Nessuna meraviglia per il mezzogiorno di fuoco slovacco. Cioè per le pistolettate di ieri che hanno colpito, sembra gravemente, il premier Fico.
Se si potesse tracciare un grafico in argomento, si scoprirebbe che, limitandosi al Novecento, l’ Europa orientale ha un tasso di omicidi politici (a cominciare da quelli dei leader) superiore alla media dell’Europa occidentale. Diversa la storia, diverso anche il rapporto con la politica e con la violenza come continuazione della politica con altri mezzi.
Come possiamo affermare una cosa del genere? Basta guardare, come detto, alla storia e alla sociologia di quei paesi.
L’Est Europa (inclusi quindi i paesi balcanici), tra Seicento e Ottocento, non ha conosciuto, come in Occidente, né lo sviluppo di una borghesia, né delle istituzioni parlamentari, né di una libera stampa. Il discorso pubblico liberale, per limitarsi al Novecento, non è praticamente mai esistito. La famigerata “Cortina di ferro” tra Occidente e Oriente europeo proviene dalle mancate rivoluzioni liberali ottocentesche, o comunque appena abbozzate, delle quali si è però accettato e prolungato il truculento aspetto nazionalistico.
Il populismo, nell’Est, non è rivolto, come a Ovest, solo contro i migranti, ma affonda le radici in una società arretrata e chiusa in se stessa.
Sotto questo aspetto, fin dall’Ottocento (ma in alcuni casi, ancora prima, come in Polonia e Ungheria), un proprietario terriero ungherese, polacco, baltico, bulgaro, rumeno, all’interno di società largamente agricole e arcaiche, scorgeva inevitabilmente nel liberalismo il nemico principale: l’agente politico, estraneo alle tradizioni locali, che voleva sottrarre il contadino, animale da lavoro, a una paternalistica condizione di semischiavitù.
L’unico esempio di una democrazia parlamentare, quasi funzionante, e di una interessante apertura ai traffici economici, rinvia alla Cecoslovacchia tra le due guerre. Una transizione alla democrazia occidentale soffocata però da Hitler. Con una precisazione: la Slovacchia, oggi stato indipendente era, già allora, rispetto alla Boemia e alla Moravia (l’attuale Repubblica Ceca), una regione più arretrata politicamente ed economicamente.
Pertanto, ripetiamo, non c’è da meravigliarsi più di tanto del fatto che un premier slovacco sia stato ieri preso a pistolettate. Lì si usa così.
Nella cultura politica dei paesi dell’Est la violenza, come eliminazione fisica dell’avversario politico, tramutato in nemico, resta una componente significativa. Poi, ovviamente, ogni caso è a sé, e ne vanno indagate le ragioni particolari.
Famiglie reali massacrate (Jugoslavia), ministri linciati, imprigionati e “suicidati” ( Ungheria, Bulgaria, Romania), ricorso periodico alle dittature militari (Polonia e Ungheria), feroci conflitti briganteschi (croati, sloveni, serbi, bosniaci, albanesi, macedoni, montenegrini). La stessa Austria-Ungheria deve il suo capitombolo finale al più classico degli attentati politici, quando la pistola del bosniaco Gavrilo Princip colpì a Serajevo.
E su tutto questo scenario, di sangue, terrorismo e disordine, nella seconda metà del Novecento calò il tenebroso sipario, prima dell’occupazione nazista, poi della dominazione comunista. Va anche sottolineato, che il panslavismo, a guida russa, fino alla caduta dei Romanov, guardò sempre con favore, come portato delle tradizioni autoctone, allo sviluppo di un potere capace di estendersi a Occidente fino all’Adriatico. E oggi la Russia sembra voler rinverdire la tradizione zarista.
Di qui, in passato, le resistenze ungheresi e rumene: popoli che ovviamente non si riconoscevano nelle tradizioni slavofile della Grande Madre Russia. Un nazionalismo, di reazione, presente anche in un potente comunista croato come Tito.
Infine non può essere dimenticato l’antisemitismo diffuso e i conseguenti e periodici eccidi di ebrei. I famigerati pogrom in cui si distinguevano, tra gli altri, russi, rumeni e polacchi.
Poteva il peso della storia essere cancellato con un colpo di spugna Ue? Non crediamo.
Certo, c’è da augurarsi, che con il tempo il moderno discorso pubblico liberale sia accettato diffusamente anche all’ Est. Ma non ne siamo molto convinti . Almeno per due ragioni. Per un verso a causa dello spettro russo, e per l’altro per la naturale lentezza (in senso storico) della acculturazione politica.
Sotto questo aspetto – del trend “secolare” – personaggi come Orbán (ma anche lo stesso Fico), che si definiscono addirittura liberali, sono un prodotto storico del paternalismo austro-ungarico e del totalitarismo comunista. Nella cultura dell’Est europeo non è mai esistita una cultura liberale e pacifica delle minoranze. Si è sempre puntato sulla libertà per se se stessi, opprimendo gli altri, oppure mettendo gli uni contro gli altri (gli Asburgo erano veri maestri in questo). Per dirla in termini metapolitici: l’esclusione prevaleva sull’inclusione.
Risparmiamo al lettore le tremende storie sulle spartizioni di popoli, trattati come bestiame. Spartizioni messe in moto, per quel che riguarda il Novecento, dalle guerre balcaniche del 1912-1913 e dal successivo crollo, del resto inevitabile, di due imperi: l’ Austro-Ungarico e l’Ottomano. Mentre l' impero russo fu sostituito dalle gerarchie sovietiche, altrettanto oppressive, come prova la storia dell’Ucraina, schiacciata prima dai Romanov, poi dagli zar comunisti e postconunisti.
Parliamo di nazioni, con dentro tuttora forti minoranze linguistiche e politiche, che da più di un secolo non conoscono pace. Il che spiega, ad esempio, l’alta temperatura nel Kosovo.
La caduta del comunismo ha aperto le porte a una democrazia di tipo liberale e occidentale e all’estensione dei diritti, politici, civili ed economici.
Però, come è sotto gli occhi di tutti, ancora resta tanta strada da fare.
Carlo Gambescia
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