mercoledì 31 luglio 2024

La libertà di stampa secondo la destra

 


La destra che ci governa ha da sempre  un brutto rapporto  con le istituzioni  e con la stampa. Una verità che trova conferma in due report: il primo sullo stato di diritto curato dall’Unione Europea (*); il secondo  sulla libertà di stampa  pubblicato da  Media Freedom (**).

Concentriamoci sulla libertà di stampa. E soprattutto sulle reazioni. 

Appena “pervenuto”, Giorgia Meloni, non ha perso tempo. Ha addirittura attaccato dalla Cina, in primis,  “Repubblica”, “Domani”, “Il Fatto”, insomma la stampa non ancora allineata. Che ormai è poca roba. Considerando  la stessa  svolta filogovernativa di Cairo (Corriere della Sera”).

Non solo non ha concesso nulla. Ha pure accusato, evocando le continue fake news, da parte di questi giornali, contro Fratelli d’Italia e il governo.

Le cose stanno così? No. Questi giornali fanno il loro lavoro. E solo per dirne una (in senso contrario), l’Ansa ha nascosto la spropositata reazione della Meloni tra le righe di un articolo sulla visita cinese (***). Capito l’Ansa? La più grande agenzia di stampa italiana. E le altre? Adnkronos e Agi, che sono altrettanto importanti, hanno subito preso le difese della Meloni. Così è.

Un altro esempio di come va l’informazione in Italia? Abbiamo fatto una micro-inchiesta, diciamo a campione. Chiedete a un anziano “medio” di Kamala Harris. Vi risponderà che ride sempre. Per quale ragione? Perché Rai e Mediaset, le tv più viste dai pensionati italiani, hanno sposato la tesi trumpiana che la candidata è mezza scema. E la Meloni ha il coraggio di parlare di fake news. Che si vergogni. E meno male che Media Freedom c’è.

Questa è gente, che viene da un partito, che per bocca di Almirante, difendeva i colonnelli greci (****). E tuttora non ne prova vergogna. Della libertà di  stampa ignora tutto. Salvo quando capita, di scappare con la cassa.

Però blatera di complotti da parte di giornali, come sottolinea la Meloni, “portatori di interessi”. E che altro deve “portare” un giornale? Si chiama dinamica liberale della pubblica opinione. La stampa di destra – il gigantesco trust mediatico Angelucci – non “porta” gli interessi del governo Meloni? Allora la destra sì, la sinistra no?

Questa gente è pericolosa. Veramente.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/policies/justice-and-fundamental-rights/upholding-rule-law/rule-law/annual-rule-law-cycle/2024-rule-law-report_en .

(**) Qui: https://europeanjournalists.org/blog/2024/07/29/mission-report-silencing-the-fourth-estate-italys-democratic-drift/ .

(***) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/07/30/meloni-in-cina-contatti-con-von-der-leyen-sul-commissario-lettera_97d590f2-5592-4f0d-92f8-459c163da6c1.html .

(****) Qui: https://www.youtube.com/watch?v=cx2ON7QlkE0&t=143s .

martedì 30 luglio 2024

Cina. Il realismo politico a breve termine di Giorgia Meloni

 


Si dice che la politica estera debba sempre essere scuola di realismo politico. E che cos’è il realismo politico? Badare più agli interessi che ai valori. Pertanto essere realisti significa innanzitutto pensare solo all’Italia: alla sua sicurezza economica e politica. Si chiama difesa dell’ interesse nazionale.

Giorgia Meloni si propone di fare buoni affari economici con la Cina, paese che, come noto, è una dittatura. L’ideologia di Fratelli d’Italia, pur rinviando all’anticomunismo, sembra non impedire accordi economici con un paese comunista.

Il realismo dov’è? Nel prendere atto che all’Italia conviene mettere da parte qualsiasi pulsione romantica e aumentare l’interscambio con Pechino. Di qui la valanga di grafici in materia prodotta dai think tank meloniani o vicini alla destra. Per la serie “che tocca fare per campare” (se ci si perdona la caduta di stile).

Esiste però un’altra versione del realismo politico, più convincente, quella dell’immaginazione del disastro (*). Cioè il realista politico, pur difendendo l’interesse nazionale ne prolunga il raggio di azione: non si limita a valutare il presente ( realismo a quo), come nel caso del viaggio di Giorgia Meloni in Cina, ma guarda più lontano al futuro (realismo ad quem) (**).

Cosa significa guardare lontano? Vuol dire evitare l’errore che si è commesso con la Russia, altra dittatura, che ha visto una disastrosa involuzione dei rapporti economici, che si poteva prevedere, perché nelle dittature l’ultima parola è sempre di tipo militare.

Si dirà che Cina e Russia sono grandi potenze, quindi non si può fare a meno di intrattenere rapporti economici, eccetera. Insomma, non si può nascondere la testa nella sabbia. Qui però viene fuori il lato stupido del nazionalismo, che distingue l’attuale governo, che si muove come se l’Italia non fosse parte dell’Europa e dell’Occidente. Attenzione, parte “cognitiva”, non solo valoriale, eccetera.

Un inciso. Va ricordato che sui rapporti tra dittature e mondo libero, anche i governi precedenti, non di destra, hanno commesso lo stesso errore di Giorgia Meloni. Prodi, solo per fare un esempio, insiste tuttora sull’idea di non lasciare la Cina economicamente sola.

La sinistra continua a ragionare in termini di ottimismo economico. Cioè sposa l’ idea che l’interesse economico sia più forte di quello militare. Sotto questo profilo la scelta pro Cina e pro Russia della sinistra rinvia a motivazioni di tipo universalista non nazionalista.

Tuttavia nei due casi (Meloni e Prodi, semplificando) si tratta di realismo politico a quo (a breve termine). Un combinato, neppure così disposto, tra nazionalismo e ottimismo che – comunque sia – esclude quell’immaginazione del disastro che caratterizza invece il realismo politico ad quem (a lungo termine).

Dicevamo di Gorgia Meloni e del respiro corto del nazionalismo. Ci spieghiamo meglio.

Essere parte “cognitiva” dell’Occidente e dell’Europa significa afferrare al volo, quasi in automatico, la differenza che corre tra una democrazia e una dittatura. E soprattutto immaginare il disastro, a cominciare dai rapporti economici. Disastro che può essere provocato in qualsiasi momento dalle scelte militari in ultima istanza delle dittature.

È vero che il libero commercio favorisce gli scambi tra culture e può convertire una cultura di guerra in una cultura di pace. Lo sviluppo della storia interna dell’Occidente ne è una riprova. Però, ecco il punto nodale, con Russia e Cina non ha mai funzionato. Per la semplice ragione che questi due paesi non hanno mai accettato la modernità nei suoi risvolti liberali.

E qui si apre un’altra questione. L’attuale governo, e in particolare Fratelli d’Italia, ha le stesse difficoltà russe e cinesi nell’accettare la modernità liberale. Si tratta di un’eredità fascista. Il che spiega, e concludiamo: 1) l’estraneità della destra italiana ai valori dell’Occidente; 2) le simpatie per le dittature; 3) certo realismo politico a breve termine, che, come quello mussoliniano, può portare l’Italia alla rovina.

Carlo Gambescia

(*) In argomento si veda J. Molina, L’immaginazione del disastro. Raymond Aron, realista politico, Edizioni Il Foglio (autunno 2024).

(**) Sul punto si veda C. Gambescia, Il grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni  Il Foglio 2019, pp. 23-31 (https://www.amazon.it/grattacielo-formichiere-Sociologia-realismo-politico/dp/887606785X ) .

lunedì 29 luglio 2024

Totalitarismi veri e falsi…

 


Ci prova oggi Alessandro Campi sul “Messaggero”: non merita alcun commento personalizzato. Banalità di estrema destra, mascherate sotto una leggerissima mano di vernice aroniana. Che fatica. E solo per entrare nella cabina di comando di un dinosauro. De minimis non curat praetor

Il nocciolo della questione è l’equiparazione che alcuni intellettuali, in particolare di destra, conio meloniano, diciamo, fanno tra il totalitarismo ideologico, istituzionalizzato (il lettore prenda nota del termine), ad esempio nazista e comunista, e quello di un movimento di opinione, Woke, che, sostanzialmente, propugna una rilettura della storia in chiave femminista, lgbitqsta eccetera.

