità.

Donald Trump ha parlato, senza battere ciglio, di deportazione dei migranti e Giorgia Meloni ha applaudito. Era vicina a Milei, in fondo, dietro il podio, tutti e due in abito scuro, poco visibili, quasi anonimi.  Nella nostra foto di copertina si vede in alto a destra solo Milei, tutto basette, che molti considerano un liberale per caso. Quasi due imbucati. Alleati di serie B, come Mussolini con Hitler.

 


 

Abbiamo citato Hitler. Bene, quella che viene definita la follia di Trump, termine che ricorre soprattutto a sinistra, una sinistra meno lucida… Al riguardo ci si consenta però un inciso.

Sansonetti, sull’ “Unità” di oggi, collega addirittura Trump a Reagan, un mezzo fascista a un liberale. Perché il secondo avrebbe iniziato quella guerra all’eguaglianza sostanziale, che Trump ora vuole portare a termine. Sansonetti, da comunista in fondo mai pentito, ancora non ha capito che più si persegue l’eguaglianza sostanziale più si estende il ruolo dello stato. Lo stato è il problema non la soluzione.

Dicevamo della follia di Trump. In realtà, oltre che carismatico, come scrivevamo ieri (*), ciò che la disastrata sinistra chiama follia non è altro che imprevedibilità, come per Hitler, che ne fu maestro indiscusso.

Ieri Trump, lo stesso politico che vuole Panama, Canada e Groenlandia, si è dichiarato uomo di pace e unificatore… Certo, con un occhio all’ America settentrionale e centrale… Proprio come Hitler, che con mosse a sorpresa, imprevedibili, si riprese la Saar, rimilitarizzò la Renania, inglobò l’Austria, smembrò la Cecoslovacchia, evocando ogni volta la sua buona fede e soprattutto la sua volontà di pace. E i paesi liberal-democratici  si illusero fino all’invasione della Polonia. Troppo tardi.

Possibile, si diceva negli ambienti pacifisti europei di allora, che dopo il macello della “Grande Guerra” Hitler ne volesse scatenare un’altra? Inoltre, non pochi politici conservatori, anticomunisti, vedevano erroneamente nella Germania nazista, una barriera contro la Russia sovietica.


 

Trump – ecco il vero problema – usa un linguaggio così duro, così lontano dal registro politico liberal-democratico, che può farlo sembrare pazzo. In realtà Trump è imprevedibile, perché, alterna parole di pace a parole di guerra. E in questo senso è machiavellico.

Ad esempio, Trump dichiara di puntare alla pace tra ucraini e russi , come tra israeliani e palestinesi, però pretende il canale di Panama, anche ricorrrendo all’uso della forza. Si dirà che anche in passato altri presidenti… Però ora c’è una novità: Trump dice che vuole difenderlo dai cinesi, proprio come Hitler, voleva difendersi dall’ influenza economica di cechi e polacchi… La sua è una politica di potenza, per ora sul piano continentale. Per ora.

La menzogna, come machiavellico gioco tra le due parti dell’essere e dell’apparire, svolge un ruolo fondamentale nella retorica dell’intransigenza di Trump, dal momento che sembra difficile che i cinesi arrivino fino al punto di annettersi Panama.

Eppure, grazie alla retorica anticinese, ci sono tanti americani che credono alle parole di trump e lo votano in nome di un rigido e cieco isolazionismo popolare. Gli stessi americani probabilmente prontissimi a immolarsi, andando in guerra, per evitare una nuova Pearl Harbour.

Inoltre, ciò che i liberali italiani, in particolare coloro che hanno sposato la causa di Trump (e di Giorgia Meloni), non capiscono, o non vogliono capire, è che il nuovo presidente americano è un protezionista. Cioè un capitalista di stato, più vicino al modello cinese che a quello liberale. Un capitalismo parassitario che vuole vivere di rendita e rifiuta il rischio capitalistico legato alla ricerca del profitto.

