venerdì 31 maggio 2024

Giorgia Meloni e la sindrome Dumini

 


Quando è in gioco la mentalità culturale, cioè qualcosa che plasma un ambiente sociale e politico, certe dichiarazioni individuali, soprattutto di un leader politico, andrebbero soppesate attentamente. Non amplificate per far piacere ai potenti di turno.

Di che parliamo? Il lettore avrà intuito. Di Giorgia Meloni, che su Matteotti non dice nulla di nuovo, se non per i telegiornali di stato e una stampa fin troppo benevola.

Che ha detto la Meloni? Che Giacomo Matteotti fu ucciso dagli squadristi fascisti. Che novità… All’epoca lo riconobbero perfino Mussolini, che sapeva tutto fin dall’inizio, e gli stessi giudici, filofascisti, che condannarono Amerigo Dumini, insieme ad altri due quadristi, a cinque anni ritenendolo colpevole di “omicidio preterintenzionale”, poi condonati, eccetera.

Dopo di che Mussolini e il fascismo continuarono, e con protervia, sulla stessa strada, fino al sacrosanto capitombolo finale. Ci vollero vent’anni di aspersorio e manganello e una catastrofica guerra mondiale, causata dall’Asse, per liberarsi dalla maschera di ferro del fascismo.

Di questo deve parlare Giorgia Meloni. E soprattutto dei Dumini culturali che popolano tuttora la cultura della destra. E che riflettono una mentalità fascista, quindi intollerante, rissosa, sopraffattrice.

Si legga oggi il fondo di Veneziani su “La Verità”: è di un disprezzo e di una violenza verbale senza pari nei riguardi degli intellettuali di sinistra che Mazza, Sangiuliano, Meloni, nonostante i solti giri di parole, hanno escluso da Francoforte.

Li si sequestra e li si picchia idealmente come se la Ceka fascista, ora culturale, non fosse mai andata in pensione. Si dice che fanno le vittime. Come si diceva di Matteotti, prima di massacrarlo di botte. 

Si rifletta. La stessa Ceka alla quale apparteneva Dumini. Che però preferiva la vie di fatto col beneplacito del duce. Mai dimenticare che Mussolini, come Sorel (uno dei suoi pensatori preferiti), era affascinato dai metodi violentissimi di Lenin.

Attenzione, Veneziani (che pecca, tra l’altro, di assoluta mancanza di fair play: lui a differenza di Saviano va a Berlino), Mazza, Sangiuliano, sono satolli. Veneziani, che fa tanto il duro e  il puro, è un ex Consigliere di Amministrazione Rai, Mazza, già giornalista Rai ai massimi livelli, come del resto Sangiuliano, ora Ministro, prima direttore del Tg2. Si noti l’incrocio, non casuale crediamo, tra carriere ascensionali e televisione di stato.

Quindi, per dirla alla buona, potrebbero pure godersi le posizioni raggiunte ed essere magnanimi con gli antichi avversari della sinistra. No. Invece infieriscono. Che bassezza morale. Sono cekisti nell’anima. Altro che “nobilità della sconfitta”, come scriveva  Veneziani al tempo delle vacche magre. Diciamo che il principio valeva solo per la destra.

Di questo dovrebbe parlare Giorgia Meloni. Di come liberarsi della sindrome Dumini. Che, prima che materiale, è culturale. Quindi più profonda, cattiva e pericolosa per la nostra libertà.

Carlo Gambescia

giovedì 30 maggio 2024

Buchmesse 2024 e giacobinismo culturale

 


Andiamo subito al punto. Il problema non è la discriminazione presunta o meno di Roberto Saviano ma l’idea statalista che un “Commissario del Governo”, straordinario o meno,  debba gestire la cultura italiana all’estero, nel caso specifico la Fiera del libro di Berlino 2024, con l’Italia ospite d’onore. Il vero nemico è il giacobinismo culturale. Ci spieghiamo.

A parte i costi non lievi dell’operazione Buchmesse 2024 (*), sono cose che andrebbero gestite direttamente, dagli stessi editori. Ad esempio da una camera di commercio del libro, ovviamente di natura privata, non pubblicistica come in Italia. Si chiama visione liberale. 

Che aspetta l’ AIE (Associazione Italiana Editori) a liberarsi del busto di gesso statalista? Cipolletta, suo attuale presidente, fa il liberale ma solo a parole. Vuole la politica industriale come Landini. Dio li fa poi li accoppia.

Sicché si ricorre al “Commissario” con gli spaghetti. Si pensi al famoso sonetto di Trilussa sui fratelli litigiosi in politica: “ ma appena mamma ce dice che so’ cotti gli spaghetti semo tutti d’accordo ner programma”.

Parola – “Commissario” – che risale alla fase giacobina della Rivoluzione francese. Quando i commissari avevano potere di vita e di morte su incarico del Comitato di Salute Pubblica. Perciò il ruolo del commissario, pur cambiando i tempi e i modi, era ed è politico.

Invece politica e cultura, parafrasando un grande statista liberale, sono due parallele che non debbono incontrarsi mai. Quando si incontrano si inverte tutto, perché esiste una geometria della cognizione. Ignorata, con tutte le negative conseguenze del caso, da un strabico giacobinismo di destra come di sinistra. Per capirsi Lenin e Mussolini erano tanto giacobini quanto Robespierre.E da questo corto circuito politico destra e sinistra non sono più uscite. Come per i cani della stessa razza, cambia solo il collare.

Pertanto un commissario di sinistra coopterà scrittori e intellettuali in sintonia, un commissario di destra farà altrettanto, mobilitando intellettuali contigui ideologicamente.

Mazza è di destra. Proviene dal Movimento sociale. Si è formato giornalisticamente al "Secolo d’Italia", con colleghi come Gennaro Malgieri (**). Una contiguità ideologica, lasciando stare tutto il resto, che può spiegare l’invito rivolto a quest’ultimo e l’ automatica esclusione di Saviano, un non sintonico che rompe pure le scatole (secondo la destra).

Sono cose che accadono quando la politica  si fa stato, e lo stato si fa cultura. E nomina i commissari. In Italia l’idea del controllo politico della cultura è un’eredità del fascismo, con forti venature comuniste e cattoliche post belliche. Idea totalitaria, come quella dei commissari giacobini.

E qui nasce un altro problema. Per ragioni di scarsità (gli intellettuali della destra meloniana, di ascendenza missina, sono pochi e quei pochi, neppure belli e non ballano), il “Commissario Giacobino” Mazza non ha potuto non allargare, diciamo obtorto collo, anche alla sinistra o comunque a personalità contigue. Prevale così il rosa-nero: ad esempio Dacia Maraini e Pietrangelo Buttafuoco. Una raffinata scrittrice paleo-femminista e un femminaro paleo-nazista…

Però si scorrano gli altri nomi (***). Solo per fare un esempio si noterà subito la grande differenza di qualità tra Gennaro Malgieri e Claudio Magris. Che ne sa Malgieri di cultura mitteleuropea e russa? Ci insegna ciò che ha imparato il giorno prima? Bah…

Inoltre la parte saggistica è quella spiccatamente orientata a destra: Zecchi ( già spengleriano-costanziano), Guerri (dannunziano postmoderno), Campi (cacciatore stagionale di tartufi politologici), Mecacci (autore di un libro revisionista sulla morte di Gentile), Veneziani ( spengleriano di Bisceglie), il citato Malgieri. E così via.

Però ripetiamo, il problema non è quello di fare la conta contrapposta degli esclusi e degli inclusi. Ma di azzerare tutto. Eliminando qualsiasi traccia di giacobinismo, rosso o nero che sia. A cominciare proprio dalla figura del “Commissario”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://presidenza.governo.it/AmministrazioneTrasparente/Organizzazione/CommissariStraordinari/DPR%20MAZZA_20231221.pdf .

(**) Si veda, tra nostalgie giovanili  e nostalgismo politico (però con la polizza di assicurazione Rai), Mauro Mazza, I ragazzi di via Milano, Fergen 2006,  pp. 105-106 in particolare.