Si rifletta: da una parte abbiamo velenose ideologie storiche che hanno provocato miliardi di morti, dall’altro un movimento, qualcosa che è in formazione (anche qui il lettore prenda nota), e che per ora si muove, sul piano, come detto, del movimento d’opinione, sebbene in qualche sede istituzionale abbia trovato ascolto ( si pensi, ad esempio alla rilettura parigina dell’Ultima Cena ).

Secondo alcuni osservatori, soprattutto di destra, la forma mentis fondamentalista, accomunerebbe ad esempio, un comunista, un islamista, un wokista. Soggetti che inquadrano, si ripete, solo un lato della realtà, quello della purezza della classe, della religione, delle ingiustizie sociali e razziali verso donne, gay, neri,

Il monoteismo ideologico – e questo è vero – può essere molto pericoloso, persino quando si esprime a livello di movimento, di un attore sociale  in cerca  di legittimità istituzionale. 

In pratica, e non è solo una battuta, il vero pericolo si evidenzia quando il rivoluzionario si tramuta in carabiniere:  quando il movimento diventa istituzione. E per il movimento Woke, nonostante le esagerazioni della destra,  non siamo ancora a questo punto. 

Per inciso, la dinamica movimento-istituzione è una regolarità metapolitica. E' il sale sociologico.  E' inevitabile.  Nel senso che caratterizza, con altre costanti metapolitiche, gli ultimi cinquemila anni di comportamento politico e sociale.

Qui sorgono due problemi.

Il primo rinvia alla natura della società liberale, che deve distinguere, proprio perché tale, tra movimenti e istituzioni. Massima libertà per il movimento delle idee, contrasto invece, verso la pericolosa istituzionalizzazione di una sola idea, come di un solo movimento di opinione. Di una sola “offerta” culturale diciamo.

Il secondo rimanda alla differenza tra una società totalitaria e una società liberale. Non viviamo, almeno per ora, nell’Italia di Mussolini, nella Germania di Hitler, nella Russia di Stalin, eccetera, quindi è giusto che ognuno possa esprimere le sue idee.

Perciò silenziare il movimento woke, come pretendono i fondamentalisti di destra (perché di questo si tratta), evocando il totalitarismo,  significa solo concedere percioloso  spazio a un altro totalitarismo, ad esempio cristiano. Che ha dato ben altre prove di tipo istituzionale, peggiori del wokismo, movimento che rispetto a duemila anni storia del cristianesimo è ai primi vagiti, ammesso e non concesso che sia tale.

Insomma, da un parte c’è un totalitarismo (non parliamo solo degli eccessi del cristianesimo) vero, fondato, storico, dall’altro un totalitarismo retorico, narrativo, come si dice oggi, una specie di fantasma che la destra agita per cecità ideologica.

In realtà, la vera minaccia per la società liberale è rappresentata non dalla rilettura gay dell’Ultima Cena, ma dal ritorno di concezioni totalitarie, in crescita ovunque, che in passato hanno dimostrato, con passo ferrato, di essere tali. Altro che tritoni e drag queen…

Il movimento woke, non si contrasta con la censura istituzionale, ma con un altro movimento di idee, altrettanto sociologicamente appetibile. Detto altrimenti: diversificando l’offerta. E invece che si fa? Poiché il  fascismo, o comunque un bieco conservatorismo politico e sociale sfociante nella reazione,  non è   altrettanto appetibile sul piano culturale, si vuole ricorrere per un verso all’inganno, per la serie “al lupo al lupo”, e per l’altro all’uso della forza, per tramutare ciò che offende in ciò che vilipende. Detto altrimenti: il cattivo gusto (secondo alcuni) in reato (secondo altri).

Secondo la destra il wokismo rischia di trasformarsi in totalitarismo, anzi già sarebbe totalitario. Non vediamo però intorno a noi campi di concentramento e sterminio. Anche perché resta complicato togliere di mezzo la stragrande maggioranza dell’umanità. Né scorgiamo un testo sacro “wokista”, per così dire, capace di vendere tuttora miliardi di copie come il Mein Kampf. Tra l’altro autentico best sellers nel mondo islamico. Né infine "duci" e compagnia cantante.

Certo un vero liberale, deve sempre tenere gli occhi aperti. Però, ecco il punto, di veri liberali in circolazione ce ne sono pochi. Di qui quel conflitto tra wokisti e antiwokisti, che è tutto eccetto che liberale. Il che, in effetti, è molto pericoloso. Perché nel conflitto, le posizioni si estremizzano, viene fuori il peggio, eccetera, eccetera.

Pertanto, fin quando non si uscirà da una contrapposizione, inutile perché i veri nemici del liberalismo sono all’esterno (ad esempio, russi e cinesi, ), si favorirà una strategia, delle divisioni in campo nemico, che poi sarebbe il nostro, divisioni che invece favoriscono i veri nemici dell’Occidente. E che non hanno nulla a che vedere con il pluralismo liberale.

Per usare una formula: pluralismo e tolleranza all’interno, monismo, anche militare, se occorre all’esterno. Non il contrario.

Ecco il nocciolo della questione. Che la destra non potrai mai capire, perché “totalitarista” dentro, quindi monista verso tutti

Carlo Gambescia

domenica 28 luglio 2024

Ultima Cena Queer. E allora?

 


Definiremmo la cerimonia di apertura delle Olimpiadi parigine una carnevalata per turisti. Chiassosa e fumosa, una specie di rappresentazione pubblicitaria di una Francia sopra le righe. Secondo lo stilema, per parlare difficile, a tinte forti della pubblicità: uno spot di quattro ore. Da tirarsi un colpo di pistola alla tempia.

Scherziamo. Piaccia o meno, questi sono i gusti “massosi” (da massa) dei tempi. Così è. Citofonare Ortega y Gasset.

Quanto all’ Ultima Cena Queer (per semplificare) - ammesso e non concesso che questo fosse lo scopo degli organizzatori - non vi scorgiamo nessuna offesa alla religione. Anche perché il concetto di “offesa alla religione”, evocato dalla destra e da alcuni prelati, è roba da fondamentalisti. Cioè la destra, inclusiva dei soliti preti con la lente di ingradimento, ancora una volta, ha provato di essere, nonostante le scemenze sui pericoli della “sostituzione”, più islamista degli islamisti. Questa destra è tutto eccetto che liberale. Ecco il vero problema.

La destra, attacca il fondamentalismo islamico, ma difende il fondamentalismo cristiano. Si comporta, diciamo idealmente, come quei terroristi che massacrarono i giornalisti di Charlie Hedbo. La forma mentis è la stessa.

Per quale ragione? La destra rifiuta tuttora la modernità. E che cos’è la modernità? Libertà di parola. E la libertà di parola implica la libertà di inquadrare l’Ultima Cena nell’ambito della cultura Gay (semplificando). E' cosa di cattivo gusto? Può darsi. La civiltà è "massosa".  Di questo ride e sorride.  Certo,  al cristiano può non piacere  perché vede offesi, eccetera, eccetera.  Però offesi non vilipesi. Il cattivo  gusto non è sinonimo di reato, cioè di carcere.   O peggio ancora  qualcosa da punire con la morte. 

Il cristiano  perciò deve   farsene una ragione. Dal suo punto di vista preghi di più per i “peccatori”. Senza però andare oltre. Quando alla destra politica, non sfrutti la religione, per imporre le sue idee arcaiche su dio patria e famiglia.

Non lo si dimentichi mai: la modernità è separazione tra stato e chiesa. E non si può, anzi non si deve, pretendere una legislazione che imponga ciò che è giusto e sbagliato dal punto di vista del cristianesimo. Nella società secolare, se esiste una cosa sacra, questa è la libertà di parola e di pensiero.

Chiedere che la legge introduca nei costumi (diciamo) limiti di tipo religioso è una forma di confessionalismo. Detto altrimenti: di subordinazione di un partito o di uno stato alle autorità religiose. Roba da giurisprudenza islamica.

La destra, nemica della modernità, ragiona come un politico musulmano. Si rimette alla parola del “cadi”, il giudice musulmano di nomina governativa, nel nostro caso il papa o un prelato, affinché si definisca ciò che è giusto o sbagliato, dal punto di vista, per così dire, della “Sharia cristiana”.