Il capitalismo di Trump, come provano i suoi buoni rapporti – e ieri erano tutti al suo fianco – con Musk e Zuckerberg e altri magnati – è il capitalismo delle commesse di stato, per semplificare. Pareto nelle sue “Cronache”, scrisse pagine definitive su questo fenomeno, che ha sempre distinto un capitalismo da “buen retiro”: Si cresce fino a un certo punto, poi ci si stabilizza e ci si appoggia allo stato. Qui arriva il Trump di turno, che proprio come Hitler, privilegia la domanda interna. Si chiama anche autarchia. Hitler riempì la Germania di autostrade, Trump ne vuole costruire una per andare su Marte.

Sotto quest’ultimo aspetto, può darsi che Trump, concentrandosi sulla politica interna e sull’unificazione “continentale”, trascuri il resto del mondo. Che però a quel punto, a partire dall’Europa, rischierebbe di finire sotto il tallone russo o cinese. Soprattutto negli anni Trenta del Novecento, come gli storici ben sanno, l’isolazionismo americano, acuito dalla crisi economica mondiale, che favorì la proliferazione dei nazionalismi, lasciò mano libera in Europa a Hitler. Ovviamente nel caso di Trump resta aperta la questione medio-orientale. Problema che Hitler non ebbe. Comunque mai dire mai.

Ricapitolando. Trump non è pazzo, è un politico carismatico, imprevedibile, machiavellico, che ha definitivamente sdoganato, dopo ottant’anni, l’immaginario politico della “tentazione fascista”: autarchia, politica di potenza, razzismo.

Su quest’ultimo aspetto, Quando Trump parla, come ieri, di nuova età dell’oro si riferisce ai bianchi, al vecchio tronco, spocchiosamente Wasp.

Nel gruppo familiare e dirigente che lo affiancava sul podio, non c’era un nero, a parte l' ex presidente Obama. Senza Michelle. Che di Trump ha capito tutto, e da un pezzo. Brava.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/01/springtime-for-trump.html .

lunedì 20 gennaio 2025

Springtime for Trump…

 


Insediamento di Trump. Che c’entra il vecchio film di Mel Brooks, “The Producers”? Titolo ingannevole? Anche perché a Washington fa un freddo cane...

Il lettore deve avere pazienza. Come nostro solito la prendiamo da lontano.

Esiste il cosiddetto realista politico a breve per il quale la sopravvivenza politica è tutto.

Andreotti apparteneva a questa tipologia. Altrimenti, lui uomo di destra, non avrebbe ma accettato di governare nel lontano 1976-1978 con l’astensione dei comunisti. Per capire la differenza, Moro vedeva invece nel compromesso storico, da buon realista di lungo periodo, un progetto di trasformazione del partito comunista in forza riformista e socialdemocratica. Andreotti, realista a breve, un escamotage.

Per usare un linguaggio in parte teologico-politico, il realista a breve crede nella possibilità di addomesticare il male (Andreotti). Per contro il realista a lungo termine ritiene invece di poter convertire il male in bene ( Moro). Vinse Andreotti e il partito comunista continuò a sentirsi dalla parte giusta della storia. Quella non socialdemocratica. E ancora oggi il riformismo della sinistra stenta a decollare.

Altro esempio storico, i liberali italiani e lo stato maggiore tedesco erano convinti di potere addomesticare fascisti e nazisti. Così non fu.

E oggi in che cosa sperano i realisti a breve? Di addomesticare Trump. Si crede, che una volta al potere, Trump verrà a patti con la realtà della politica di ogni giorno, lasciandosi dolcemente cullare dalla dinamica degli interessi acquisiti.

Può essere. Però, ecco il punto, le aspettative della destra profonda americana, anche sociali e popolari, come pure della destra internazionale, depongono contro questa ipotesi. Come prova la presenza in massa dei principali leader della estrema destra mondiale alla cerimonia di insediamento. Un mondo politico dalle idee confuse, che mette insieme, neonazisti, nostalgici del fascismo, pseudo liberali autoritari, tutti uniti nell’odio verso il sistema liberal-democratico.