(***) Qui: https://www.giornaledellalibreria.it/news-fiere-e-saloni-italia-ospite-donore-2024-ecco-le-autrici-e-gli-autori-che-il-programma-aie-portera-alla-fiera-del-libro-di-francoforte-6111.html . E qui: https://www.aie.it/Buchmesse2024/ElencoAutoriFrancoforte.aspx?Pag=0&ModId=19570 .

mercoledì 29 maggio 2024

"Stronza"? No, squadrista

 


“Presidente De Luca, quella stronza della Meloni. Come sta?” (*). 

Questa l’espressione usata da Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, ieri a Caivano, nei riguardi di Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania. Da carica istituzionale a carica istituzionale.

Già conosciamo la risposta degli aficionados, quelli del “Giorgia insegnaci la vita”. Ha cominciato per primo De Luca, definendola tale, in passato, con i giornalisti parlamentari.

De Luca è un ex comunista, che talvolta scivola nel macchiettismo. Fa sorridere e perfino ridere. Giorgia Meloni no. È truce. Come gli squadristi. E non fa nulla per nascondere questo lato tenebroso, che ultimamente sembra spiccare perfino sul piano delle normali relazioni istituzionali: dal “me ne frego” al turpiloquio. Per non parlare del suo rapporto speciale con un condannato all’ergastolo.  

Che dire? "Mostra i denti il pescecane/E si vede che li ha/Un coltello, solo, ha Mackie...".

E i lettori, badino bene, questo è solo l’inizio. Purtroppo quel che si stenta a capire (e i mass media non aiutano) di questa nuova Opera da tre soldi,   è che  Mackie Messer  ora  fa lo   squadrista, quantomeno sul piano della mentalità.

Che cos’era lo squadrismo? Un’organizzazione paramilitare che aveva lo scopo di intimidire e colpire fisicamente, ricorrendo alla violenza, gli avversari politici.

La caratteristica principale dello squadrismo fascista era l’intolleranza verso gli avversari politici, tramutati in nemici da eliminare. Squadrismo come strafottente, assoluta, convinta violazione delle regole dello stato di diritto. Nel dubbio menare. Anche solo verbalmente. Ecco il credo dello squadrista.

Per ora Giorgia Meloni si limita alla strafottenza. Cioè ad assumere un atteggiamento arrogante e irriguardoso nei riguardi degli avversari. Ovviamente in questo modo riesce a tirare fuori il peggio dai suoi interlocutori. Lavora per la guerra civile.

Chiunque abbia studiato con attenzione l’antropologia sociale dell’ estrema destra (cioè i suoi modelli di comportamento sociale), sa benissimo che il ricorso alla violenza verbale e fisica, in un mondo che ha sempre privilegiato l’azione al pensiero, è la norma. Pertanto Giorgia Meloni non può non “pensare” da squadrista: l’acqua della vasca politica in cui ha sempre nuotato è quella del militante che entrava in sezione armato, discuteva di linea politica, a colpi di insulti, per poi tirare fuori la pistola, minacciare gli astanti, a sua volta minacciato.

Per ora, Giorgia Meloni ricorre al manganello linguistico. In pubblico. Il lettore invece faccia mente locale sul privato: provi a immaginare che razza di comportamento la Meloni assumerà, una volta lontana dalle telecamere, con i suoi dirigenti e militanti: i retroscenisti, quelli che dei politici sanno tutto, si guardano bene dal riferirne.

Quel che è accaduto ieri a Caivano imporrebbe le dimissioni. Non ha precedenti nella storia repubblicana. Almeno in quella immortalata dalle telecamere.  La Meloni non mostra alcun ritegno. Mattarella dove sei?

A prescindere dalle dimissioni, servirebbe, come minimo, una seria riflessione sui rischi di una simile deriva. E invece? Oggi la stampa, anche di sinistra, con rare eccezioni, parla genericamente di “scontro” con De Luca. Pari sono insomma… E questo purtroppo è l’effetto di ricaduta su destra e sinistra di trent’anni di populismo a colpi di piazze televisive e conduttori compiacenti.

In realtà, il punto non è, come titola “Domani”, che dietro le parolacce della Meloni c’è il nulla.

Non è vero: c’è lo squadrismo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/videogallery/italia/2024/05/28/la-premier-saluta-de-luca-sono-quella-stronza-della-meloni_08dd32f7-28e1-4eb5-bd03-96ca058a0ef8.html .

martedì 28 maggio 2024

Antimodernismi. Da Pio X a Francesco

 


Qualche anno fa un giornalista chiese a Storace di dire qualcosa di destra. E lo sventurato rispose così: “A frocio!”.

Ora sembra che anche papa Francesco abbia detto qualcosa di destra a proposito dei seminari e dell’accettazione di futuri sacerdoti gay, tipo, “Basta così perché già nei seminari c’è troppa frociaggine”…

Al di là delle battute di Storace ( e pure del papa), riteniamo che dalla chiesa in quanto tale, certi laici si aspettino troppo. La cultura di base, per quanto zuccherosa e solidarista, è rimasta quella novecentesca che nella migliore delle ipotesi vedeva nel “diverso” persona che si “doveva curare”. L’omosessualità come malattia. I famosi “uomini sessuali” rispolverati da Checco Zalone.

La chiesa tuttora ritiene che chi abbia gusti sessuali non conformi, soprattutto se prete, sia destinato “a cadere in tentazione” più di chi li abbia conformi. Questa, sembra essere, la tesi del papa. Ha un fondamento scientifico? Per ora no. Forse razzista.

Pertanto, ripetiamo, c’è tanto Novecento machista, fascista e peronista, in quel che dice Francesco. Sebbene  espresso in forme diverse. Ci spieghiamo.

Più di cento anni fa il modernismo cattolico, condannato nel 1907 addirittura con una Enciclica, si proponeva, molto dottamente, di studiare la storia del cristianesimo come quella di qualsiasi altra religione.

Oggi, che invece il livello culturale  si  è abbassato,  modernismo e  critica al modernismo si muovono  su altri piani. Niente più Encicliche come la “Pascendi” di Pio X.  Niente  più  giornate trascorse in biblioteca. Sicché  la critica  della Chiesa  è meno diretta. Non è più a priori ma a “posteriori” …

A ogni secolo la sua pena.

Carlo Gambescia

lunedì 27 maggio 2024

Serial killer fascista e poliziotto liberal-democratico

 


La retorica è l’arte di persuadere con le parole.  Non è neutrale. Può essere basata sulla transigenza e sull'intransigenza.  In base ai gradi    di rispetto  rivolti   verso l'interlocutore, diciamo verso la sua intelligenza. Spesso, infatti,  dietro l' apparente transigenza si nasconde l'intransigenza.  Si legga qui quanto ha dichiarato Giorgia Meloni sulle possibili alleanze post elezioni europee.

«Se sono disponibile ad alleanze con l’estrema destra in Europa? Io non do patenti di presentabili, sarà perché a me sono state date per una vita, queste cose le decidono i cittadini”, dice Meloni, ospite di ‘In mezz’ora’. “Il mio obiettivo – sottolinea – è una maggioranza di centrodestra”, è quello di “mandare la sinistra all’opposizione anche in Europa”. “Di sicuro non sono disposta a fare alleanze con la sinistra, tutto il resto si vede” » (*).

Forse saremo ripetitivi. Ma notiamo che su quanto stiamo per dire i mass media non insistono con sufficiente forza argomentativa .

Partiamo dal concetto delle “patenti di presentabilità”. L’ idea di presentabilità risale al 1945. Come poteva essere definito presentabile un fascista. Due serial killer, come Hitler e Mussolini, che titolo di “presentabilità” potevano vantare? Fascismo e nazismo sono e restano impresentabili. Il Movimento Sociale, partito neofascista, è stato discriminato nel senso che i partiti liberal-democratici si rifiutavano giustamente di governare con i fascisti dopo Mussolini. Se Giorgia Meloni, come ripete continuamente, ha subito discriminazioni, le ha subite, con ragione, perché in qualche modo legata al partito dei serial killer. Con i fascisti non si può transigere.

Altro concetto, “mandare la sinistra all’opposizione”. Si tratta di un’idea che rinvia alla normale dialettica parlamentare. Pertanto a prima vista può apparire come il portato di una normale fisiologia liberal-democratica. Che c’è di male? La minoranza diventa maggioranza e così governa, eccetera, eccetera. In realtà il problema è che gli Hannibal Lecter politici non rimandano alla fisiologia ma alla patologia politica.