E tutto questo accade nonostante il Rinascimento, l’Illuminismo, il Liberalismo. Siamo ancora qui a discutere di blasfemia. Di offesa alla divinità. Altro termine che appartiene al vocabolario fondamentalista.

Che malinconia.

Carlo Gambescia

sabato 27 luglio 2024

Il fascino della dittatura

 


Capita spesso di leggere elogi, velati o meno, della dittatura, dell’ uomo forte al comando, dei militari come rimedio contro i politicanti, corrotti e chiacchieroni.

Putin, classica figura di dittatore moderno ha non pochi ammiratori in Europa, soprattutto tra i geopolitici rosso-bruni, per usare un termine giornalistico.

La dittatura moderna ha valorizzato l’elemento cesaristico. Nel senso del ricorrere come giustificazione a un mandato democratico, però addomesticato. In qualche misura sarebbe forse più corretto parlare di tirannia: di governo di un solo uomo che viola o elude le leggi esistenti per il bene del popolo, come ipocritamente spesso si sente dire.

Di Putin, ad esempio, si ammira il decisionismo, l’uso della forza militare, l’ordine che regnerebbe in Russia, frutto di un consenso, spontaneo (si dice) e non ottenuto con la forza o con l’inganno.

In quest’ultimo aspetto risiede del vero. In realtà, e non parliamo solo della Russia, ma del rapporto tra potere e consenso in generale, una parte, probabilmente maggioritaria, della gente comune, non chiede altro che ordine e legge, vuole condurre una vita “normale” e non si preoccupa di altro, fin quando non è coinvolta direttamente.

Il fascismo, con i suoi treni in orario, la “mutua”, il dopolavoro, eccetera, non fu sgradito agli italiani. Ma il problema concerne anche le democrazie liberali.

Il concetto da non perdere vista è il seguente: un regime politico (dittatoriale o meno), fin quando non stravolge la vita quotidiana della gente comune non solo è sopportato, ma addirittura sostenuto. Stravolge, in che senso? Ad esempio entrando in guerra, dall’Italia fascista ai generali argentini, oppure subendola come la Francia della Terza repubblica, sconfitta dagli eserciti del Terzo Reich.

Sussiste però una differenza fondamentale: che la dittatura esclude la competizione elettorale o la riduce a farsa, mentre la democrazia liberale la privilegia. Si può criticare, di quest’ultima, l’uso avvocatesco della retorica, la sperequazione dei mezzi economici, la lentezza e la corruzione delle burocrazie, ma non il principio della concorrenza politica che le dittature conculcano o eludono.

Se dalla gente comune si passa all’analisi delle élites politiche, va ricordato che una parte di queste ultime, stregata dal principio di eguaglianza, pretende di introdurlo a tutti i costi, anche con la dittatura. Di qui il fascino delle dittature marxiste e dei vari populismi di sinistra, anche militarizzati. Del resto come si spiegherebbe il perdurante fascino di Cuba e di un populista marxista armato di mitra come Che Guevara?

Ma il discorso può essere esteso anche alle  élites politiche di estrema destra, la stessa destra che tuttora sostiene, senza provare alcuna vergogna, che il fascismo fece cose buone.

Il parlamento, da non pochi di costoro (all’estrema destra come all’estrema sinistra),  è giudicato una farsa, il liberalismo una truffa dei ricchi contro i poveri, lo stato di diritto una palla al piede.

Insomma la situazione sembra essere la seguente: la maggioranza della gente, come del resto attesta il non voto, sembra non avere alcuna vocazione politica o propensione verso la dittatura o la democrazia. Basta che le cose funzionino, anche al minimo, ma che funzionino.

Su questo atteggiamento abulico, che rinvia a una socializzazione liberale mancata (o comunque problematica perché impone il costante impegno nei “socializzatori” e nei “socializzandi”), le élites politiche, nemiche della liberal-democrazia, possono tranquillamente edificare le proprie fortune elettorali. Come sta accadendo.

Esiste una soluzione? L’acquiescenza al potere, rinvia a meccanismi inerziali. L’acquiescenza può essere rivolta al bene o al male. La liberal-democrazia è superiore alla dittatura. Ma la cosa non sembra interessare più a nessuno.

Carlo Gambescia

venerdì 26 luglio 2024

Trump & Co. e il dilemma della democrazia liberale

 


Era inevitabile che Trump usasse il passo indietro di Biden come un’occasione per dipingere i democratici come autori di un golpe e nemici della democrazia.

Dall’introduzione storica della democrazia liberale, i suoi nemici – e Trump non è che un epigono – usano i principi democratici per agguantare il potere e poi cancellare la democrazia liberale.

Di regola, viene evocato il potere del popolo, del plebiscito, contro élite dipinte come corrotte, che predicano bene e razzolano male (per dirla alla buona). Da almeno due secoli la stampa di destra pubblica gli stessi articoli e titoli. I nostri Sechi, Belpietro, eccetera, non dicono nulla di nuovo.

Si potrebbe risalire a Napoleone III, foraggiatore di giornali amici e affossatore di un parlamento liberale e di una monarchia costituzionale. Napoleone III prima fu presidente repubblicano poi imperatore per plebiscito.

In seguito Lenin, Mussolini, Hitler usarono i mezzi della democrazia liberale (dalla libertà di stampa allo stato di diritto) per afferrare il potere e poi sopprimere tutto.

Come ci si può difendere dai nemici della libertà che sfruttano la libertà per liquidarla? Mettendoli fuori gioco. Come? Ricorrendo a ogni  mezzo: legale e illegale. E, come vedremo, la cosa  potrebbe non bastare.

Sarebbe ovviamente preferibile la via legale. In Europa, dopo il 1945, in particolare in Germania, si vietò per legge la ricostituzione di partiti nazisti, fascisti e comunisti. Nella Germania occidentale venne istituito un apposito organo che doveva decidere della costituzionalità dei partiti. In Italia, tra le norme transitorie della Costituzione, si introdusse il divieto di ricostituzione del partito fascista.

Nonostante ciò (inclusa una successiva legislazione,   con tentativi perfino  di respiro europeo), oggi in Germania e in Italia, partiti, pur con denominazioni diverse ma di derivazione fascista o comunista, competono ad armi pari con i partiti liberal-democratici, addirittura all’interno del parlamento europeo. In Italia sono addirittura al governo. E il fenomeno riguarda, purtroppo, l’intera Unione Europea.

La legalità non è bastata. Come del resto negli Stati Uniti, dove Trump, grazie al garantismo del sistema giudiziario liberale, è uscito indenne persino dall’accusa di tentato colpo di stato. Il paradosso è nel fatto che il sistema giudiziario statunitense, come in ogni sistema liberale, pur ritenendolo colpevole di varie frodi e abusi (anche sessuali), ha permesso a Trump, a causa di una specie di proceduralismo inerziale, di continuare a insidiare la democrazia liberale.

I suoi avversari si trovano nella strana situazione di competere con un nemico che, una volta al sicuro grazie  a leggi che disprezza e vuole cancellare, rovescia sui democratici le stesse accuse rivolte contro di lui. Trump utilizza il sistema contro il sistema. Per distruggerlo.

Dicevamo del ricorso a mezzi illegali. Illegali rispetto alle norme in vigore, ma perfettamente legittimi rispetto alla difesa dei principi liberali che regolano il sistema. Se la legalità implica la distruzione di una società liberale, va sospesa, per il periodo di tempo necessario a eliminare i suoi nemici in nome della legittimità liberale.

Qui risiede il dilemma della società liberale: una società per pochi, che per reggersi ha necessità dei molti, ma che favorisce, rispetto ad altre società storiche la libertà dei molti.

Per capirsi: a governare, storicamente e sociologicamente sono sempre in pochi, ma, all’interno di queste coordinate metapolitiche, il liberalismo garantisce, rispetto ad altri sistemi, maggiore libertà e migliore tenore di vita. Sono verità lapalissiane eccetto che per i nemici del liberalismo che blaterano, solo per afferrare il potere, di democrazia integrale, articolandola di volta in volta in termini di sovranità popolare, secondo criteri, comunitari, identitari, nazionalisti e razziali. Si potrebbe parlare di una specie di istinto cieco dell’assolutismo politico (sul punto torneremo più avanti).