Cosa intendiamo dire? Che in un mondo nel quale trionfa l’estremismo politico non sarà facile arrestarsi o fare marcia indietro, per chi, come Trump, ha promesso addirittura di riprendersi Groenlandia e Canada. Oltre che di elevare una gigantesca barriera protettiva, economica e sociale, intorno agli Stati Uniti.

A questo proposito, Trump è un realista a breve o lungo termine? Diciamo che non è classificabile. Se di realismo si tratta, il suo potrebbe essere di tipo criminogeno, a prescindere dalle intenzioni, buone o cattive che siano. Un realismo, diciamo, dagli effetti disastrosi per la libertà di tutti.

Il neopresidente americano appartiene alla categoria degli uomini politici carismatici. I più pericolosi. Si pensi a Mussolini, Hitler, Stalin, per limitarsi al Novecento.

Trump fa sentire importanti i suoi interlocutori (militanti, simpatizzanti, elettori): il leader carismatico impone le mani sul capo dei suoi elettori. Dimostra una sicurezza di sé, che si tramuta in magnetica energia positiva che trasmette – qui la metaforica imposizione delle mani – ai suoi seguaci. Il che significa che il leader carismatico, una volta stregati i suoi elettori, utilizza il realismo a breve o lungo termine, come un mezzo per perseguire scopi non sempre politicamente ortodossi. Qui la natura criminogena legata alla possibile spietatezza mezzi. Legata a certo godimento nel commettere il male, tipica del realismo criminogeno. Sul punto riviamo al nostro Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico (Edizioni Il Foglio).

Il leader carismatico in politica è molto pericoloso. Destabilizza. E non è controllabile, dal momento che il suo carisma, proprio perché tale, per fortificarsi ( quindi durare), deve mantenere elevatissima negli “adepti” (diciamo così) la tensione politica. Di qui l’estremismo politico.

Ovviamente, anche il potere carismatico nel tempo tende a trasformarsi in routine. Ma – appunto – occorre tempo. Si pensi ai danni causati da Hitler in appena sei anni di potere (dal 1933 al 1939). Perciò nel caso di Trump, quattro anni sono più che sufficienti per destabilizzare l’intera politica mondiale.

Questo per dire che la routinizzazione ha una tempistica generazionale, che si propone ad esempio quando si confrontano le due generazioni dei “padri” e “figli” delle rivoluzioni. Da una parte i maturi depositari del valori eroici e guerrieri, dall’altra giovani che ancora non sanno bene quel che vogliono.

Alcuni osservatori sostengono, che trattandosi di un uomo di quasi ottant’anni, Trump non disporrà di grandi energie, eccetera. In realtà, una decisione dannosa, può essere presa in pochi minuti e senza grandi sforzi. Inoltre il leader carismatico, tende a identificarsi con il mondo che lo circonda, puntando sulla terribile logica egolatrica del muoia Sansone con tutti i Filistei. Si ricordi il maledicente Hitler chiuso nel Bunker.

Altri osservatori ritengono che l’anima capitalista e mercantile di Trump prevarrà. In realtà, come provano le biografie, Trump è un personaggio televisivo, che ama colpi di scena, ascolti elevati e tanti applausi. Una specie in influencer politicizzato. L’”imprenditore” Trump, se così si può dire, si è limitato a mettere il suo nome, o brand mediatico-pubblicitario, su case che non ha costruito lui. Il suo è un capitalismo che vive di rendita non di profitti. Un capitalismo che non ama il rischio, un capitalismo parassitario che si appoggia o si impadronisce del potere politico. Un non capitalismo.

Perciò politicamente parlando Trump è una mina vagante.

Ed eccoci finalmente al titolo. Si pensi allo scrittore neonazista, in “The Producers”, che vede finalmente rappresentata la sua commedia musicale su Hitler. Seduto tra gli spettatori non sta nella pelle.