Pertanto la retorica di Giorgia Meloni, volta a convincere gli elettori, punta a normalizzare - ecco la bonomia, la transigenza, "siamo tutti democratici"  -   i serial killer politici per favorire - semplificando - l'intransigenza fascista.   Alla quale per difendersi le liberal-democrazie. piaccia o meno, devono rispondere con l'intransigenza. E' questione di vita o di morte.

Meloni  tramuta in fisiologico ciò che invece è patologico. Per capirsi: l’idea di mandare all’opposizione la sinistra è apprezzabile, ma non condivisibile, se per favorire questo progetto, l’elettore deve consegnarsi mani e piedi legati agli eredi politici dei serial killer.

L’artificio retorico di fondo è nel mescolare le acque, cioè nel confondere volutamente le cose: la liberal-democrazia e i suoi nemici. Insomma, mischiare capre e cavoli. Cioè concetti appartenti a classi differenti. Il che rischia sempre di risolversi – ecco il punto politico – in un pericoloso e immeritato vantaggio competitivo per la destra di estrazione fascista. Si può essere transigenti con i serial killer? No.

Concludendo, il vero nodo delle elezioni europee è nel rifiutare o meno – semplificando al massimo – la distinzione tra serial killer fascista e poliziotto liberal-democratico.

Ed è grave che non pochi mass media (per non parlare dei social) non si pongano il problema, e soprattutto non lo pongano a Giorgia Meloni.   Peccando così di credulità e di transigenza con gli intransigenti.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/ucraina-meloni-nato-stoltenberg_12bwz9lKeORY7UBrVEjAz .

 

domenica 26 maggio 2024

Destra. Italia e Spagna, un raffronto

 


Ieri con un caro amico spagnolo si ragionava di Vox e Fratelli d’Italia. Proponendo alcuni raffronti.

In realtà, Vox e Fratelli d’Italia non rivendicano mai esplicitamente il franchismo e il fascismo. La tecnica è più o meno la stessa, silenzio e rimozione dal discorso pubblico.

Con una differenza fondamentale però. Santiago Abascal viene dal Partido Popular , Giorgia Meloni, rivendica la popria identità missina, cioè di un partito dalle radici fasciste. Le famigerate “radici che non gelano”.

Il Partido Popular spagnolo è nato dalla riunificazione delle destre legatarie disposte ad accettare (semplifichiamo) i principi del liberalismo, dell’alternanza, del pluralismo (Aznar) e quelli di un realismo politico, grato per certi aspetti dell’opera di Franco, ma con lo sguardo decisamente rivolto verso il futuro ( Fraga Iribarne).  Il Partido Popular spagnolo, oggi è un partito europeo nel senso pieno del termine, liberal-democratico, europeista, filo-occidentale, favorevole all' economia di mercato.

Vox in qualche misura ne è la costola destra, molto a destra, ma esterna diciamo. Un partito, parliamo di Vox, che purtroppo, questo sì, al momento, sembra desiderare di spostarsi ancora più a destra. Di qui la sua crescente simpatia per Fratelli d’Italia.

Il che a nostro avviso è un errore. Come nel gioco dell’oca, il rischio è quello di tornare indietro alla casella iniziale da cui sono partiti Fraga e  Aznar (semplifichiamo). Si chiama anche involuzione politica.

In realtà Giorgia Meloni rinvia, per simpatie ideologiche, a Blas Piñar, che respinse la “transizione” alla democrazia, e fondò un partito di nostalgici, neofranchista, dallo scarso successo, Fuerza Nueva, scomparso nel 1982. Partito che aderì all’Eurodestra voluta all’epoca dal leader neofascista Giorgio Almirante. Alleanza che che includeva lepenisti e ammiratori greci dei colonnelli.

Dicevamo Blas Piñar. In reltà alle spalle (ideologiche) di Giorgia Meloni, che, praticamente, ha cancellato l’esperienza di Alleanza Nazionale (non ne parla mai), c’è Almirante, un Blas Piñar, più abile, pragmatico e fortunato. Il Movimento Sociale Italiano si consolidò come presenza stabile all’estrema destra del Parlamento fino al suo scioglimento nel 1995. Quando, dalle sue ceneri, nacque Alleanza Nazionale, guidata da Gianfranco Fini. Partito ufficialmente durato fino al 2009, confluito nel Popolo della Libertà di Berlusconi, per poi uscirne e dissolversi di fatto nel 2015. Dopo di che venne il turno (2012), come sembra fortunatissimo, di Fratelli d’Italia, tornato fedele all’identità missina. Che vede Giorgia Meloni al suo comando dal 2014.

In realtà è come se oggi, ideologicamnete parlando, governassero i nipotini politici di Almirante, un Blas Piñar consolidatosi.

Almirante rivendicava il neofascismo in modo più sobrio, Piñar meno: il suo rapporto con l’eredità ideologica di Franco (un dittatore che a differenza di Mussolini tenne fuori la Spagna dalla Guerra mondiale e ne favorì la modernizzazione) era più fitto.

Certo Vox, al momento,  è su un piano inclinato, il rischio “ritorno alla casella di partenza” è reale. Ma tra Santiago Abascal e Giorgia Meloni, è quest’ultima ad essere a più destra, nel senso delle radici fascista. Quindi è l’Italia a rischiare di più.

Oggi la Spagna, fortunatamente, ha la sua Alleanza Nazionale: il Partido Popular. Un partito che però ha dimostrato, a differenza di Alleanza nazionale, di aver completato il processo di liberal-democratizzazione. Una forza politica, piaccia o meno, totalmemte affidabile sul piano costituzionale ed europeo. 

Cosa che invece, come detto, non è accaduta in Italia: Fini, personaggio politico mediocre, è andato a fondo. Di conseguenza Almirante e Blas Piñar parlano attraverso Giorgia Meloni. Diciamo pure che nella leader di Fratelli d’ Italia la traccia almirantiana è più visibile: il famigerato manganello e doppio petto. Probabilmente Giorgia Meloni nulla sa di Piñar (eventualmente può chiedere al dottor Magliaro…). Ma la natura antiliberale di Fratelli d’Italia è la stessa di Fuerza Nueva.

Non ci si faccia trarre in inganno dal pragmatismo meloniano e dal suo studiato atteggiamento da “mamma che lavora”. Se proprio la si deve definire mamma, il pensiero dovrebbe andare – politicamente parlando, per carità, nulla di personale – a “Mamma Ebe”.

Per ora, in qualche misura la Spagna con Vox, è messa meglio dell’Italia. Sempre che Santiago Abascal non regredisca del tutto, per sposare politicamente, “spagnolizzandola” la causa di Giorgia Meloni.

Anche perché la situazione italiana, così come si è sviluppata negli ultimi cinquant’anni, rimane molto differente da quella spagnola. Si pensi a uomini politici di destra (solo per fare alcuni nomi) del calibro di Adolfo Suárez, già franchista (per alcuni però molto tiepido), ma intelligente artefice, con il re Juan Carlos, della transizione alla democrazia liberale; Manuel Fraga Iribarne, il pirotecnico e coltissimo fondatore del Partido Popular; José María Aznar, il grande modernizzatore liberale della destra spagnola.

Invece l’Italia chi ha avuto? Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini: un imprenditore populista e bon vivant, e un uomo politico di mezza tacca. Un totale disastro.

Un fallimento che però spiega il ritorno al potere del neofascismo missino.

Gente che nulla ha imparato, nulla ha dimenticato.

Carlo Gambescia

sabato 25 maggio 2024

“Cancel culture” e catapulta statalista

 


Ora basta con questa storia del dare addosso alla “Cancel culture”. Ormai cavallo di battaglia della destra, la peggiore destra razzista. Proviamo allora a riformulare la questione.

Cos’ è che ha fatto grande l’Occidente? I classici greci e latini, Dante, Shakespeare, e così via?

Indubbiamente esiste un canone occidentale. Una tradizione letteraria, studiata nelle scuole e nelle università. E dibattuta tra i dotti.