Si pensi a una dinamica in atto da alcuni secoli tra superlegittimità (la sovranità del popolo, evocata dai nemici del liberalismo come mezzo per distruggere le istituzioni liberali), legittimità (propugnata dai difensori delle istituzioni liberali) e legalità (delle procedure, che mette sullo stesso piano i nemici e i difensori della libertà).

Ovviamente la difesa della legittimità, sulla base del ricorso alla forza, implica alcuni pericoli, che di seguito elenchiamo: 1), quello principale, della volontà di martirio che sfocia nella guerra civile; 2) quello secondario, sempre legato alla martirologia, di ricorso al terrorismo, da parte dei partiti messi fuori gioco; 3) quello di una situazione di stato di eccezione, gestita dalle forze dell’ordine, che rischia di limitare la libertà anche degli stessi membri, in alto come in basso, favorevoli al sistema liberal-democratico.

Il ricorso alla forza, come altre forme di azione sociale, è sempre suscettibile di effetti perversi, contrari alle intenzioni, pur buone, dei promotori.

Il vero punto della questione è che si dovrebbe fare il possibile per non giungere all’uso della forza contro i nemici della liberal-democrazia. Pensiamo ad esempio a una socializzazione liberale e a un’economia di mercato in costante crescita. Insomma a una maturazione che purtroppo la società di massa, con i suoi riti e costumi plebiscitari, non favorisce.

Si rifletta. Già il nostro ragionamento sulla necessità del ricorso alla forza rappresenta un punto a favore dei nemici della società liberale. Fascisti, nazisti, comunisti, oggi mascherati da populisti, sovranisti, isolazionisti, insomma in veste di difensori di un “dato” popolo, si augurano la guerra civile, per poter così dare sfogo a tutto l’odio che hanno in corpo contro la liberal-democrazia. E finalmente distruggerla.

A che scopo? Per imporre una superlegittimità, che, come la storia mostra, dove sono riusciti, non è assolutamente esercitata dal popolo. Cosa che, va ripetuto, rimane impossibile da realizzare in chiave integrale. Infatti, storicamente parlando, la sovranità del popolo ha trovato il suo combinato disposto, per quanto imperfetto, nelle liberal-democrazie. Sotto questo aspetto, metapoliticamente parlando,  da una parte abbiamo  2-3 secoli di esperimento liberale, dall'altra  47-48 di assolutismo.

Conclusioni? Siamo messi male. I nemici della società liberale potrebbero vincere. La storia, tornando sulla questione del “cieco istinto”, parla la lingua dell’ assolutismo, prima per “diritto divino”, poi per “diritto popolare”. Non è facile cambiare le cose.

Purtroppo, sul piano di una specie di superlegittimità, la sovranità, sia nel caso della liberal-democrazia che in quello dei suoi nemici, viene considerata patrimonio del popolo. E il popolo sovrano, come detto, oggi come oggi, segue gli usi e costumi della società di massa. Non immuni da quel cieco istinto assolutista già ricordato.

Bad Moon Rising, per dirla con i vecchi “Creedence”. E non solo sugli Stati Uniti.

Carlo Gambescia

giovedì 25 luglio 2024

Esoterismo liberale

 


Cosa c’entra il liberalismo con l’ottimo libro di Bérard e La Fata? Presto detto.

Che cos’è l’esoterismo tra verità e contraffazioni (Solfanelli*) è uno dei pochi libri, forse l’unico, che tratta la materia in modo, oltre che scientifico, senza apriorismi di tipo ideologico. Fa “parlare” tutti, e in questo senso è tollerante, quindi liberale.

Diciamo che l’ “umilità cognitiva”, virtù caratteristica dello studioso Aldo La Fata, è riccamente apprezzata anche dal suo interlocutore Bruno Bérard, brillante studioso di storia delle religioni e di metafisica (senza dimenticare la puntuale postfazione di Jean-Pierre Brach). E da questa condivisione è nato un ottimo studio.

Come si è capito si tratta di un libro-intervista, o per meglio dire di un libro-dialogo tra due specialisti della materia, che però cercano di parlare al mondo. Qui la differenza con altri lavori prodotti dalle le varie tribù degli esoterismi armati di un esclusivismo che per un  verso gratifica per l’altro nullifica, come spiegheremo più avanti.

Intanto, non un aspetto della materia è dimenticato. La lista è lunga: esoterismo e scienza; esoterismo e religione; storia dell’esoterismo ( o meglio “una storia”), esoterismo ed esoteristi; esoterismo e mistica, esoterismo ebraico, islamico, cristiano, hindù, buddhista, taoista, moderno.

Centrali, almeno a nostro avviso, sono i capitoli sul rapporto tra “esoterismo e metafisica” e tra esoterismo e “umiltà cognitiva” ( qui, i nostri ringraziamenti agli autori per aver ripreso e sviluppato la nostra terminologia). Non meno interessanti i capitoli sulla biografia intellettuale di La Fata e quello conclusivo sulla natura dell’esoterismo.

Dal punto di vista del recensore il volume può essere affrontato seguendo due modalità: 1) in termini di critica interna ( analisi dei punti, delle virgole, eccetera, puntando sul richiamo della foresta delle differenti scuole, di qui però i possibili sposalizi, divorzi, anatemi e conflitti ermeneutici nella più benevola delle ipotesi); 2) in termini di critica esterna tesa a capire e sviluppare il valore metapolitico dell’esoterismo, racchiuso nel volume.

Sotto quest’ultimo aspetto, che è quello che abbiamo scelto (anche per ragioni disciplinari), il volume di La Fata e Bérard rimanda a un approccio che vede nell’esoterismo un “fenomeno di mediazione” (che dialoga con la scienza, la metafisica, la religione), fautore di transizioni sociali. Un fenomeno, che, come sembra di capire, va al di là della dimensione quantitativa del “gruppo esoterico”. In questo senso piace molto – perché a nostro avviso giusta e giustificata – l’ immagine,  proposta da La Fata,  di derivazione guénoniana (se ricordiamo bene) della religione, come esoterismo vittorioso.

Una vittoria che vede la trasformazione in quantità, cioè in religione, di una qualità, ossia l’esoterismo, come sapere di pochi.

Il che – e torniamo al punto – risulta esito di una mediazione, che potremmo chiamare metapolitica, perché esito di un processo di razionalizzazione sociale (in senso moralmente buono; siamo consapevoli del fatto che il termine possa non piacere, ma rinvia alla metapolitica delle regolarità); razionalizzazione, dicevamo, di una “verità” precedentemente di pochi. Per dirla banalmente: il seme mette radici, si trasforma in albero, e l’albero fruttifica abbondantemente

Se non si fa religione – ecco il punto fondamentale – l’esoterismo resta setta o se si preferisce regredisce a fenomeno settario . E qui si pensi alla classica dinamica setta-chiesa studiata da Troeltsch ne Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , ma anche a quella istituzione-movimento proposta da Alberoni (altra regolarità metapolitica). Detto in altri termini: Tertium non datur .

Un inciso. Sotto quest’ultimo aspetto, la biografia di Aldo La Fata sembra essere un continuo prendere le distanze, per allargamenti cognitivi successivi, da ogni forma di stantio e lunatico tradizionalismo. Un farsi “istituzione”. Ai futuri biografi il compito di approfondirne, al di là del bene e del male, i sulferei apporti evoliani (dal punto di vista del “movimento”), che ovviamente non sono i soli nel brillante quadro intellettuale della formazione lafatiana che include come “padri”, tra gli altri, Panunzio e Guénon.

Perciò la dinamica metapolitica dell’esoterismo sembra essere bidirezionale (processi di inclusione-esclusione, altra regolarità metapolitica): setta-religione; religione-setta. E qui si pensi per un verso alla magniloquente evoluzione delle grandi religioni, e per l’altro alla sorte, a un certo punto involutiva, del buddhismo in India, nonché alla pietrificazione di non poche sette, come ad esempio le misteriche precristiane, o a certe diramazioni desertificanti del protestantesimo e del tradizionalismo cattolico.

