lunedì 28 luglio 2025

Trump, von der Leyen e i dazi al 15%: l’autolesionismo di un’Europa senza più anima liberale

 


Tornano i dazi. E tornano come malattia ideologica. Non è solo una questione di numeri – 15 invece di 50 per cento – ma di principio. E il principio è chiaro: si è piegata la testa al protezionismo, alla logica autarchica, alla statalizzazione degli scambi. Altro che realismo. Altro che vittoria diplomatica.

Il nuovo accordo tra Trump e von der Leyen sui dazi rappresenta la fine – o forse la resa – dell’idea liberale d’Europa. Il dazio del 15%, sbandierato come compromesso “di buon senso”, è in realtà l’accettazione strutturale di un principio illiberale, economicamente autolesionista, moralmente ripugnante.

Quella che segue non è – e non vuole essere – un’analisi tecnica (*). Non discutiamo di percentuali, ma di idee. Il punto non è quanto sia alto un dazio, ma se sia giusto introdurlo. Il liberalismo non è un calcolo, ma un principio: quello della libertà economica come espressione della libertà individuale.

Di conseguenza, quando si accetta di trattare il commercio come leva geopolitica, si smette di difendere un’idea di società aperta e si comincia ad accettare il dominio del potere sulla cooperazione.

E chi accetta questo, ha già perso, anche se pensa di aver negoziato un “buon compromesso”.

1. Le misure: un passo indietro mascherato da mediazione

L’intesa raggiunta prevede un dazio statunitense del 15% su quasi tutte le importazioni europee, escluse alcune filiere strategiche. In cambio, l’Europa promette miliardi di dollari in acquisti di energia e armamenti made in USA. Un baratto, in stile mercantilista, che ci riporta alle logiche di potenza e alle “sfere d’influenza” che nella prima metà del Novecento condussero alla guerra civile europea. Non un accordo multilaterale, non una riforma del WTO, non una semplificazione degli scambi. Solo un accordicchio bilaterale, frutto, ecco la cosa grave, del ricatto .

2. I dazi: autolesionismo puro

Un dazio, anche al 15%, non è mai innocuo. È una tassa imposta non al produttore estero, ma al consumatore nazionale. Chi paga? Le imprese e le famiglie. Chi guadagna? Una manciata di settori iperprotetti e obsoleti, incapaci di reggere la concorrenza. Si dice: meglio 15 che 50. Ma è come dire: meglio una bastonata che un pugno in faccia. Il punto è: perché colpire? E perché colpire se stessi?

3. Una misura controproducente (per USA e UE)

I dazi non proteggono, danneggiano. Le imprese americane operano in Europa attraverso catene del valore integrate. Un dazio sull’auto tedesca colpisce anche i fornitori americani che producono componenti. Un dazio sui farmaci europei danneggia le multinazionali statunitensi che li commercializzano. Meno profitti, meno investimenti. Un gioco a somma negativa. Con effetti depressivi su entrambe le sponde dell’Atlantico. La cosiddetta “America First” è, in realtà, “America Last”.

4. Trump e la fine dell’idea liberale

Non è sempre stato così. Durante la presidenza Obama si tentò, pur tra mille contraddizioni, un vero trattato di libero scambio transatlantico (TTIP). Oggi non se ne parla più. Dimenticato. Archiviato. Trump, a prima vista, può apparire come un erede culturale del peggior isolazionismo americano. In realtà è andato ben oltre: lo ha cancellato in nome di un neo-protezionismo reazionario. Il che non deve stupire: Trump è un fascista economico, animato da un volontà di potenza, sconosciuta al sistema politico americano. Trump predica la libertà ma pratica l’arbitrio. Utilizza la leva commerciale come arma geopolitica. E l’UE – oggi – gli ha dato ragione.

5. Meloni e l’interventismo camuffato da prudenza

E qui veniamo alle dichiarazioni di Giorgia Meloni. Palazzo Chigi ha parlato di “passo positivo” e ha chiesto che “l’UE aiuti i settori colpiti”. Traduzione: più spesa pubblica, più sussidi, più intervento statale. Insomma, si introduce il dazio (errore n. 1) e poi si chiede allo Stato di riparare ai suoi effetti (errore n. 2). Una spirale pericolosa. Sempre uguale. Sempre in nome del “buon senso” nazionale. Ma il liberalismo è altro, e di più elevato: è principio di non intervento.

6. I dazi sono una supertassa

Il dazio è una tassa. Anzi, una supertassa nascosta. Colpisce silenziosamente tutto ciò che entra nel mercato. I prezzi salgono, la competitività scende, la crescita frena. E tutto per cosa? Per difendere l’indifendibile: settori protetti, aziende inefficienti, rendite di posizione. Nessuno ha il coraggio di dirlo: il protezionismo è un sussidio regressivo, pagato dai molti per i pochi. È la negazione dell’equità di mercato.

7. Non è il male minore. È il male

L’argomentazione finale – “meglio 15 che 50” – è il colpo di grazia al pensiero critico. Perché accettare il principio del dazio è già una sconfitta. Il dazio funziona così: alza il prezzo di un bene straniero per renderlo meno competitivo rispetto a quello nazionale. Ma questa manipolazione è una violenza economica. Si stravolge il mercato. Si tolgono scelte al consumatore. Si impedisce all’impresa di ottimizzare la propria produzione. Non è il male minore. È il male stesso

8. La storiella della guerra commerciale evitata

E qui arriva l’argomento più ipocrita di tutti, quello del “meno peggio”: abbiamo evitato una guerra commerciale. Ma è davvero così? Chiariamo: la guerra commerciale inizia quando si abbandona il principio del libero scambio. Non serve una raffica di ritorsioni per dichiararla. Basta un dazio. Basta un 15%. Basta l’idea che il commercio sia arma e non cooperazione.

Chi accetta questa logica ha già perso. Perché ha rinunciato alla distinzione fondamentale tra politica e mercato. Ha permesso che le transazioni pacifiche tra soggetti liberi diventino oggetto di calcolo strategico tra Stati.

Altro che pace: è il primato della politica sulla libertà individuale. È “guerra fredda” al mercato. È nazionalismo economico mascherato da equilibrio. Al quale può seguire, considerati i cattivi rapporti economici tra stati, la “guerra calda” tra le nazioni.

Conclusione: una sconfitta culturale

L’accordo Trump–von der Leyen non è una tregua, ma una capitolazione morale. La UE ha tradito lo spirito liberale dell’Occidente. Ha ceduto al realismo miope. Ha sacrificato il lungo periodo sull’altare del consenso immediato. 

In nome di una “pace commerciale”, ha convalidato il principio illiberale dell’interventismo economico. E lo ha fatto accanto a Trump, l’uomo che oggi incarna la deriva autoritaria, sovranista, mercantilista. 

Per dirla fuori dai denti: una deriva fascista. Perché Trump disprezza tutto ciò che il liberalismo rappresenta.

E chi, come Giorgia Meloni, che tra l’altro di fascismo se ne intende, si dice “pragmatica”, in realtà è solo complice. Complice di una svolta che umilia l’idea stessa d’Europa come spazio aperto, dinamico, competitivo.

Perché senza libero mercato, non c’è libertà. E senza libertà, non c’è progresso.

Carlo Gambescia

 

(*) Per i dettagli concreti dell’accordo, rimandiamo alla versione ufficiale che sarà pubblicata a breve. Nel frattempo, si può consultare questo articolo di Reuters: https://www.reuters.com/business/us-eu-avert-trade-war-with-15-tariff-deal-2025-07-27/?utm_source=chatgpt.com .

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