Esiste però qualcosa di più importante che caratterizza l’Occidente: la libertà di pensiero e di parola. Sconosciuta, piaccia o meno, ad altri popoli. Pensiamo non solo agli Indiani, ai Cinesi, agli Arabi, ma anche ai Russi ad esempio, oppure alle correnti reazionarie tuttora presenti nella stessa cultura occidentale: i suoi nemici interni, fascisti, nazisti, eccetera.

Parliamo, in generale, di un mondo che nega espressamente l’eredità liberale. O che per varie ragioni, giustificate o meno, resta estraneo a un pensiero che affonda le radici nell’Illuminismo. Non si tratta di formulare graduatorie, ma più semplicemente di prendere atto, laicamente,  delle rispettive  diversità.

Sotto questo aspetto la “Cancel culture” va oltre la laica accettazione delle differenze, perché si tratta di una rilettura da sinistra del canone occidentale. Lo si giudica come una forma di imperialismo, al quale si oppone un imperialismo di segno contrario: quello anti-occidentale. L’approccio “cancel” rimanda al disconoscimento del principio dei principi: quello della libertà di pensiero e di parola. Ci spieghiamo meglio.

Il vero punto della questione, non è come proclama la destra, ribadire ad esempio la grandezza e l’unicità di Dante , ma di difendere una tradizione politica e culturale che difende la libertà di pensiero e parola. Il problema non è Dante, cioè l’offesa, presunta o meno, a Dante, ma la pretesa di vietare Dante a scuola.

La destra, che non è sicuramente amica della libertà di pensiero, quando ribadisce la grandezza di Dante, commette un peccato di imperialismo culturale. Per capirsi: pretende che Dante sia studiato a scuola in quanto Dante. In qualche modo fa il gioco della sinistra, che non vuole che Dante sia studiato a scuola, proprio perché Dante. Il contenuto delle prove addotte dagli uni e dagli altri qui non interessa.

In realtà quel che andrebbe evitato è proprio la discussione – da credenti politici (tifosi per così dire) – sulla grandezza di questo o quel pensatore occidentale o di qualsiasi altra provenienza. Per quale ragione? Perché esiste un pericolo. Quale? Dello stato-catapulta. Cioè che attraverso l’intervento dello stato si impedisca la discussione stessa dando ragione, di volta in volta, agli amici o ai nemici di Dante.

Insomma, non si può mettere Dante (o altro pensatore, anche non occidentale) ai voti: una volta vietarlo, una volta permetterlo secondo le indicazioni di una specie di ragion politica occidentale o anti-occidentale.

Un giudizio letterario non può essere trasformato in giudizio politico. 

La grandezza dell’Occidente è nella separazione tra cultura da una parte, e politica e religione dall’altra. Nella sua  volontà di   secolarizzazione. Un processo che rimane alla base della libertà di pensiero e parola.

Di conseguenza questa destra e questa sinistra, pro o contro Dante, tramutano la cultura in politica o peggio ancora in religione politica. Il che, in pratica, significa razionalizzazione-giustificazione della letteratura. La si piega a scopi politici.

In questo modo la libertà di parola e pensiero diventa libertà di parola e pensiero al servizio del potere politico. Quindi, ripetiamo, si discute non più della libertà di discutere Dante, ma della superiorità o inferiorità di Dante rispetto alla superiorità o inferiorità di un’idea politica. Le polemiche tra “occidentalisti” di destra e “anti-occidentalisti” di sinistra ruotano intorno al mezzo (Dante) e non al fine (la libertà di pensiero e di parola).

La destra che è dalla parte dello stato-catapulta legislativa, quanto la sinistra, usa Dante, come una pietra di due o trecento chili da scagliare contro le mura della città anti-occidentalista. I cui difensori, a loro volta, rispondono con lanci di pietre altrettanto violenti. Pronti a contrattaccare, con pari durezza, e così via.

Si dirà ma allora il voto del popolo, la tanto declamata libertà di pensiero, eccetera? Risposta: si può mettere un pensatore ai voti? No. Si può approvare per legge la grandezza letteraria? No. Quanto alla libertà di pensiero è ovvio che non può consistere nell’opprimere quella del nostro interlocutore, comunque la pensi.

Come uscirne? Separando la letteratura dalla politica. Evitando ogni forma di religione politica, “occidentalista” e “anti-occidentalista” (per semplificare). Soprattutto in chiave di catapulta statalista.

Cosa che da almeno tre secoli, diciamo a far tempo dall’Illuminismo, si tenta di spiegare al popolo. Che però non sempre sembra capire l’essenza del liberalismo.

Che la libertà di pensiero e di parola sia per pochi?

Carlo Gambescia

 

venerdì 24 maggio 2024

Taglio dei tempi di attesa. Per un pugno di voti

 


Che significa decadenza della politica? Presto detto.

Con quello che sta succedendo nel mondo, Giorgia Meloni, proprio pochi giorni prima delle europee, si occupa di welfare sanitario. Nulla di nuovo, il solito decretone-sanità, che, tra le altre cose, si propone di tagliare i tempi di attesa per gli esami medici. Così almeno si proclama. Tradotto: per un pugno di voti. E con l’aiutone dei “Tg di Stato” all’ora cena. Rigorosamente, uno o due giorni prima delle elezioni. Due, tre volte al dì, all’ora dei pasti.

Si tratta veramente di bassa politica. Una misura tipica di quel ciclo della spesa pubblica (si spende prima, si tassa dopo elezioni) che caratterizza le peggiori democrazie welfariste di Caracas. Quindi non liberali

Anche perché stando alle parole del Ministro della Sanità Schillaci (*), si capisce subito che si tratta del solito intervento di velleitaria tecnocrazia sociale. Si punta su una “anagrafe centralizzata”, su nuove assunzioni, e su una maggiore cooptazione dei privati.

Su quest’ultimo aspetto si pensi alle guerre quando dopo aver  raschiato il fondo della botte  dei coscritti  si ricorre  alle truppe mercenarie. Il comando però rimarrà nelle mani degli stessi generali. Nel nostro caso i generali da scrivania del Ministero della Sanità.

I privati, per principio, se fossero veramente tali, dovrebbero rifiutarsi di somministrare – come si dice in burocratese – prestazioni a mezzo servizio. Ovviamente, non si tratterebbe, come pretende la sinistra, di trasferire tutto il potere ai Soviet degli ospedali pubblici, ma di favorire: 1) la progressiva privatizzazione del settore (favorendo pacchetti assicurativi e libertà individuale di cura); 2) la crescente apertura alle grandi multinazionali private della sanità, anche estere.

Creare insomma, fin dall’inizio, una competizione tra pubblico e privato, per poi giungere nel tempo, sulla base di risultati concreti, frutto di libere scelte dal parte dei “consumatori” di sanità, alla privatizzazione del settore. Insomma, si deve aprire, e decisamente, al mercato.

Insistere invece con le vecchie e velleitarie politiche stataliste, di stampo tecnocratico e spendereccio non porta da nessuna parte. Corrompe il privato, che diventa schiavo della droga delle convenzioni, accresce i poteri già elevati della sanità pubblica, favorisce la crisi fiscale dello stato.

Ecco perché parliamo di decadenza politica. E Giorgia Meloni è il principale agente di questa decadenza. Come quando, andando oltre il comune senso del pudore  politico, annuncia, a proposito del taglio ai tempi di attesa, che si tratta di una misura “bandiera” per il governo. In realtà siamo davanti all’ennesima truffa politica a danno dei cittadini.

Attenzione però: di cittadini imbecilli che, quando intervistati (almeno otto su dieci), dichiarano di essere favorevoli alla sanità pubblica. Il mantra demoscopico è che la sanità pubblica può essere migliorata, perfezionata, eccetera, eccetera.

Come si può intuire, la credenza nei miracoli, non è mai scomparsa.

Carlo Gambescia

(*) Per il decreto, sintetiche  informazioni qui: https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=122294 .

giovedì 23 maggio 2024

Il redditometro non è la soluzione ma il problema

 


 

Giorgia Meloni nel botta e risposta con i giornalisti se la cava egregiamente. Per quale ragione? Elevate capacità argomentative? O basse capacità dialettiche dei suoi interlocutori? No, populismo dilagante. E spieghiamo perché.