Si tratta di un approccio metodologicamente profondo e produttivo che ritroviamo puntualmente in Che cos’è l’esoterismo. Un libro, ripetiamo, che vuole parlare al mondo. Qui il suo liberalismo, la sua tolleranza, frutto di un’umiltà cognitiva sconosciuta ai fautori di un esoterismo settario, o peggio ancora politicizzato. Insomma, come detto, siamo davanti a un’ottima prova, largamente superata, di esoterismo liberale.

Carlo Gambescia 

 

(*) Qui: http://www.edizionisolfanelli.it/checoselesoterismo.htm .

mercoledì 24 luglio 2024

Il fascismo come culto privato (e altre cosette)

 


Cari amici lettori, Fratelli d’Italia ha sposato la causa liberale. Per bocca (non solo) di Ignazio La Russa, seconda carica dello stato, il giornalista della “Stampa”, preso calci da alcuni facinorosi di estrema destra, doveva qualificarsi.

La stessa tesi è sostenuta a proposito delle frasi antisemite, tralasciando inni fascisti e saluti romani, “rubate” da un giornalista a un gruppo di giovani iscritti alla Gioventù Nazionale di Fratelli d’Italia.

Cosa vogliamo dire? Che il culto del fascismo si è fatto privato. La “religione” come questione coscienziale. Il fascismo, come una qualsiasi scelta religiosa, è diventato un fatto di coscienza. Insomma testimoni di Geova e testimoni di Mussolini. Stessa cosa. Un classico del pensiero liberale.La Russa come Tocqueville.

Le “celebrazioni” sono fatti di natura privata e i giornalisti si devono “qualificare”. Anzi essere invitati. Il fascismo non è più ideologia pericolosa, ma una fede privata. Che tutti hanno il diritto di professare. In privato.

Che poi questa gente meni e voti è solo un piccolo dettaglio.

Per gli smemorati: “L’ Asso di Bastoni” – il nome del ritrovo milanese – rimanda al titolo di una testata neofascista, letta dai più facinorosi, che usciva tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Capito l’excursus storico-filologico? Di che panni si vestono costoro?

Notazione di viaggio. Anzi due.

In un comune del Nord mi sono ritrovato, gomito a gomito, a comprare il giornale, con una signora di una certa età, dall’aspetto illetterato, che, tutta ispirata, ordinava il libro di Vannacci. Un regalo forse? Ancora peggio allora… Come ha giustamente sostenuto il giovane amico che mi accompagnava.

Seconda notazione. I treni, nelle due versioni, pubblica e privata (privata si fa per dire), fiori all’occhiello, si diceva e si dice, del fascismo, non funzionano: ritardi di quattro-cinque ore. Giorgia Meloni, la bisnipote, è un fallimento anche in questo. Il che non significa che serva il fascismo per far funzionare i treni. Basta una cosa che si chiama libera concorrenza. Vera però.

Ma la cosa più brutta è la gente. Che subisce passivamente. Il personale del treno si nasconde. A parte una specie di Mago di Oz, che chiuso in cabina annuncia i ritardi. Motivo? Alcune “presenze estranee” sui binari. Che vuol dire? Il vampiro? Un gruppo di zombies? Son tornati i ragazzi della via Pàl…

Quando poi i treni   si  sfasciano e si giunge a destinazione con cinque ore di ritardo ci si ritrova  in un Roma laicissima, come asserisce il sindaco Gualtieri, ma prigioniera –  questo non lo dice – del combinato disposto tra preti e costruttori. Cemento e aspersorio.  Detto altrimenti:  traffico  tipo Dakar niente metro, taxi invisibili e autobus come carri bestiame…

Quindi, a fronte di tutto questo, che sono due ore di ritardo? Perciò sul treno si ride, si fanno battute. Come i comici televisivi. Ormai la scuola è questa, si ride di tutto. Oppure, mentre i cretini ridono, altri restano per ore al cellulare a consumare i loro imbrogli. Si salvi chi può insomma…

E se uno osa dire mezza parola. Trova pure i Tafazzi che difendono le Ferrovie.

Così vanno le cose.

Carlo Gambescia

giovedì 18 luglio 2024

Qualche giorno di relax...

                   



 

Si può trasformare un avviso per i lettori in articolo? Tenterò.

Sì, mi prendo qualche giorno di relax. Diciamo subito che il relax come concetto è borghese, come del resto spiega la derivazione linguistica anglofona. Relax da to relax, rilassare, rilassarsi. In questo caso come forma di distensione fisica e psichica, dopo un sforzo notevole.

Dicevamo borghese. Chi meglio di un britannico, in senso storico, può essere definito borghese? La patria della borghesia e delle libertà politiche ed economiche. Gran Bretagna, patria del liberalismo. Una terra che, suscitando l’invidia di Carl Schmitt, ha conquistato il mare. E attraverso il mare il mondo, dalle Americhe all’India. L’orbe terracqueo per parlare difficile. Trasformando costumi, economia, mentalità. Il borghese è la modernità. Francis Drake, persona reale, è il contrario di Don Chisciotte, personaggio letterario.

Oggi, piaccia o meno, siamo tutti borghesi. E non solo in Occidente. Perché, ecco il punto: mentre il comunismo è rimasto confinato in un solo paese (semplificando), il capitalismo borghese, partito dalla Gran Brategna, del libero scambio, delle navi e delle ferrovie, ha conquistato il mondo. E ne dobbiamo essere orgogliosi. Su la testa borghesi! Non esiste capitalismo in un solo paese. Il capitalismo o è mondiale o non è.

Oppure è altra cosa. Vecchio mercantilismo. Un fenomeno preborghese e precapitalistico. Ammesso e non concesso che esista un ipercapitalismo (definizione di tipo anticapitalista priva di qualsiasi fondamento teorico e storico), come fenomeno rinvia alla completa internazionalizzazione degli scambi. Il protezionismo è la morte del capitalismo. In questo senso il protezionista Trump è il necroforo del capitalismo.

Ma torniamo al relax. Chi scrive non si vergogna di essere borghese. Cioè innanzitutto un uomo libero, da chiese e partiti, che crede nella libera iniziativa, nella volontà individuale, e nel lavoro, nel mio caso intellettuale, che è il naturale prolungamento della volontà. Si dirà che il vero borghese, nel senso weberiano, non deve conoscere il relax. Il principio non è sbagliato, perché il lavoro è il riposo del borghese, il suo relax costruttivo.

Sotto questo aspetto il mediocre socialista conosce le ferie… il borghese liberale, talvolta a malincuore, il relax. Le ferie, modernamente intese (non i culti del romano antico), sono un diritto, il relax una scelta. Da un lato il petulante welfarista dall’altro il potente imprenditore di se stesso. Dietro le ferie c’è il gregge socialista, dietro il relax l’individuo liberale.

Perciò cari amici lettori ho “libera(l)mente” scelto di concedermi qualche giorno di relax.

A presto.

Carlo Gambescia

mercoledì 17 luglio 2024

Perché l'odio politico?

 


Perché politicamente oggi ci si odia? Perché si spara a un leader politico? Perché si leggono sui giornali e sui social titoli militarizzati? X sbaraglia Y… Z non fa prigionieri… Il sindacato Abc si batterà fino all’ultimo uomo.. E così via.

Innanzitutto diciamo che la violenza è sociologicamente ineliminabile. E l’odio è ciò che la sostiene e rafforza. Come ben sanno i polemologi (Sorokin, Bouthoul. Freund ad esempio), esisterà sempre una minoranza di violenti, ribelli, disadattati che rifiuta l’obbedienza ricorrendo alla violenza e alla "somministrazione" dell’odio. Il fenomeno è circolare, l”odio alimenta la violenza e viceversa. Talvolta le stesse élite del potere, parliamo dell' 1-2 per cento della popolazione, possono includere individui del genere.

In sintesi: dal momento che  parliamo di fenomeni collettivi va sottolineato che  si tratta di  comportamenti che sembrano  riguardare il 5 per cento della popolazione. Il dato base più eclatante è rappresentato dalle guerre civili, che di solito assorbono un 10 per cento della popolazione ( a fronte di un 90 per cento di soggetti passivi, inclusi i rinunciatari, diciamo  ragionanti, per principio, calcolo o altro, e non solo per conformismo sociale o paura). Il 10 per cento include  i violenti puri e la  parte motivata alla violenza per ragioni politiche.