E probabilmente, sebbene per la seconda volta, anche Trump sta vivendo un momento di grande frenesia, con i suoi corifei internazionali, a partire da Giorgia Meloni, minivalchiria: “Springtime for Trump and United States/ America is happy and gay/ We’re marching to a faster pace…”.

L' ego  carismatico  di Trump sta esplodendo.

Però come detto a Washington fa freddo. Inoltre il film di Mel Brooks era molto divertente. Rivedendolo oggi si ride ancora a crepapelle.

E quello di Trump come sarà? Si  riderà  o si piangerà?

Carlo Gambescia

domenica 19 gennaio 2025

Infantino (e Ortega). Un ricordo cognitivo

 


Purtroppo non abbiamo avuto l’ occasione di conoscere Lorenzo Infantino, scomparso ieri.

Nato nel 1948, calabrese, con studi economici a Siena, cattedratico di fama internazionale, già professore di scienze sociali alla Luiss e in prestigiose università straniere.

Profondissimo studioso di filosofia e metodologia delle scienze sociali, in particolare nell’ambito della sociologia e della scienza politica.

Lo conoscevamo di fama. Quindi nessun aneddoto personale. Il nostro è un ricordo cognitivo. Cioè frutto di letture.

Prima però un passo indietro. Benedetto Croce negli anni Quaranta del secolo scorso manifestò la sua contrarietà alla pubblicazione di The Road to Serfdom: una specie di plotone di esecuzione cartaceo di qualsiasi forma di collettivismo, comandato da Hayek.

Croce temeva l’identificazione tra liberismo e liberalismo. O se si preferisce non vedeva di buon occhio lo stretto legame tra il liberalismo è un determinato modello economico, sempre espressione dello spirito del tempo, già evidenziata nel suo notevole confronto, a più riprese, con Luigi Einaudi.

Croce difende una visione del liberalismo metastorica, maturata soprattutto negli anni della dittatura fascista: la storia come storia di una libertà che si nutre conflitti.

Per Croce la libertà è una specie di contenitore olistico di processi storici solo apparentemente non comprensibili, se non in chiave dello spirito del tempo, spirito che sovrasta gli uomini, soprattutto quando sono sprovvisti di laica fede nella missione metastorica della libertà.

Lunga digressione per dire che Infantino, parte invece da un impianto conoscitivo di tipo contrario, fondato sull’individualismo metodologico ( per capirsi anti-durkheimiano: semplificando l’individuo precede la società e non viceversa). Una visione legata alla potente lezione della Scuola liberale Austriaca (in primis, Menger, Mises, Hayek). Un pensiero giustamente valorizzato da Infantino con la fondazione negli anni Novanta di un’ ottima collana scientifica: la “Biblioteca Austriaca”, per i tipi di Rubbettino.

A nostro avviso al centro della ricca opera infantiniana , almeno un trentina di volumi, per non parlare di curatele e traduzioni, spicca l’idea di ordine inintenzionale.

Sotto questo aspetto incrociammo il suo pensiero, molti anni fa, approfondendo l’opera di Ortega y Gasset.  Alla quale Infantino aveva dedicato acuti studi e notevoli edizioni  negli anni Ottanta, culminati nel 1990 nell’ eccellente introduzione al grande pensatore spagnolo pubblicata da Armando Editore.

Probabilmente l’ottica di Infantino andava oltre lo storicismo orteghiano ( e ovviamente della metastoria crociana), che invece guardava a Dilthey e alle sue categoria semi-olistiche, di cui Ortega non diffidava come Infantino. Certo, sul punto, molto dipende da come si interpreti ,eventualmente, il concetto orteghiano di “circunstancia”. Ortega, crediamo, propendesse per la chiave olistica: l’uomo e la “sua circostanza storica”, come struttura che precede l’individuo. Che poi comunque deve reagire, in quando individuo dotato di libero arbitrio, eccetera.

Diciamo che in linea principio tra Ortega e Croce da una parte e Infantino dall’altra, come fattore divisivo c’è il giudizio su Hegel e di riflesso su Dilthey. Croce e Ortega, tentennano, il no di Infantino invece è inflessibile.