Si prenda la questione del decreto sospeso sul redditometro. Che risposta ha dato la Meloni? Si legga qui:

“Quel decreto ha però prodotto diverse polemiche, dunque meglio sospendere il provvedimento in attesa di ulteriori approfondimenti, perché il nostro obiettivo è e rimane quello di contrastare la grande evasione e il fenomeno inaccettabile, ad esempio, di chi si finge nullatenente ma gira con il suv o va in vacanza con lo yacht senza però per questo vessare con norme invasive le persone comuni”.

Cosa dice in buona sostanza? Che il redditometro è rivolto a contrastare la grande evasione non la piccola. Insomma non lo mette discussione in quanto tale. E soprattutto accetta l’idea che le tasse sono necessarie e giustificate. Il lettore prenda nota dell’ultimo punto.

Si dirà che sarebbe folle mettere in discussione il moderno pilastro dello stato assistenziale: le tasse (semplificando il concetto). Oggi il dibattito sui tributi si concentra sulla redistribuzione non sul perché della redistribuzione. Nessun politico, a meno che non voglia suicidarsi elettoralmente, proporrebbe di tagliare le fonti economiche del consenso, dal momento che i tributi permettono di erogare quei servizi sociali, promessi in campagna elettorale, che fanno vincere.

Dicevamo dell’abilità o meno di Giorgia Meloni e dei suoi interlocutori. Il punto è che parlano tutti lo stesso verbo, quindi dal contraddittorio esce vincente chiunque la spari più grossa. E Giorgia Meloni, come populista, non ha rivali.

Si rifletta. Come non definire populista il richiamo alla distinzione tra il “nullatenente” che girà in suv, e il “tenente”, “persona comune”, che non ha il suv? Non è forse tipico del populismo esaltare le frustrazioni e l’invidia di chi non ha contro chi ha? Promettendo la redistribuzione all’infinito dei pani e dei pesci?

Perché diffondere l’idea, stupida e rozza, che chi giri in Suv sia un disonesto e chi invece guidi in Panda, sia una persona onesta? E poi onestà e disonestà rispetto a che cosa? L’idea del “do ut des” redistributivo tra stato e cittadino è un’idea socialista non liberale.

Si parte infatti da un presupposto sbagliato. E vero che esiste un principio morale di solidarietà, che valorizza l’interdipendenza tra le persone, ma la sua esecuzione rinvia a scelte private, individuali, libere: “Decido io se aiutare e come il mio prossimo”. Fin qui la dottrina liberale.

Per contro l’obbligo di aiutare il prossimo, cioè “non decido più io, ma lo stato”, in nome di un principio etico, non più individuale ma collettivo, rinvia a entità istituzionalizzate che però schiacciano l’individuo. Qui il succo della dottrina socialista, come obbligo a socializzare. Come nel caso del versamento dei tributi. Non si tratta più di una scelta libera.

Ora, a livello giornalistico – basta fare una rapida rassegna stampa – non si troverà una sola critica al redditometro dal punto di vista liberale. Solo chiacchiere redistributive, previsioni sui possibili teatrini tra alleati, voci di transatlantico, retroscena politici, stronzate (pardon) insomma.

In pratica è un dibattito riservato agli addetti ai lavori: sono tutti socialisti e quel che peggio populisti, non pochi con il torcicollo. Magari sono socialisti senza saperlo, anche perché il liberalismo in Italia non è più di moda almeno dai tempi di Pantaleoni e Pareto. Una volta caduto il busto di gesso fascista (anche fiscale), pure il buon Luigi Einaudi si piegò al principio di progressività (art. 53 della Costituzione). Quindi non si lavora neppure sui ricordi. Che malinconia.

Sicché Giorgia Meloni può vincere facile. Su questo, come su altri argomenti, gioca al rialzo populista.  

Per ora, basta così. Una pena al giorno.

Carlo Gambescia


mercoledì 22 maggio 2024

Un clima prefascista

 


Innanzitutto desideriamo scusarci per una piccola svista nell’articolo di domenica  su “Chico” Forti: all’epoca del rientro della Baraldini (1999) era in carica, come Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema non Romano Prodi. Bastava dare un’occhiata a Wikipedia. Nessuno è perfetto.

Oggi invece vogliamo trattare del tripudio inscenato dalla stampa di destra, a proposito delle dichiarazioni di Marine Le Pen ( sembra concordate con Salvini) contro (a questo punto) gli ex alleati dell’Afld. Rei, a suo avviso, di nostalgie neonaziste. In un’ intervista a “La Repubblica” Maximilian Krah, capolista di AfD alle europee, aveva asserito: «Non dirò mai che chi aveva un’uniforme delle SS era automaticamente un criminale».

“Libero”, addirittura, parla di un possibile blocco unico delle destre in chiave antisinistra, quindi comprensivo di Fratelli d’Italia. Ovviamente una volta espulsi da Identità e Democrazia i nostalgici dell’AfD.

A parte la questione politica aperta, che vede Fratelli d’Italia oscillare tra il “centro” del Partito Popolare e la “destra”, dura e pura, di Identità e Democrazia, il vero rischio è un altro. Quanti italiani ed europei la pensano come Krah? Non pochi crediamo. La generazione nata dopo la guerra, per non parlare delle ultime, non ha più memoria del nazifascismo, così com’era. E neppure delle idee, antiliberali, antiamericane, anticapitaliste, antisemite e razziste che innervarono il fenomeno fascista. E purtroppo molte di quelle idee sono silenziosamente tornate in circolo. Quindi si tratta di una pressione che parte dal basso o che comunque si consolida grazie a una smemoratezza connivente.

Il problema non è perciò la natura criminale delle SS ( o non solo), ma il clima culturale che permise la nascita delle SS in Germania. O se si preferisce, per l’Italia, la nascita dello squadrismo che culminò nel feroce brigatismo nero repubblichino.

Qualche lettore, potrebbe pensare, per dirla con un Mussolini “padrone” del parlamento:  Quali farfalle Gambescia va  cercando sotto l’Arco di Tito?

Altro che farfalle. Quando si disprezza il parlamento, quando ogni scusa è buona per attaccare gli Stati Uniti, quando si difende il protezionismo e si conculcano i diritti civili, quando si parteggia per Hamas e si fanno truci paragoni tra Israele e la Germania nazista, quando si lascia che i migranti affoghino nel Mediterraneo, non resta che una sola spiegazione: che l’ infezione fascista è di nuovo in circolo.

Più correttamente parleremmo di “tentazione fascista”. Cioè di attrazione per idee, che, nell’oblio generale, non sono riconosciute dall’elettore come fasciste, ma che in realtà possono essere ricondotte allo stesso clima che favorì la transizione dal prefascismo al fascismo.

L’antiliberalismo, l’antiamericanismo, l’anticapitalismo, l’antisemitismo e il razzismo rimandano al rifiuto della modernità, e in particolare dell’universo geopolitico e geoculturale dove si è realizzata nella sua forma migliore: tra America del Nord ed Europa occidentale. Si pensi a un forma mentis reazionaria che scorge due nemici principali: l’idea di felicità individuale e il diritto a perseguirla. I valori basici dell'Occidente.

Come mentalità, il fascista, anzi il pre-fascista, è colui che evoca il “tutto” rispetto alla “parte”. Che fissa continuamente paletti comunitari (la “tradizione”, la “famiglia”, la “morale”, l’ “identità”, la “nazione”, lo “stato”, il “giusto prezzo”, eccetera) intorno all’individuo, fino a soffocarne la libertà. Non si tratta delle normali regole, scaturite dall’ idea che “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, regole gestite attraverso i meccanismi dello stato di diritto, ma delle anormali, vincolanti e soffocanti strettoie di uno stato che può farsi prima prevaricatore, poi autoritario, infine dittatoriale.

Pertanto le SS non erano che i sordidi esecutori, l’anello finale di una involuzione antimoderna, che va dal prefascismo al fascismo. Non basta condannare. Si deve risalire fino alle origini del male. Ciò significa che il pericolo è a monte, non a valle. Il male è nella “tentazione fascista”: perché si comincia con il condividere il rifiuto al migrante del diritto alla felicità, e si finisce con il giustificarne la negazione a una crescente massa di cittadini. In pratica, ci si fa del male da soli. Piano piano si perde consensualmente la libertà.

