giovedì 8 febbraio 2007


Pil e dintorni
Il fascino non tanto discreto del declino economico italiano




Ciclicamente si torna a parlare del declino economico italiano. Sembra quasi che destra e sinistra si siano date il cambio, solo per accusarsi a vicenda. Insomma, ci si accapiglia sul famigerato mezzo punto di Pil in più o in meno. C’è chi auspica più Stato, come talvolta chiede Tremonti; chi più concorrenza, come i professori del Corriere della Sera; chi più Stati Uniti come Giuliano Ferrara; chi meno tasse come Cordero di Montezemolo...
Ognuno dice la sua, ma tutti insieme ripetono a pappagallo: ripresa economica-ripresa economica-ripresa economica… Come se si trattasse di macchine da riparare e non di uomini e donne in carne e ossa. E ignorando un fatto fondamentale: che il declino è prima culturale e poi economico. Ci spieghiamo meglio.
In primo luogo, gli economisti, soprattutto quelli di tendenza liberista, quando sentono nominare la parola cultura, se avessero una pistola a portata di mano, la userebbero subito. Per quale motivo? Perché temono che le “chiacchiere” culturali, se tradotte in investimenti pubblici, possano incidere, e negativamente, sui conti dello Stato. Ad esempio, per l’economista di scuola liberale, un tasso di disoccupazione del tre per cento è fisiologico o frizionale (frutto della maturali “frizioni” tra domanda e offerta). Mentre per i lavoratore che è “dentro” quel tre per cento è una tragedia. Perdere il lavoro in una società, come la nostra, malata di successo e avvelenata dal denaro, significa essere considerati “culturalmente” falliti. Ma il liberista guarda altrove. Perché crede nel dio-mercato. Quel che conta è la crescita del Pil… E se poi qualcuno, come accade, perde il lavoro? Pazienza.
In secondo luogo, i politici pendono dalle labbra degli economisti. Di che si discute in questi giorni? Di tasse e solo di tasse: maggioranza e opposizione sono divise su tutto ma non sul fatto di volere frenare il declino italiano abbassando le tasse. Certo, poi si dividono su aliquote e tempistica. Ma non sul principio (semireligioso), e condiviso da tutti , che la riduzione delle tasse possa, prima o poi, far crescere gli investimenti (e dal quel "poi", dipendono, chissà, quante complicate microstorie umane...). Il che in assoluto non è del tutto falso. Ma, in realtà, quel che conta sul serio per un' economia umana e morale, non è tanto la crescita del Pil, ma lo sviluppo di infrastrutture culturali e sociali. Ad esempio, di università e scuole migliori o almeno funzionanti. Ma il politico, guarda altrove. O magari fa qualche vaga promessa. Chiedendo, ovviamente, all’elettore di avere pazienza. Tanta pazienza…
Ecco, questo “menefreghismo”, per le persone in carne e ossa, condensa bene le ragioni culturali del male italiano (e probabilmente, più in generale, della società tardo capitalistica). Fin quando economisti e politici si preoccuperanno della sola crescita economica, l’Italia continuerà a decadere.
Ma parlare di declino può anche essere utile. Dal momento che anche un dibattito, come l’attuale, così viziato dai tanti, forse troppi, pregiudizi liberisti, può - se si ha la giusta onestà intellettuale - far riflettere sugli errori compiuti. Crescere è importante, ma prima si deve investire “culturalmente”. Ma come? Investendo nei servizi sociali, nelle educazione civica e civile dei cittadini, nelle scuole, nelle università, nella ricerca… La crescita economica, deve cedere il passo alla crescita culturale collettiva. E in questo senso si potrebbe anche parlare di decrescita economica (rispetto ai precedenti, e fin troppo elevati in senso storico, tassi di crescita puramente economica).
Non è facile, ma sarebbe doveroso tentare. Crescere, moltiplicando le fratture sociali e la deprivazione culturale, non porta da nessuna parte.
Carlo Gambescia

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