 


Ovviamente Ortega a differenza di Durkheim, non fu mai un costruttivista repubblicano (qui la sua distanza dai modernizzatori con la dinamite del 1931, meno forse dai professori della Terza Repubblica francese). Però Ortega non era neppure un individualista metodologico. Tuttavia il filosofo spagnolo fu sempre distinto da un’ariosa apertura intellettuale di natura anti-assolutista e anti-tradizionalista fondata sull’esercizio metodico del dubbio.

Un aspetto che Infantino colse magnificamente nella sua Introduzione. Unendovi un interessante surplus cognitivo-autobiografico. Come quando, trattando il pensiero orteghiano, parla implicitamente di se stesso, al punto di scolpire intellettualmente, fra le righe, il suo cammino intellettuale. Anche futuro.

Si legga qui.

L’Assoluto può orientare la vita personale di ciascuno; non può però essere una credenza liberatoria. Non c’è più punto di vista privilegiato sul mondo […]. L’enigma esistenziale non può ammettere una ed una sola soluzione. Il che equivale a rendersi conto che la libera interazione fra gli individui posti sullo stesso piano dinanzi alla legge, non ha un risultato predeterminato. […] Gli uomini convivono all’interno di un ordine inintenzionale , ateologico. Questa configurazione della vita individuale e collettiva, ostile a ogni forma di eleatismo, è la formazione sociale che Ortega ha cercato di decifrare, mentre ancora la cultura europea si trovava disorientata e in piena crisi. Egli ha operato lungo la stessa direttrice delle menti più fervide del suo tempo. E, con esse, è entrato a far parte della più radicale delle comunità: quella dei classici, di coloro che ci aiutano ad essere più razionali, perché sanno sollevare nuovi interrogativi, problemi che sopravvivono al proprio tempo” (*).

Una comunità di “menti fervide”, animate per così dire dal dubbio euristico, cioè esteso alle proprie ipotesi di lavoro,  il cui esercizio impone immaginazione sociologica,  grandissima erudizione e umiltà conoscitiva .

Doti che mai mancarono al professor Infantino. 

 Carlo Gambescia

 

(*) L. Infantino, Ortega y Gasset. Una introduzione, Armando Editore, Roma 1990, pp. 21-22 Lorenzo Infantino – unitamente a Luciano Pellicani, altro benemerito orteghiano, diciamo così – ha fornito agli studiosi fondamentali contributi sull’opera di Ortega. Sui quali si rinvia alla bibliografia racchiusa nella sua Introduzione ,  pp. 165-171).

sabato 18 gennaio 2025

“Il Paradiso (sovranista) delle signore”

 


A proposito dell’importanza del latino, che resta cosa per pochi e felici (inutile oracoleggiare, e per giunta in chiave scolastica, sul latino di massa), ricordiamo il detto De minimis non curat praetor (“Il pretore non si occupa di cose di poca importanza”).

Per quale ragione? Perché l’argomento di oggi può apparire cosa di poco conto. E invece proveremo che non è così.

Nessuno è perfetto. Ogni tanto ci capita su Raiplay di vedere una puntata del “Paradiso delle signore”. Fortunatamente in famiglia c’è chi, di volta in volta, ci aggiorna, riassumendo gli ultimi sviluppi, eccetera.

Nella puntata di ieri – qui il (brutto) segno dei tempi – Tancredi di Sant’Erasmo ( nella foto, ultimo a destra in seconda fila), che concentra in sé, tutti gli aspetti del personaggio negativo: aristocratico che più antipatico non si può; spietato imprenditore, da prendere a schiaffi ogni volta che apre bocca; manipolatore parentale e piromane. Che fa, dicevamo, il pessimo Tancredi? Delocalizza. Trasferisce la sua fabbrica di tessuti in Jugoslavia.

Non per vendere capi italiani alla Jugoslavia socialista per caso, comandata a bacchetta dal Tito. Ma, da come si evince, per reimportare o trasferire in Italia. Anno di grazia 1966.