Concludendo, il pericolo non rinvia direttamente alle figure di Salvini, Le Pen, Giorgia Meloni, eccetera, ma ai milioni di elettori che li votano, anche convintamente. La famigerata “gente” non si rende conto, come accadde nei primi trent’anni del Novecento, che l’ infezione è in atto, e che anche questa volta la malattia rischia di essere mortale. Ci si sente invece  dalla parte giusta della storia. E di conseguenza leader e masse si abbandonano alle   forze inerziali  del suo presumibile, quindi ineluttabile, divenire. E così   ci si   addormenta  placidamente tra le  braccia del Morfeo fascista, fino al brusco risveglio.

 

Carlo Gambescia

martedì 21 maggio 2024

Le linee nel vuoto di Karim Khan

 


Non parleremmo di antisemitismo. Almeno per ora. Piuttosto, vista la formazione upper class (public school, eccetera) del procuratore capo della International Criminal Court, ICC (Corte Penale Internazionale, CPI ), Karim Khan,  parleremmo invece di pacifismo legalizzato e idealizzato. Aggiungiamo che  è cittadino britannico, nato in una famiglia pakistana, di religione (semplificando) islamico-sunnita.

In che senso pacifismo legalizzato e idealizzato?   Per capirsi subito, un tribunale può emettere un mandato di arresto, ma se non c’è polizia in grado di eseguire, si rischia di restare sul piano delle valutazioni giuridico-morali, umanitarie, prive però di conseguenze processuali, quindi reali, come giudizio, sentenza, eccetera.

Pertanto invitiamo i lettori a sorvolare, su quello che invece sembra essere questa mattina il cuore del dibattito: l’equiparazione tra Hamas e lo stato di Israele. Da alcuni vista come un offesa, da altri come un atto di giustizia.

In realtà, quando ci si pone sul piano del rifiuto della guerra, ogni attività, di varia intensità, all’interno di un conflitto bellico, può essere giudicata reato. Pertanto da questo punto di vista Hamas e Israele possono essere trattati come gruppi di gangster rivali in lotta nella Chicago degli anni Trenta.

Che poi, ci sia chi strumentalizzi politicamente, la decisione di un magistrato, è nell’ordine naturale delle cose politiche, fondate su una precisa regolarità metapolitica: la dinamica amico-nemico.

Andiamo avanti.  Al momento, la situazione è la seguente: da un lato c’è il rifiuto della guerra (il giudice) dall’altro l’accettazione della violenza bellica come prosecuzione della politica con altri mezzi (gli stati). Due mondi che non comunicano.

Ora, sul piano dei nobili ideali, sarebbe lodevole rinunciare alla guerra. Come però? Alla stessa stregua della vita interna degli stati servirebbe una polizia mondiale, capace di prevenire e/o reprimere, come avviene con la polizia statale. Insomma, dal macro al micro, dal micro al macro. Un mondo perfetto.

Certo, è lecito augurarsi che le persone si convincano dell’inutilità della guerre e sposino la causa dell’estensione universale dell’idea Law and Order. Però per raggiungere lo scopo ogni stato dovrebbe cedere i propri poteri, anche giudiziari, a un governo mondiale, a una magistratura mondiale, a una polizia mondiale.

Purtroppo cinquemila anni di storia provano il contrario. Per carità mai dire mai. Non si può escludere nulla. Però l’istituzione di uno stato di diritto mondiale non è per l’ oggi e neppure per il domani. La dinamica metapolitica inclusione-esclusione, insegna che solo un pericolo proveniente da Marte potrebbe favorire inclusione dei popoli del pianeta Terra, nel quadro di un governo mondiale, contro i popoli del pianeta Marte.

E intanto cosa può succedere? Che i giudici idealisti come Karim Khan – per dirla con l’Amedeo Crivellucci, superbo stroncatore dell’opera storica di Alfredo ’Oriani – si dedichino “ alle ascensioni alpine” per tracciare “da quelle sommità, nello spazio, grandi linee dall’Oriente all’Occidente e dal Settentrione al Mezzodì. Ma sono sempre linee nel vuoto” (*).

L’opera di Karim Khan è giuridica, ma purtroppo ricorda quella di Alfreo Oriani.  Opera storica.  Con la differenza che un giudice che ignori la realtà delle regolarità metapolitiche rischia di combinare più guai di uno storico.

Carlo Gambescia

(*) Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, pref. di Ernesto Sestan, aggior. bibliogr. di Rosario Romeo, Einaudi, Torino 1962, p. 377.

lunedì 20 maggio 2024

Meloni e Vox. Che malinconia…

 


Un Presidente del Consiglio che accoglie un omicida come un eroe ( e tralasciamo il resto), che glissa sul malaffare all’interno del suo stesso partito ( caso Santanchè) e di un partito alleato ( caso Toti), che ha sulla coscienza i sessanta migranti morti dell’Ocean Viking, non può fare lezioni di morale a nessuno.

Eppure le fa. Primo motivo di tristezza.

Come ieri, in collegamento con la convention di Vox. Giorgia Meloni è salita in cattedra per impartire lezioni di morale politica a tutti. Ci dispiace che Milei, anch’egli presente, fisicamente dal palco, che si autodefinisce liberale, anzi libertario, abbia scelto la cattiva compagnia di Santiago Abascal, Marine Le Pen,Viktor Orbán… Che c’entra il liberalismo con questa gente? Il vero liberalismo non è di destra nè di sinistra: non ha bisogno di aggettivi, come abbiamo sempre scritto,

Insomma  è  in atto una gigantesca truffa politica.   che alle prossime elezioni può consegnare l’Europa a un’ estrema destra, che flirta, anche se cerca di non darlo a vedere, con i movimenti parafascisti e neofascisti. Si faccia un giro in Rete: sono tornati a galla i peggiori relitti culturali degli anni Trenta del Novecento. Il brodo è quello, più o meno denso. Gli ingredienti sono gli stessi (tradizione, famiglia, identità) e soprattutto non ha nulla di liberale, a partire dalla sua adorazione dello stato come principale motore di ogni attività politica ed economica. Certo, Giorgia Meloni come si ripete, è pragmatica, eccetera, eccetera. Errore.  Non si discuta dei rami, il tronco è quello, come i frutti. Velenosi.

A proposito della famiglia, si noti qui il totale rovesciamento di valori. E anche il disgustoso tono plebeo-fascistoide. Altro che Giorgia Meloni liberale.

“Ci opporremo a chi vuole mettere in discussione la famiglia come pilastro della nostra società, a chi vuole introdurre le teorie gender nelle scuole, a chi vuole promuovere pratiche disumane come la maternità surrogata. Perché nessuno mi convincerà che si possa chiamare progresso permettere a uomini ricchi di comprare i corpi di donne povere, o di scegliere i loro figli come se fossero prodotti da supermercato ( …). Non è progresso, è oscurantismo, e sono orgoglioso che il Parlamento italiano stia discutendo, su proposta di Fratelli d’Italia, una legge che vuole rendere la maternità surrogata un reato universale, cioè punibile in Italia anche se commessa all’estero” (*).

Si noti invece qui l’arroganza, da richiamo del branco.

“Quando la storia chiama, quelli come noi non si tirano indietro. Non lo abbiamo fatto finora e non lo faremo, tanto meno adesso. Caro Santiago, amico mio. Abbiamo iniziato il nostro percorso comune al Parlamento europeo nel 2019. E da allora i nostri percorsi politici sono sempre stati molto simili. Fin dal primo momento hanno cercato di disprezzarci. Hanno cercato di isolarci. Hanno cercato di dividerci. E hanno finito per rafforzarci” (**).

"Quando la storia chiama",  roba da balcone di Palazzo Venezia.

Purtroppo in questo clima mefitico  le nostre analisi, ridotte al rango di complicatezze intellettuali, rischiano di essere ignorate.  La gente comune taglia corto. Vuole risposte semplici e immediate. Non professori -  ecco il  mantra  - capaci solo  di confondere le idee.

