giovedì 15 ottobre 2009

Il libro della settimana:  Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, nuova edizione accresciuta, Bollati Boringhieri 2009, pp. 278, euro 20,00. 

http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833920146

Giacomo Marramao resta sicuramente il filosofo politico italiano più interessante per ricchezza di pensiero e sistematicità. Nonché per qualità scrittura. Gli appartiene infatti una chiarezza di parola sconosciuta ad altri, pur illustri colleghi, come Massimo Cacciari e Carlo Galli.
Pertanto bene ha fatto Bollati Boringhieri a riproporre, arricchito di un capitolo (il Decimo), il suo Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione ( Torino 2009, pp. 278, euro 20,00). Il libro è un’intrigante mappa - per problemi - di una globalizzazione, che sembra non finire mai.
Ma perché “passaggio a Occidente”? Come spiega Marramao,


“per cogliere la logica specifica di questa globalizzazione enucleando i tratti che la contraddistinguono dalle globalizzazioni precedenti, occorre piuttosto intenderla come un ‘transito’, come un passaggio a Occidente. Il termine ‘passaggio’ va tuttavia liberato - prosegue il filosofo - dalle varie teorie della ‘transizione’, per essere assunto nel duplice significato di viaggio e di mutamento , di rischio e di opportunità . La dinamica di trasformazione e di dislocazione globale dei poteri che, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, si sta svolgendo sotto i nostri occhi altro non è che un impervio passaggio a Nord-Ovest di tutte le culture: un periglioso e avvincente transito verso la modernità destinato a produrre cambiamenti radicali nell’economia come nella società, negli stili di vita come nelle forme di comportamento non solo delle civiltà altre, ma della stessa civiltà occidentale” .


Dunque, la globalizzazione come processo aperto e creativo. Perché secondo Marramao - così pare di capire - dove c’è rischio c’è salvezza: nel senso della possibilità di sviluppare nuove logiche sociali - una sorta di globalizzazione buona - fondate sull’economia del dono, sulla solidarietà e sul rispetto delle differenze.
Marramao ritiene conciliabile all’interno del proceduralismo liberale, economie di mercato e solidarietà “glocale” (da “glocalismo”), in un contesto post-stato nazionale, segnato “dal ravvicinamento tra le grandi civiltà planetarie”. Ma lasciamo a lui la parola:

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“Il modello procedurale costituisce il presupposto, o se si vuole la conditio sine qua non , di una concezione della democrazia in cui mi riconosco profondamente: senza procedure, senza certezza del diritto, senza formalismo giuridico, nessuno di noi potrebbe dirsi veramente libero. E tuttavia la democrazia non è soltanto procedura, non è soltanto diritto: è anche altre cose” .


Si tratta di una posizione condivisibile, che tuttavia pare contrastante con un’altra affermazione, riguardante proprio “le altre cose”:

“Penso piuttosto a una politica che, collocandosi ‘al di là del bene e del male’, sia capace di muovere dalla scena influente rappresentata dall’esperienza del dolore. Forse dovremmo cominciare a pensare alla democrazia come a una comunità paradossale, a una comunità di senza-comunità, i cui princìpi costitutivi discendano direttamente dalla priorità normativa del dolore o, adottando la formula della teologia politica rovesciata, dell’autorità di coloro che soffrono”.


Ma come conciliare il proceduralismo con il risentimento - perché di questo si tratta - di “coloro che soffrono”? Non c’è il rischio di istituzionalizzare, una sorta di robespierrismo universalista, fondato sulla “virtù della sofferenza”? Magari in termini planetari. Insomma, per dirla tutta, di facilitare la nascita di un superstato mondiale - e chissà a che prezzo - di “salute pubblica”?
Crediamo che un teologia politica anche se “rovesciata” resti sempre una teologia. Probabilmente quel che manca a Marramao è buona teoria del politico (si vedano ad esempio il riduttivo capitolo su Schmitt, il cui pensiero viene troppo storicizzato, e quello altrettanto “depoliticizzato” su Polanyi). Ma ci spieghiamo meglio.
Le trasformazioni sociali non sono mai automatiche… Hanno sempre natura politica, e la politica è decisione, e la decisione fonte di conflitto. Il che significa che il conflitto non sempre può essere proceduralizzato. Dal momento che la “proceduralizzazione” (o mediazione istituzionale: il riportare tutto in Parlamento…) diventa tanto più difficile e pericolosa quanto più universalizza il valore in gioco: figurarsi un valore assoluto come quello di un dolore sociologicamente basato sul risentimento, a prescindere dalla buona fede di Marramao. L“istituzionalizzazione” ideologica della sofferenza rischia perciò di sfociare o in una Nuova Chiesa Laica, con la sua Santa Inquisizione dei Diritti umani e universali, o in una carneficina mondiale a fin di bene: “per elevare i meno fortunati”. O in entrambe le cose.
Povertà e sofferenze non vanno ignorate, ma contrastate. Tenendo però sempre presente la logica politica amico-nemico. Una logica sempre rinascente, pure “in basso”. E anche quando si hanno le migliori intenzioni.
In questo senso - e dispiace contraddire Marramao, che comunque ha scritto un buon libro - la politica non potrà mai essere “al di là del bene e del male”, dal momento che i primi a non esserlo sono proprio gli uomini, sofferenti o meno.
Un’idea assoluta, anche se nobile o “teologicamente rovesciata”, resta, per dirla con Borges, come un coltello chiuso in un cassetto. Prima o poi incontra la mano dell’ assassino…


Carlo Gambescia


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