Va detto che proprio in quell’anno la Fiat firmò un accordo con la Russia, allora sovietica, sull’apertura dello stabilimento di Togliattigrad per vendere automobili ai russi. Va anche ricordato che sempre la Fiat, nel 1954 aveva già stipulato un accordo con Belgrado per costruire campagnole e 1400 nello stabilimento Bandiera Rossa, auto sempre  da commercializzare in loco.

Però furono sostanzialmente operazioni, in particolare Togliattigrad, che ebbero il sostegno del governo italiano, che favorì la concessione di prestiti a tassi agevolati ai russi (*).

Nella puntata incriminata, diciamo così, si opta invece per la tesi della delocalizzazione pura, in conto (bassi) costi della manodopera. Si vedono addirittura sfilare infuriate le operai con i cartelli, come si legge, “in difesa del lavoro italiano”. Con Tancredi di Sant’Erasmo promosso ( e bocciato) sul campo a John Elkann. Anacronistico.

Ecco il dettaglio, di cui il pretore, come dicevamo all’inizio, si dovrebbe invece occupare. Perché abbiamo subito avvertito “puzza” lontano un miglio di destra nazionalista, pardon sovranista. Il male si diffonde. Insomma il diavolo è nel dettaglio.

Non sarà – questa la nostra impressione – che si sta preparando, in attesa di normalizzare anche Palazzo Palladini,con il dottor Poggi, come capofabbricato, una lottizzazione delle soap? “Un posto al sole” , soap buonista al centro-sinistra, “Il paradiso delle signore”, soap sovranista alla destra?

Comunque battute a parte, va sottolineato che le due serie hanno in comune l’antipatia per la libera impresa, “Un posto al sole” vede sempre e solo camorristi, “Il paradiso delle signore”, delocalizzatori.

Peccato, perché il “Paradiso”, come all’epoca scrivemmo era partito bene evitando lagne anticapitaliste e anticonsumiste (**) Però nel 2015 era al governo Renzi che aveva fama di modernizzatore, seguito fino al 2018 da Gentiloni, altro riformista.

Altri tempi. Altri Paradisi…

Carlo Gambescia

(*) Qui per un carrellata in argomento: https://www.formulapassion.it/automoto/mondoauto/quando-la-fiat-arrivo-in-urss-togliattigrad#google_vignette .

(**) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2015/12/la-fiction-al-tempodi-renzi-il-paradiso.html#comment-form .

venerdì 17 gennaio 2025

David Lynch o Peter Greenaway?

 


Diciamo subito una cosa antipatica. David Lynch, ora scomparso, fece bene a scegliere il cinema e la televisione perché la sua opera pittorica, come prova il quadro in copertina, era ed è inguardabile (*). Certo, se poi vi si filosofeggia sopra, tutto è possibile…

Però, a dire il vero, anche la sua opera cinematografica non ha mai destato più di tanto il nostro interesse. Altro giudizio in controtendenza. Sì, guardabile, però con troppi canditi.

Nei suoi film si esagera con i richiami simbolici: troppo di tutto, come quei panettoni con troppi canditi, che alla fine disgustano e rovinano il Natale.

Ovviamente parliamo di un rispettabilissimo cineasta, dedito alle pellicole d’autore, però con concessioni come “Twin Peaks”, capolavoro quanto si voglia nel suo genere, ma inizialmente prodotto alimentare. Nell’opera di Lynch, probabilmente perché regista americano, e che quindi doveva fare i conti con Hollywood, si scopre un lato alla Buffalo Bill, che potemmo definire da rodeo onirico. Che pur essendo onirico resta rodeo. E la  critica alla  dialettica negativa  dell'illuminismo?  La si lascia a Marzullo.

Come comproviamo la nostra tesi? Citando, per contrasto, un altro regista, altrettanto amante delle belle arti, ma anche scrittore prolifico e non banale, poco tradotto in Italia. Chi? Peter Greenaway, però britannico, quindi meno coinvolto nei rodei, di quattro anni più vecchio di Lynch (1942 vs 1946), vivente. Il che spiega pure la vittoria al botteghino per 2 a 0  di Lynch e la buonissima stampa su di lui.