In particolare coloro che votano e voteranno per questa destra ultraconservatrice, che non ha nulla di liberale, contigua ai movimenti neofascisti, che a suo tempo usciranno alla luce del sole, ragionano  ormai come il marito fascista  di “Una giornata particolare”, il  film  di Scola, entusiasta dell’Asse tra Mussolini e Hitler:  “Anvedi che fior di alleato ce siamo scerti”. Il trionfo del semplicismo fascista. Una superficialità politica  che portò alla catastrofe.

Che malinconia.

Carlo Gambescia

domenica 19 maggio 2024

Un eroe del nostro tempo

 


Una tantum (che in latino significa per una volta sola) siamo d’accordo con “Il Fatto” . Il titolo è durissimo “alla Travaglio & Co.”. Per stile ed educazione avremmo preferito “omicida”, come da condanna passata in giudicato. Però il  “benvenuto” c’è stato. Il che è esecrabile, per almeno cinque ragioni.

In primo luogo, Enrico (Chico) Forti è stato giudicato e condannato all’”ergastolo senza condizionale” per omicidio dopo un regolare processo in un paese democratico connotato dallo stato di diritto, rispettoso delle garanzie a difesa dell’imputato (ad esempio su sua richiesta  è stata concessa la non pubblicazione degli atti del processo). Pertanto nulla si può rimproverare agli Stati Uniti.

In secondo luogo, un Presidente del Consiglio, ammesso e non concesso che tra i compiti del governo vi sia quello di occuparsi degli ergastolani all’estero, non può ricevere in pompa magna come un eroe eponimo (sorvoliamo sul disdicevole tripudio del Tg1 e degli altri media governativi) un “assassino”, come scrive “il Fatto”. Perché, così facendo Giorgia Meloni non espone se stessa e neppure il governo, ma addirittura lo stato italiano che, come premier, seppure informalmente, comunque rappresenta.

In terzo luogo, è scandaloso – basta dare una scorsa a giornali – il silenzio della sinistra. Che, titolo del “Fatto” a parte, si comporta da complice. Nel senso che non affonda la lama nella ferita istituzionale aperta di un Presidente del Consiglio che accoglie a braccia aperte un omicida. Per quale ragione si comporta così? Perché la sinistra, che a parte il recente caso Salis (già assolta dalla sinistra e condannata dalla destra), a suo tempo si attivò, anche a livello governativo, per Silvia Baraldini, con condanna passata in giudicato a 46 anni, sempre negli Stati Uniti, per “associazione sovversiva”, “a delinquere”, e "cospirativa", nonché offese alla Corte. Fu un gentile “dono” all’Italia di Clinton: D'Alema, all’ epoca Presidente del Consiglio, ebbe però rispetto per  le istituzioni, non  accolse La Baraldini a braccia aperte e a telecamere accese. All’aeroporto, anno di grazia 1999, andò Cossutta, allora leader del Pdci (Partito dei comunisti italiani), privo di incarichi ministeriali, che, pur appoggiando un governo di centro-sinistra, quindi rosa, simpatizzava ideologicamente per la Baraldini.

In quarto luogo, il problema non è rappresentato dalla sciocca gara tra destra a sinistra a chi sia capace di portare per primo a casa un italiano cacciatosi nei guai all’estero ( attualmente circa 2600), ma dal necessario rispetto delle istituzioni e soprattutto dei circa 60 milioni di italiani che vivono all’estero (secondo l’Aire, Anagrafe degli italiani residenti all’estero). Gente che lavora onestamente, rispetta le leggi dei paesi dove risiede e che, così facendo, onora l’Italia. Insomma il vero problema, in ultima istanza, è rappresentato dal rifiuto dei criteri di punizione, secondo le leggi e i valori dei paesi ospitanti. Che talvolta (non questa però) possono differire da quelli italiani. Sicché ci si appella a un principio di umanità. Che però non viene applicato, come detto, a tutti gli italiani incarcerati all’estero. Simpatie politiche o altro? Per ora sospendiamo il giudizio.

In quinto luogo, proprio perché i criteri differiscono, andrebbero invece responsabilizzati gli italiani che decidono di andare a lavorare e vivere all’estero. Nel senso che lo stato italiano, chiarisca una volta per sempre, estendendo l’applicazione dei principi liberal-democratici dell' Ubi bene, ibi patria, che si rifiuta di rispondere. eccetto che in caso di guerra, alle conseguenze, soprattutto se di rilevanza penale, delle azioni o attività degli italiani all’estero. Detto altrimenti: Ubi malum, ibi patria. Ma allora i principi umanitari? Sono pericolosi per le istituzioni e per la libertà individuale. Per le istituzioni perché purtroppo, ammessa e non concessa la buona fede, in fatto di simpatie ideologiche, degli uomini politici di ogni partito, ne indebolisce la neutralità, nel senso del rispetto del principio di uguaglianza formale dinanzi alla legge. Per la libertà individuale, perché l’altra faccia del medaglia-principio di libertà stabilisce che ogni individuo, proprio perché libero, sia sempre responsabile delle sue azioni.

Il che a prima vista può sembrare crudele, perché, per così dire, a un capo del filo c’è la possibilità che l' innocente finisca in carcere, e dentro ne subisca di tutti i colori, ma dall’altro non si può non rilevare il rischio di una specie di ingiusta immunità per chi sia effettivamente colpevole. A dire il vero, non è facile dare una risposta. Chi scrive è portato a privilegiare il nesso libertà-responsabilità rispetto al criterio umanitario. Però rispettiamo le opinioni diverse dalla nostra.

Quel che però ci rifiutiamo di negoziare è il fatto che Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio, di cui è nota l’indifferenza umanitaria verso i migranti, altrimenti non renderebbe impossibile la vita alle Ong, accolga come un eroe un condannato per omicidio.

Carlo Gambescia

sabato 18 maggio 2024

Questione “gender”: lasciar fare, lasciar passare

 


Il lettore che ci segue, saprà già da tempo come la pensiamo sulla questione di “scegliersi il genere”, come la definisce polemicamente la destra. Però magari una rinfrescatina…

Una destra che ieri non ha firmato il patto europeo o dichiarazione sulle politiche europee a favore delle persone lgbtq+.

Diciamo pure che la destra vuole vietare, la sinistra permettere. Che cosa? Non si capisce bene. Semplificando, impropriamente, la sinistra parla di eliminare ogni discriminazione giuridica di tipo sessuale, la destra invece di rispettare l’identità biologica dell’uomo e della donna. Vasti programmi, per dirla con Charles de Gaulle.

Ieri sera sulla rete Tre, la Rai ha trasmesso il film di Gianni Amelio sul caso Braibanti. Un professore marxista che negli Sessanta a causa della sua omosessualità, anzi come allora  si  diceva brutalmente un "invertito", venne perseguitato da una società ipocrita e nevrotica. Giudicato come un malato contagioso. 

Era la stessa Italia, priva di una legge sul divorzio, dove un marito poteva mandare in prigione la moglie “adultera”. Un film duro, molto istruttivo. Ovviamente per chi  tutttora  desideri interrogarsi sulle radici politiche e sociali dell’arretratezza italiana. Oggi fortunatamente non è più così. I costumi sono mutati. Ecco il punto fondamentale.

Infatti il vero nocciolo della questione è rappresentato dal valore che si attribuisce alla capacità delle leggi di cambiare i costumi. Dicevamo che l’atteggiamento degli italiani non è più quello retrivo dei tempi di Braibanti. Questo mutamento può essere collegato al lento cambiamento dei costumi o al potere innovatore delle leggi?

Negli anni in cui Braibanti veniva condannato si preparava in Occidente quella che venne definita, forse impropriamente, la “rivoluzione sessuale”. Una rivoluzione culturale, nella mentalità, indolore ma profonda che in sessant’anni ha sradicato le idee retrive che condussero alla condanna di Braibanti. Oggi un processo del genere sarebbe impossibile.

Ed è questa la ragione perché riteniamo si debba lasciar fare ai costumi. Il che significa legiferare in questo campo ( e non solo) il meno possibile. Proprio per evitare, che sorgano nell’ambito privato, diremmo intimo della persone, inutili e pervasivi conflitti politici in cui – si faccia attenzione – il privato diventa pubblico, il pubblico, politico, e il politico legge, e la legge costrizione in un senso o nell’altro. Per capirsi, nel conflitto inevitabilmente la legge finisce per penalizzare gli uni, premiare gli altri.