Con le guerre il tasso dei soggetti coinvolti aumenta, può giungere al 20, 30 per cento: non si tratta di individui, motivati alla violenza, ma più semplicemente di soggetti in stato costrittivo, per i quali l’esercizio della violenza non è spontaneo, come per il 5-10 della popolazione, ma adattivo, cioè vincolato al comportamento che ci si aspetta da uomo in uniforme.

Pertanto che abbiano sparato a Trump, per venire a un esempio recente, è perfettamente normale per così dire. Per i motivati alla violenza l’omicidio politico è un normale mezzo di risoluzione dei problemi.

Si può incoraggiare o scoraggiare la violenza politica? Sotto questo aspetto il liberalismo può essere definito un gigantesco quanto nobile tentativo storico, prima inconsapevole poi consapevole, di sostituzione del voto al fucile. O se preferisce del contratto alla depredazione. 

Nonostante ciò nel Novecento si è verificata una esplosione di violenza. Si pensi alla violenza, addirittura teorizzata, verso i nemici di classe, di religione, di razza.

In parte è stata una risposta, quasi naturale, dei motivati alla violenza, di varia estrazione politica, al tentativo liberale di pacificare i rapporti umani, per l’altro dello sprezzante rifiuto di rientrare nei ranghi della modernità contrattuale.

Per rispondere alla domanda iniziale, oggi ci si odia perché si rifiuta la modernità pacificatrice e liberale. Stiamo nuovamente  assistendo alla saldatura politico-sociale, tra una minoranza attiva di violenti di tutti i colori ideologici, annidati nella politica, nei social, nei mass media, e una maggioranza passiva che sembra non rendersi conto di quel che sta accadendo e che purtroppo, per quel conformismo, tipico della società di massa, si adatta ai tempi.

Si va sviluppando una tendenza, sempre più diffusa all’accettazione dell’ uso della violenza come strumento politico. Si rischia di tornare per così dire alla guerra di tutti contro tutti. Infatti,  oltre al tradizionale campo della politica esterna, la violenza sembra prevalere anche in politica interna.

Si può fare qualcosa? Purtroppo non si tratta più di un fenomeno di disadattamento al 5 %, ma di una tendenza in crescita. Incoraggiata da una destra, ovunque in ascesa, che di liberale non ha nulla. In questo favorita anche da un sinistra che non ha mai cessato di essere antiliberale.

Insomma tutto congiura perché la violenza intorno a noi dilaghi. Del resto il predominio di leader  come Trump, Putin, Xi Jinping e molti altri indica che il futuro non sarà roseo. Anche perché quel che resta della democrazia liberale, volente o nolente, non potrà non rispondere ai violenti, come già accaduto, per garantire la propria sopravvivenza.

Carlo Gambescia

martedì 16 luglio 2024

1933

 


Nel 1933, novantuno anni fa, Hitler andò al potere in Germania. Aveva dinanzi a sé un’Europa smarrita. Che pensava ad altro. Forse alla precaria situazione economica. Molti osservatori vedevano addirittura in Hitler un fattore di pace.

Una pace che Hitler  in seguito non mancò mai di evocare dopo ogni colpo messo a segno. A cominciare dalla rimilitarizzazione della Renania, anno di grazia 1936, in piena violazione dei trattati di Versailles e Locarno. Sarebbero seguite, due anni dopo, l’ Austria, la Cecoslovacchia, e infine nel 1939 la Polonia.

Si resta attoniti davanti alla passività delle principali potenze liberal-democratiche dell’epoca: Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Ci si stava infilando nel tunnel di una guerra mondiale. Il nazionalismo vinceva su ogni fronte, sia in senso passivo (disinteresse per quel che di terribile accadeva nelle altre nazioni, come nel caso della Germania, a proposito delle persecuzioni degli ebrei), sia attivo, (come la conquista militare italiana dell’Etiopia, ultimo degli stati sovrani dell’Africa).

Oggi lo si chiama sovranismo. Forse per ragioni di coscienza, e chissà nascosti sensi di colpa. Ma si tratta dello stesso nazionalismo passivo che permise a Hitler di dispiegare il suo nazionalismo attivo.

I sovranisti sembrano essere insediati ovunque, o comunque di essere a un passo dalla conquista del potere. In Italia, nel 1933, era al potere Benito Mussolini, oggi l’Italia vive i fasti di Giorgia Meloni, erede di un partito, il Movimento Sociale, sorto dalle ceneri del fascismo, che nulla ha imparato nulla ha dimenticato. Negli Stati Uniti rischia di prendere il potere un leader altrettanto nazionalista, complottista, autoritario, divisivo e bugiardo quanto Hitler. L’Europa è altrettanto divisa, prigioniera di sovranisti-nazionalisti, per ora passivi, come in Austria, Ungheria, Francia, solo per fare qualche nome. Nella stessa Germania hanno rialzato la testa quelli dell’ “Hitler, tutto sommato”: incredibile ma vero.

Insomma, in ogni paese europeo il sovranismo-nazionalismo è all’attacco. E può vincere la partita del potere.

Per giunta, come appena detto, con la prospettiva, novantuno anni dopo, della vittoria di un sovranista, per ora passivo, negli Stati Uniti. Un’altra tessera di un volgarissimo mosaico sovranista che già vede sovranisti attivi ai confini d’Europa ( Russia) e in Estremo oriente (Cina). Come non essere preoccupati per il destino del mondo liberal-democratico?

Il nazionalismo, con la sua carica di odio tra i popoli, sta tornando in auge, addirittura a Washington. La nuova Berlino. Eppure la gente non sembra accorgersi della pericolosità della svolta, come nel 1933. Allora c’era la morsa della grande crisi. Oggi invece tutto sembra andare come sempre: certo, si mugugna, però si lavora, si va in vacanza, eccetera, eccetera. Il bambino povero del 1933 oggi è un bambino viziato.

La sinistra sembra sull’orlo dell’estinzione o dell’estremismo, che è addirittura peggio. La destra, quella che si autodefinisce conservatrice, ha sposato la causa del sovranismo. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Corsi e ricorsi. I conservatori ricordano l’atteggiamento dello stato maggiore tedesco che credeva di addomesticare Hitler.

Ma va segnalato anche un altro aspetto, curioso. Oggi si tende a tramutare tutto in gioco e psicoterapia. Trionfano l’infantilismo, l’irrisione dei comici (tutto è barzelletta), i giochi di ruolo, i romanzi distopici o utopici. C’è un contrasto tra la pesantezza della situazione storica e la cinica leggerezza con cui la si affronta. L’autoironia è importante, ma quando si trasforma in sistematica demolizione dell’ Io, fa più male che bene. I mass media tradizionali e i social sembrano ignorare il pericolo o addirittura credere ai sovranisti ricoperti di pelli di agnello. Perché morire per Kiev? Perché difendere i “nazisti” di Gerusalemme?

Dopo di che, come detto, si ride di tutto.

Che ci sarà mai da ridere? A trasformare il sovranismo da passivo in attivo basta un attimo. Come nel 1933 quando tutto iniziò.

Carlo Gambescia

lunedì 15 luglio 2024

Trump "ipercapitalista"?

 

 


Ieri, su Trump, ne abbiamo lette di tutti i colori. Pensiamo in particolare, per parlare del micro mondo dei nostri social, a un commento dell’amico Carlo Pompei. Bravo analista che però nega l’epiteto-qualifica di fascista a Trump. Perché, nota, “ipercapitalista”, eccetera, eccetera (*).

Non può essere altrettanto negato che nella polemica giornalistica e politica il termine fascista – dopo il 1945 – abbia assunto un significato molto ampio, forse troppo, soprattutto negli Stati Uniti, dove ogni forma di autoritarismo la si usa tuttora liquidare come fascismo.

Però il ragionamento dei nemici americani di Trump, non è del tutto sbagliato. E per una semplice ragione: il fascista nega la libertà, qualsiasi tipo di libertà. Di conseguenza Trump che ha una visione tradizionalista, quindi coercitiva delle libertà individuali, rientra di diritto, per così dire, nella casistica.