Crediamo sia impossibile trovare nell’opera di Lynch un capolavoro come “Il ventre dell’architetto” (“The Belly of an Architect”), girato da Greenawey, nel 1987, in una Roma, senza isole pedonali, al tempo stesso reinventata ma autentica, vera, polverosa, pesante e corrotta sotto le luci cinefile e notturne di un Pantheon torreggiante che oppone gli antichi ai moderni, mai visto prima.

Un film sulla decadenza, che abbraccia per immagini, trama, recitazione, musiche (di Wim Mertens, compositore di bravura non comune), la crisi dell’idea illuminista di purezza e perfezione, che Greenawey coglie nell’illuminismo negativo dell’Altare della Patria romano, che dovrebbe ospitare una mostra curata dall’architetto, il cui ventre è nel titolo del film. Una mostra su Boullée, anch’egli profeta criptoilluminista di una grandiosità urbanistica che affascinerà persino Hitler.

Greenaway scolpisce per immagini il rovesciamento di una grandezza che non c’è mai stata, o che è sfuggita di mano agli assegnatari storici.  Una pericolosa "fame" di grandezza che va da Boullée a Speer? Forse.

Senza esagerare in canditi, che pure non mancano, resta memorabile la chiusa del film. Che consacra il suicidio dell’architetto, Stourley Kracklite, interpretato da un ben diretto Brian Dennehy (lo scerifffo di “Rambo”), che, nonostante la tentazione dell’oro, desidera ancora pianificare grandiose città. E senza badare a spese. Ma come? Se utile e funzionale sembrano ora prevalere? L’Occidente come Crasso, prigioniero dei Parti, sarà costretto a soffocare nel suo oro, versatogli in gola dai carcerieri? No comment.

Basta. Ammalato, tradito, anche dai suoi finanziatori, Kracklite, si lancia dalla terrazza delle Quadrighe, volo finale senza angeli, che simboleggia la capitolazione della ragione davanti agli effetti perversi e imprevisti del suo bisecolare e non facile esercizio. Suicidio dell’Occidente? Il rischio c’è.

Probabilmente sbagliamo, però a Lynch continuano a preferire Greenaway.

Carlo Gambescia

(*) Qui una scelta: https://knightfoundation.org/articles/david-lynch-unified-field-pafa/ .

giovedì 16 gennaio 2025

Valditara e la scuola sovranista: dalla geostoria alla geopolitica

 


Molto interessante l’ intervista al “Giornale” di Giuseppe Valditara, Ministro dell’istruzione e del merito (*). O meglio, la definiremmo chiarificatrice. Dal momento che Valditara non si stanca mai di ribadire di essere un ministro super partes. Sebbene abbia all’attivo un libro intitolato Sovranismo. Una speranza per la democrazia (Book Time, 2018).

E si vede. Perché delinea una riforma della scuola di primo ciclo (elementari e medie inferiori) in perfetta linea con altre sue innovazioni di indottrinamento nazionalista come il Liceo del Made in Italy.

Perché non va la sua riforma? Qualsiasi uomo di cultura superiore, e il ministro è professore di diritto romano, non può ignorare i pericoli del nazionalismo, lo si chiami o meno sovranismo per ripulirlo: il vero cancro che ha divorato la storia del Novecento.

Non aver capito questo significa candidarsi a ripetere gli stessi errori delle generazioni del 1914 e del 1945. E soprattutto non saper distinguere tra la fisiologia e la patologia storica. Tra la formazione degli stati nazionali, si pensi ai “risorgimenti” belga, greco, italiano, eccetera, dell’Ottocento, e il nazionalismo aggressivo, che ha condotto a due guerre mondiali, e per venire ai nostri giorni, all’ invasione russa dell'Ucraina.

