giovedì 2 maggio 2024

Gianfranco Fini e Giorgia Meloni, un raffronto

 


Gianfranco Fini non è mai stato un pozzo di scienza.  Per capirsi:  né un intellettuale prestato alla politica (sebbene laureato in pedagogia), né un politico prestato alle idee (leggeva pochissimo, solo l’essenziale). Voleva smarcarsi da Berlusconi, guardava a una destra aperta ai diritti civili, più per altrui consiglio che per convinzione personale.

Aveva le carte in regola per creare una destra libertaria? Capace addirittura di incalzare la sinistra, come sostenevano alcuni intellettuali a lui vicini? Molti dei quali oggi passati armi e bagagli a Giorgia Meloni, che invece deride, perché ritenuta di sinistra, qualsiasi battaglia sui diritti civili?

In realtà Fini non aveva in testa alcuna idea, né libertaria, né neofascista. Non sapeva nemmeno lui dove far approdare Alleanza Nazionale. Fini rappresentava il classico caso dell’uomo fortunato, ma senza qualità, diciamo l’eroe per caso, che per una serie di circostanze propizie si ritrova ad assumere un compito che non è capace di assolvere. 

Perciò, alla lunga, addirittura  dopo tre lustri di potere, non poteva non commettere il fatidico errore. E lui ne commise almeno due: fidarsi di un pugno di opportunisti politici, intellettuali e giornalisti, peggiore di lui, e circondarsi, a livello familiare, delle persone sbagliate. E gli errori, prima o poi si pagano. Anche sul piano giudiziario, come prova la condanna dell’altro ieri.

Giorgia Meloni invece è l’esatto contrario, come ora spiegheremo. Va però prima detto che in una cosa somiglia a Fini: legge pochissimo. A parte Il Signore degli Anelli, gli ultimi libri, quelli di studio, li ha letti, probabilmente, alle superiori. Però, rispetto a Fini, il suo potere, non è frutto di circostanze fortunate. Ha lavorato duro. Controlla il partito, che ha ricreato dal nulla, con un rigore ignoto a Fini, uomo sostanzialmente pigro, anche nel punire i nemici. Per contro la Meloni teme le congiure di palazzo e, come scrivono i retroscenisti, si circonda di persone fidate a livello familiare e generazionale.

Quanto all’ideologia fascista, se Fini, pragmatico per pigrizia, non si poneva troppi problemi nel liquidare un’ingombrante eredità, la Meloni, autentico ritratto dell’industriosità politica, la usa, contrariamente all’ondivago e molle Fini, per ricompattare i suoi. 

Conosce quali tasti toccare. Ovviamente in versione continuità missina: del patriottismo di partito. Una linea di continuità partitica che però salta l’esperienza di Alleanza Nazionale  e di Futuro e Libertà: partiti “badogliani”, soprattutto il secondo,  come impone  l’indimenticata retorica missina del "tradimento", lungo un percorso  va dal  25 Luglio alla nascita  di Futuro e Libertà. Partiti  che infatti la Meloni non nomina mai  nei suoi discorsi.

Giorgia Meloni crede in quello che dice? Oppure no?

Difficile dire. Si può solo asserire, con certezza, che i suoi silenzi sul fascismo e sull’antifascismo, come del resto il patriottismo missino, non favoriscono l’evoluzione liberal-democratica di Fratelli d’Italia. Anzi favoriscono il passo del gambero.

Si rifletta su un punto fondamentale. Anzi su una differenza fondamentale.

In Gianfranco Fini, la miscela tra povertà intellettuale e pigrizia personale  aveva in qualche modo avviato processi di riconversione ideologica, con effetti non previsti, addirittura sorprendenti, in chiave libertaria. Che poi il libertarismo riuscisse a mettere radici è un’altra storia.

In Giorgia Meloni la povertà intellettuale si mescola all’ operosità, all’ardore, alla militanza, allo slancio politico. Però, dal momento che alle sue spalle, come un blocco di granito, c’è una cultura politica reazionaria, la sua solerzia politica ricorda quella del fascista, interpretato da Ugo Tognazzi ne “Il Federale” di Luciano Salce: il fascista stolido “del buca… sasso… buca con acqua”.

Detto altrimenti: con l’ “armadio” politico Gorgia Meloni (sebbene fisicamente sia tutt’altro) vanno esclusi, per il futuro, effetti ideologici imprevisti. Fratelli d’Italia andrà dritto per la sua autostrada del gambero. Questa volta nessuna fermata all’autogrill libertario.

Esageriamo? Si pensi al veto Scurati. Come non definire stolida, per la sua superficialità, la tesi dei milleottocento euro? Cioè il ridurre una questione di principio, quella del fascismo-antifascismo, a una questione secondaria di conti della serva.

Attenzione: se il veto non fosse frutto di stolidità, sarebbe addirittura peggio. Perché la sistematica denigrazione dell’avversario ridotto a nemico da distruggere moralmente (ma non solo, come insegna la storia fascista e neofascista) resta estranea alla dinamica politica liberal-democratica.

Nelle ultime scene  del  film di Salce,  Tognazzi rischia la fucilazione. Un professore liberale lo salva. Alla fine della pellicola si vede Tognazzi che scappa, dopo aver visto la morte con gli occhi.

Alla fine, si badi. Qui, invece, con Gorgia Meloni, probabilmente, siamo un’altra volta ai titoli di testa.

Carlo Gambescia

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