Inoltre sul piano politico-economico Trump è un isolazionista, quasi ai limiti dell’autarchia. Crede in un’ America autosufficiente, che non ha bisogno di commerciare con altri paesi. Lo slogan “Fare  di nuovo grande l’America”, significa ribadire che gli Stati Uniti non hanno bisogno di nessuno. Un principio contrario a ogni forma di libero scambio.

E qui va fatta una precisazione. Tra le due guerre mondiali, il capitalismo, nei paesi dove prevalse il fascismo, si adattò al nuovo sistema, venne a patti: commesse militari, sostegno finanziario di banche pubbliche, o semipubbliche, in cambio di zero scioperi e pace sociale. 

Diciamo un capitalismo, che invece di espandersi all’estero in cerca di profitti, si accontentava di rendite interne, garantite dallo stato.  Così ad esempio, in Germania e Italia. Era il modo capitalista di sposare la causa della tentazione fascista. Non di tutto il capitalismo, ma di quello più accomodante e meno liberal-democratico.

Lo si può definire capitalismo fascista? Sì. A queste specie sociologica di capitalista, ben evidenziata anche nel suo primo mandato, quando il magnate si scontrò con i libero-scambisti americani, appartiene Trump. Pertanto, se dovesse vincere le elezioni – semplificando – migliorerebbero, di poco, le condizioni dei lavoratori americani ma peggiorerebbero, e di molto, quelle dei lavoratori non americani.

Trump, per dire una banalità, è per il capitalismo in un solo paese. Separa lo sviluppo capitalistico dallo sviluppo del mercato mondiale, che vedrebbe ben volentieri invaso – ecco il suo nazionalismo economico o neomercantilismo – da merci americane, senza però riceverne in cambio di non americane. Insomma Trump  più che iper, ipocapitalista.

Non ci vuole il cervello di Vilfredo Pareto per scoprire che il capitalismo americano propugnato da Trump è la copia conforme di quello di Xi Jinping. Che a sua volta si è ispirato, intenzionalmente o meno, al sistema economico della Germania Nazista (controlli sul commercio estero, anche monetari, diffusi finanziamenti pubblici, costruzione statale di infrastrutture, zone di sviluppo e piani economici controllati dal centro)

Inoltre la visione della politica di Trump (il suo odio per le istituzioni liberali, per ogni forma di dibattito pubblico, l’appello alla violenza popolare, eccetera) è tanto autoritaria quanto quella di Xi Jinping. Inoltre, sebbene possa sembrare eccessivo quanto stiamo per dire, il partito repubblicano, dal punto di vista del controllo, anche formale, che Trump esercita su di esso, ricorda quello del partito comunista cinese.

Queste riflessioni, politiche ed economiche, valgono anche per un allineamento tra gli Stati Uniti auspicati da Trump e sistema politico-economico russo. Per contro l’Europa, al momento, sembra andare a rimorchio di americani, russi e cinesi. Il vaso di coccio tra vasi di ferro, soprattutto militarmente. Ma questa è un’ altra storia.

Ovviamente non pensiamo a un cinesizzazione politica degli Stati Uniti, però il mondo di Trump, come quello dei cinesi ( e dei russi), è un mondo di blocchi economici, pronto, con la pistola carica, a farsi la guerra. Trump ha una visione bellica dell’economia. Proprio come il fascismo (e, mai dimenticarlo, come il nazionalcomunismo, e il populismo militare). E questo lo rende molto pericoloso.

Naturalmente, per chiunque abbia una visione romantica del fascismo, Trump è un capitalista, un borghese, nemico del popolo.

Ma è proprio così? Ora, a parte che il fascismo romantico è comunitarista, quindi arcinemico di ogni forma di individualismo liberal-democratico, va anche detto che sul piano economico è autarchico. Proprio come Trump. Diciamo che al momento fascisti romantici e Trump si annusano. Sebbene, come provano le frequentazioni di Trump e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, le frange lunatiche non lo disdegnino. Per dirla alla buona, tutto fa brodo pur di abbattere l’odioso sistema liberale.

A quest’ uomo ieri hanno sparato ritenendolo un pericoloso fascista capace di attentare alle libertà americane. Diciamo pure che il metodo è sbagliato, però la pericolosità fascista del personaggio, non solo per le libertà americane, non può essere negata.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui le tesi di Carlo  Pompei: https://www.facebook.com/photo?fbid=3850818338538949&set=a.1388148961472578   .

domenica 14 luglio 2024

Attentati. Donald Trump e Huey Long

 


Sarebbe errato fare raffronti con  le uccisioni  di Abraham Lincoln, James A. Garfield, William McKinley e John Fitzgerald Kennedy. Trump innanzi tutto non è ancora in carica. Ed è ancora vivo.  Inoltre i presidenti uccisi non erano in odore di fascismo, anche per ragioni cronologiche.

Lincoln fu ucciso da un sudista, Garfield da un suo sostenitore non accontentato, Mckinley da un anarchico di origine polacca, Kennedy da un comunista americano formatosi a Mosca.

In realtà l’attentato a Trump, ricorda quello del 1935,che mise fine alla vita di Huey Pierce Jr. Long, governatore della Louisiana e aspirante Presidente degli Stati Uniti. Per opera di un medico, Carl Weiss, un borghese, privo di qualsiasi legame con associazioni terroistiche,  dalle idee democratiche, probabilmente ossessionato (ma si era negli anni Trenta) dall’ascesa di Hitler in Germania.   Sembra  fosse genero di un giudice, politicamente contrario e Long, e per questo non rieletto.

Long, anche a detta di Salvemini ( L’Italia vista dall’America, ed. Opere, Feltrinelli, p. 141), era il classico esponente del partito democratico del Sud:  razzista, populista, isolazionista, non scevro da simpatie fasciste. 

Un bruttissimo personaggio, adorato da folle peggiori di lui. Un pericolo dal punto di vista politico. Probabilmente Long venne ferito, morendo poche ore dopo (sembra anche per errori medici), dagli uomini della sua scorta: i “cosacchi”, armati di mitra a tamburo, come i mafiosi di Al Capone, che crivellarono di colpi l’attentatore, sembra circa sessanta. American pulp.

Ecco Trump è dello stesso stampo ideologico di Long. A novant’anni di distanza gli Stati Uniti si trovano a fronteggiare un personaggio della stessa pericolosità politica. All’epoca, anche se per ovvi motivi non riuscì a far progredire la sua candidatura, Long aveva davanti a sé il politicamente fortissimo Franklin Delano Roosevelt.  Probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Trump, già una volta presidente e con un indecoroso tentativo di golpe sulle spalle, potrebbe invece essere rieletto.

Probabilmente chi gli ha sparato, prontamente eliminato, porterà il suo segreto nella tomba. D'Altra parte è  ancora presto per dare giudizi definitivi.
 

Per Trump, già in vantaggio su Biden, l’attentato è un colpo di fortuna elettorale, sul quale costruire, come fu ai tempi di Long, teorie complottiste sui poteri della massoneria, degli ebrei, dei servizi segreti, di Zelensky, Biden, e così via fino al Papa.

Una manna insomma.  Anche per la Russia di Putin.

Carlo Gambescia

sabato 13 luglio 2024

Cattive notizie da Marte

 


Vorremo che i lettori conservassero memoria, per così dire, del nostro articolo di oggi. Per mesi, anni, non sappiamo dire. Per quale ragione? Perché parleremo di inevitabilità storica e di regolarità metapolitiche. In pratica parleremo di metapolitica applicata alla realtà che ci circonda.

Da Marte, nome bellicoso non scelto a caso, che cosa si potrebbe osservare?  Un "Marziano" che idea si farebbe della Terra?

Da una parte noterebbe la disunione politica europea e statunitense, interna e esterna diciamo. Dall’altra,  scorgerebbe invece la compatezza  russa e cinese, capace di  estendersi   anche ai rapporti tra le due potenze orientali.

Nei prossimi anni queste tendenze si accentueranno. Perché i conflitti esterni favoriscono le tendenze interne già in sviluppo. Dove prevalgono le forze centripete, come in Russia e in Cina, la compatezza si accentua, come pure le divisioni dove prevalgono le forze centrifughe, come in Europa e negli Stati Uniti. Ovviamente, le inversioni tendenza sono possibili ma rare, come prova la decadenza e caduta di unità politiche frammentate al loro interno. L’ìnerzia storico-sociologica è fortissima. Per dirla alla buona, "il tirare a campare"...