Ci limitiamo a un punto centrale, diciamo ideologico della riforma, probabilmente sfuggito anche ai critici più severi. Valditara propone la sostituzione della geostoria, oggi insegnata nelle scuole, con la storia come grande narrazione epica dell’Italia e dell’Occidente.

In realtà la geostoria, come osmosi tra storia e geografia, una brillante ricetta storiografica, che risale all’ École des Annales (Bloch, Febvre, Braudel), rappresentò una sana reazione intellettuale al virus nazionalista, prima e dopo la Seconda guerra mondiale (**).

Si pensi a una grande storia sociale dell’umanità, che trova la sua ragione nell’apprezzamento di un mondo geograficamente e culturalmente plurimo ma al tempo stesso in costante comunicazione economica, culturale e politica. Una storia corale, segnata dall’idea della cooperazione, spesso neppure intenzionale, tra gli uomini. Di qui l’inutilità, che non significa inevitabilità, delle guerre, quindi del conflitto.

La geostoria veicola l’idea del superamento delle barriere tra gli uomini. Della geografia come ponte tra gli uomini. E questo perché privilegia il flusso culturale e non il riflusso nazionalista. Come invece impone l’ approccio del ministro Valditara, da lui esteso non solo all’Italia ma all’idea stessa di un Occidente fortezza , ben lontana dall’idea di un Occidente liberal-democratico, come libero mercato aperto al mondo.

Il che non significa, sul piano politico, che la liberal-democrazia non debba essere difesa, se serve anche con le armi, ma che una cosa è il pacifico spirito di nazionalità, al servizio degli scambi economici e culturali, un’ altra il nazionalismo aggressivo apportatore di guerre e distruzioni.

L’autodistruttiva stupidità nazionalista delle destre (si pensi al Dio, Patria e Famiglia di Gorgia Meloni, all’America first 2.0 di Donald Trump, al neo nazionalismo panrusso di Putin) consiste nel voler inculcare nei bambini delle scuole elementari e nei ragazzi delle medie inferiori le stesse idee di potenza, estendendole all’intera storia dell’ Occidente euro-americano, che condussero a due terribili guerre mondiali.

Si badi bene, il rifiuto della geostoria non rinvia automaticamente a un’ innocua storia epica delle nazioni e degli imperi, come asserisce Valditara.

Tutt’altra cosa. Una volta rotti i ponti della geografia degli scambi, l’accantonamento della geostoria rischia di rimandare alla geopolitica, pseudoscienza prediletta da fascisti, nazisti e dai seguaci, anche attuali, della politica di potenza. E che vede, ripetiamo, nella geografia non un ponte ma una barriera.

Insomma, la geografia può essere ponte e può essere barriera. In ultima istanza sta all’uomo decidere. Però più si insiste sull’idea geografica di barriera più cresce il pericolo di una geopolitica di guerre e distruzioni

Di conseguenza le idee nazionaliste di Valditara non aiutano.

In sintesi, nella sua riforma, il netto rifiuto della geostoria, quale introduzione ai rapporti pacifici tra i popoli, quantomeno come idea regolativa, rischia inevitabilmente di tradursi nella valorizzazione delle geopolitica, vista come preambolo teorico alle necessarie guerre tra i popoli.

Perché una cosa è dire che le guerre talvolta sono inevitabili, qui la grande lezione della geostoria, e qui si pensi alla titanica lotta tra liberal-democrazie e nazi-fascismo; un’altra preparare il terreno a svolte geopolitiche che scorgono nella guerra e nei conflitti fenomeni necessari se non addirittura vitali.

Pertanto delle due l’una: o Valditara mente, o non si rende conto di quel che dice.

Nel primo caso è pericoloso, nel secondo incosciente.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ilgiornale.it/news/politica/pi-storia-dellitalia-senza-ideologia-2423058.html.

(**) Tra i suoi collaboratori spicca il nome di Ernesto Galli della Loggia, autore nel 1980 di un magnifico libro di geostoria: Il mondo contemproaneo (il Mulino). Ne è passata di acqua sotto i ponti…