Vincitori e vinti, insomma. Una norma per alcuni è fonte di diritto, per altri fonte di discriminazione. La legge, se i costumi non sono maturi, si trasforma nella prosecuzione della politica – nel senso dei vincitori e vinti – con mezzi giuridici.

Si prenda la dichiarazione, di cui parlavamo nell’incipit, per la destra è una dichiarazione di guerra, per la sinistra una bandiera di combattimento. Non è sociologicamente sano. Ciò accade perché una parte di società sostiene la destra, l’altra la sinistra. Il che significa un sola cosa: che nel suo insieme, proprio perché divisa, la società non è culturalmente pronta.

Si faccia un passo indietro. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, il divorzio era ormai accettato dalla gente comune. Il costume lo riteneva più che giustificato. E il referendum, che si proponeva di abolire la legge in proposito, venne respinto dagli italiani. E lo stesso si verificò anni dopo per la legge sull’interruzione di gravidanza.

Si lasci fare al costume. Ad esempio nell’articolo 29 della Costituzione, si legge che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Nulla dice sulla sua composizione. Quindi nulla vieta che due uomini o due donne contraggano matrimonio.

Questo principio dell’astrattezza e della generalità, sembra fatto apposta per rispettare e recepire in chiave inclusiva non esclusiva il cambiamento dei costumi. Ed è questa la via maestra da seguire. Non quella di legiferare a tutti i costi con fughe in avanti o indietro rispetto alla dinamica dei costumi. Quando non c’è sintonia tra legge e società quasiasi intervento legislativo in materia di costumi viene inevitabilmente vissuto in chiave divisiva, proprio perché i tempi non sono ancora maturi. Ogni corda sociale che si tocca per legge finisce per essere quella sbagliata.

Si dirà, che, “furbamente”, non entriamo nel merito della questione dei generi, eccetera, eccetera. Che non ci schieriamo, e così via. Non è questo il nostro scopo. Il che non significa favorire, da parte da nostra, e in modo preconcetto, l’ingessatura della società

Per dirla brutalmente, riteniamo sia giusto disinteressarsi della società, soprattutto sul piano politico-legislativo. Lasciar fare, lasciar passare: gli esseri umani devono fare da soli, procedendo liberamente per tentativi ed errori (o orrori, purtroppo come nel caso del professor Braibanti), selezionando, spesso senza neppure accorgersene, le istituzioni funzionali a un certo stadio della dinamica sociale.

Non esiste un mondo perfetto. Né lo si può realizzare per decreto. Secondo Montesquieu e Tocqueville, per fare il nome di due pensatori che la sapevano lunga, sono gli uomini a fare le istituzioni, non le istituzioni a fare gli uomini. Quindi riteniamo sia inutile legiferare sul nulla, cioè sulla società come dovrebbe essere e non come è.

Carlo Gambescia

venerdì 17 maggio 2024

Il tappo di plastica e i suoi nemici

 


La cosa tragicomica è che una società che proclama di combattere il patriarcalismo, rivendicando la libertà individuale delle donne, poi accetti l’idea che il singolo – quindi uomini e donne insieme – non sia capace neppure di chiudere una bottiglia di plastica, riavvitando il tappo, “senza disperderlo nell’ambiente”. Insomma che serva l’aiuto dello stato. Anzi del padre-padrone stato. Il patriarca.  

Come è possibile?

Un passo indietro: l’ ecologismo è una filosofia della storia “ex ante”. Non è innocuo perché assegna e impone un senso preventivo alla storia: “da prima” (come recita la traduzione della terminologia latina). Si fonda su una attribuzione di valore che precede i fatti. Si vuole imprimere una direzione che, una volta prestabilita, va rispettata a ogni costo. Soprattutto attraverso l’uso, ovviamente, delle leve politiche.

Ci spieghiamo meglio.

Dal punto di vista ecologista (quindi ipotetico) la plastica è divenuta da qualche anno una specie di nemico dell’umanità. Allora che si fa? Si introducono misure preventive e imperative per salvaguardare l’umanità. Quindi per il bene di “tutti” i singoli. Il tappo attaccato alla bottiglia di plastica come mezzo per favorire un fine: la salvezza del genere umano. Di qui, la direttiva europea – la leva politica – che da luglio obbligherà i produttori a fabbricare bottiglie di plastica con il tappo attaccato, eccetera, eccetera.

Ipotesi + decisione politica e il gioco è fatto. Sulla testa dei singoli.

Si rifletta invece sull’idea racchiusa nella delibera europea. Quale idea? Quale fine? Che non è l’individuo a sapere cosa è bene per se stesso ma il potere politico. La direttiva sui tappi è europea ma potrebbe essere anche nazionale, regionale, provinciale, comunale. Il punto è che l’individuo viene ritenuto incapace di decidere del suo bene. Qui la mordacchia: dei fini individuali decide lo stato. Cioè il patriarca politico. Ecco il concetto.

Si dirà che le nostre sono democrazie, quindi il patriarca politico, viene eletto da noi tutti, eccetera, eccetera. E qui però si torna alla filosofia della storia. Altro passo indietro.

Ogni unità politica (dall’impero alla città stato, dallo stato assoluto al moderno stato costituzionale) si basa su una sua filosofia della storia, che non è altro che una razionalizzazione postuma, cioè la scoperta e giustificazione dei valori che l’ hanno fatta forte. Le filosofie della storia “buone” sono sempre “ex post facto”: “dopo il fatto”. Termini ad esempio come individualismo, liberalismo, libero mercato sono stati coniati, “dopo”: alla fine di un processo storico il cui senso (la creazione di una società libera) era ignoto ai suoi protagonisti. Liberal-democrazia e società di mercato sono nati per caso. Questa è la verità.

La società ecologista pretende invece di nascere per legge. Proprio perché rinvia a una filosofia della storia, “ex ante”, che viene prima dei fatti. Che non rafforza i valori della nostra società, a partire dal valore forte per eccellenza: l’individualismo (come si è scoperto dopo).

Dal momento che l’ecologismo è portatore di valori contrari all’individualismo, non può che indebolire la filosofia della storia, di natura individualistica, che, come invece si è scoperto “ex post”, ha fatto grande la società occidentale, teorizzando, ripetiamo, “dopo”, quindi sulla base dei fatti, la necessità che l’individuo sia lasciato libero di intraprendere.

Invece l’ecologismo, ripetiamo, teorizza “prima”, quindi non sulla base di fatti realmente accaduti. Ma ragiona su ipotesi non condivise, spesso strampalate. In realtà siamo davanti a una forma di patriarcalismo politico, economico, sociologico. Un mostro arcaico che si nutre di una filosofia regressiva della storia.

Lo si potrebbe definire un fenomeno reazionario. Per parafrasare Popper si potrebbe parlare del “tappo di plastica e dei suoi nemici”. Il lettore non sorrida: ma chi impone il tappo di plastica attaccato alla bottiglia è un nemico della società aperta.

La stessa idea di economia circolare, basata sul riciclo, solo per fare un altro esempio, incensata dagli ecologisti, rinvia a una società statica, ripiegata su se stessa, che controlla l’individuo, piegandone le scelte a una filosofia della storia “ex ante” quella ecologista, che a differenza della filosofia individualista “ex post”, non ha alle spalle, per così dire, una storia di successo, come quella dell’Occidente euro-americano.

Detto altrimenti: l’individualismo ha provato sul campo di funzionare, l’ecologismo no. Anzi, per essere più precisi: il patriarcalismo ecologista. Per ora, solo tributi, divieti, vincoli. Meno libertà individuale. E probabilmente andrà sempre peggio: la società vaticinata dagli ecologisti è una società illiberale.

Si pensi insomma a quante cose sono dietro un semplice tappo attaccato per legge alla sua bottiglia di plastica.

Si dirà che in fondo si tratta di una sciocchezza. Però se il lettore è riuscito a seguirci fin qui, avrà capito che in gioco c’è la nostra libertà. E soprattutto che il patriarcalismo non riguarda solo le donne.

Carlo Gambescia