Il resto del mondo si agita, è diviso e non conta nulla. Se non quel rappresentare, in alcuni punti “geocritici”, motivo  di conflitti più gravi  tra le due potenze mondiali: da un lato l’Occidente, dall’ altro l’Oriente. Come ora in Ucraina ad esempio. 

Oriente e Occidente: parliamo di due mondi completamenti differenti sul piano dei valori e degli interessi. Non c’è alcun ponte. E di questo si deve prendere atto.

Dicevamo dell’inevitabilità storica. Cosa significa innanzi tutto inevitabilità storica? Che un certo evento storico, come la guerra, non si può evitare. Forse si può rinviare, per un certo periodo, ma prima o poi ci “piomberà sulla testa”.

Quanto ai determinismi sociologici e politici (potenziali ovviamente) si pensi al ruolo delle regolarità metapolitiche. In particolare alla regolarità amico-nemico (è il nemico che ti indica come tale, a prescindere dal tuo “buon” carattere), alla natura del ciclo politico (conquista, conservazione, perdita del potere) , alla persistenza di un potere mondiale che nessuno vuole dividere con nessuno.

Infine la pace, che tutti dichiarano di voler difendere, non è altro – dal punto di vista delle regolarità metapolitiche – che una razionalizzazione-giustificazione dei conflitti politici. Detto sinteticamente: la pace come risorsa politica per fare la guerra. E qui ci fermiamo per non confondere troppo le idee dei lettori.

Se la guerra è inevitabile, perché portato di determinismi metapolitici, quale dovrebbe essere l’atteggiamento dell’Occidente? Di prepararsi adeguatamente a combatterla. E invece da Marte, cosa si vede? Che l’Occidente non vuole prepararsi. Risulta diviso, e di conseguenza non può neppure provocare divisioni nel campo nemico. Quindi, per ora, da una parte regna la divisione dall’altra compatezza.

Certo, in Occidente, si è liberi di pensare, che qualche evento straordinario ( la morte di un leader, una calamità naturale, una seconda venuta di Cristo), scompaginerà le file nemiche. Ma, pur essendo giusto, come riteneva anche Machiavelli, contare sulla fortuna, si deve considerare che la fortuna (nonché la sfortuna) rappresenta solo una parte della faccenda, l’altra è regolata dai meccanismi metapolitici appena ricordati.

Perciò, come osserva il mio amico professor Molina, si deve puntare, nel nome dell’ “immaginazione del disastro” (cioè della precisa percezione-visione del nemico orientale mentre ci attacca con l’intenzione di distruggerci), sull’ idea di inevitabilità della guerra e sulla persistenza delle regolarità metapolitiche.

Quanto alla pace, è cosa risaputa, che il prepararsi alla guerra, può contribuire a prolungare la pace, diciamo a rinviarla, non per sempre ma per periodi anche lunghi.

Pertanto, riassumendo,  da Marte cosa si scorge? Che l’Occidente sta lavorando alla sua sconfitta. E che i prossimi secoli (ci teniamo larghi) potrebbero vedere l’orientalizzazione dell’Occidente. E non pacifica. Quindi cattive notizie da Marte.

Certo non è ancora detta l’ultima parola, però le linee di tendenza, metapolitica, sono quelle che abbiamo descritto. E vorremo che il lettore ne conservasse memoria.

Carlo Gambescia

venerdì 12 luglio 2024

Il declino "mitografico" dell'Occidente

 

 


Il mito politico ha una sua grande forza morale. Se poi esista un nesso tra mito, come percezione di un’immagine, pregna di energie, con conseguente passaggio all’azione diretta, resta cosa difficile da dire.

Però il mito indica soprattutto i valori condivisi e diffusi in un certo periodo storico. Valori in cui si crede. E collettivamente.

Si pensi alla pacchiana mitografia fascista e mussoliniana, mai del tutto scomparsa dai  muri delle città italiane. 

Oppure all’inquietante fascino delle croci uncinate. Stesso discorso si può fare per la lettera A (cerchiata) di anarchia. Oggi sono tornati di gran moda i murales, che risalgano alla stabilizzazione politica delle rivoluzioni messicane, laiciste e semisocialiste, degli anni Dieci del Novecento. 

Si parla anche di grafit art, di grafitismo, di arte di strada, dalla colorazione socialista e popolare. Ieri, con un cerimonia ufficiale, si è “scoperto”, come si sarebbe detto un tempo, un "mural" romano, dedicato a Michela Murgia: si vede la scrittrice di semiprofilo, sullo sfondo di una bandiera Lgbtqi+.

In questo panorama mitografico, che va dal sostegno della causa palestinese alle varie battaglie ecologiste e anticapitaliste, c’è un grande assente: il "mural" occidentalista. Detto altrimenti: il "mural" dalla parte dell’Occidente. Soprattutto in momento in cui Europa e Stati Uniti affiancano militarmente l’Ucraina di Zelensky contro l’aggressore russo. Sfido il lettore a individuare in tutto l’Occidente un "mural" pro Zelensky o che celebri la Nato. Ne esistono di contrari. Ma a favore nessuno o comunque in quantità rlevanti dal punto di vista della “battaglia” mitografica.

Sembra incredibile, ma l’Occidente, grande fabbricatore di miti musicali, cinematografici, letterari, eccetera, rifugge da una mitografia che qualifichi l’Occidente per quello che è: una grande forza di libertà in tutti i sensi, politici, economici, culturali. L’ultima grandissima mitografia pro Occidente risale alla Seconda guerra mondiale. Come mostra l’illustrazione di copertina. Perché?

Crediamo che la causa del declino mitografico dell’Occidente sia nel senso colpa abilmente coltivato dalla cultura conservatrice e progressista. Si dividono una specie di balconcino rigoglioso, pieno zeppo di fiori ma venefici.

Il conservatore, di regola, è un antiliberale. Non ha mai accettato i valori liberali. Al punto talvolta di sposare la causa della reazione fascista. Il progressista invece li ha sempre considerati superati, o comunque da superare. Di qui lo sviluppo a destra come a sinistra di un minimo comun denominatore antiliberale.

Il liberalismo è bollato come il nemico del dio patria e famiglia (valori condivisi dai conservatori e venerati dai reazionari), e delle libertà sociali se non socialiste (valori difesi dai progressisti e propugnate anche con le armi dai comunisti).

Di qui quel vergognarsi – ecco il senso di colpa – di alcuni secoli di grandi trasformazioni liberali (parlamenti e liberi mercati, innanzittuto), visti da conservatori e reazionari, come distruttori dei valori tradizionali, e dai progressisti come inutili conquiste formali, negatrici delle libertà sostanziali dei popoli, dei lavoratori, eccetera, eccetera.

Ma come trovare un legame diretto tra l’assenza di murales pro Zelensky e il senso di colpa coltivato da conservatori e progressisti, sotto lo sguardo premuroso di fascisti e comunisti?

Zelensky crede, e fermamente, in quelle trasformazione liberali, disprezzate invece da conservatori e progressisti. Polvere da nascondere sotto il tappeto. Motivo di vergogna. Il che ha tramutato Zelensky in una specie di nemico naturale – semplificando – dell’artista di strada, che a sua volta non è altro che un utile idiota che favorisce il Convitato di Pietra della crisi, non solo mitografica, dell’Occidente: il fascio-comunista (per dirla giornalisticamente).

Ovviamente, per ora, le strutture militari e in parte politiche dell’ Occidente resistono, ma senza l’appoggio di una specifica mitografia. Che, ad esempio, nella Seconda guerra mondiale, ebbe la sua importanza. Si combatte – Zelensky a parte – senza credere nei valori per cui si combatte. E la mitografia ne risente. Sotto questo aspetto il presidente ucraino è  l’ultimo portabandiera dell’Occidente. Che però non trova il suo "mural".

Duole il cuore dirlo, ma l’Occidente euro-americano ricorda, secondo versi attribuiti a vari poeti,   quel “ prode cavaliere che non s’era accorto, che andava combattendo, ed era morto”.

Detto altrimenti, l’Occidente, ferito a morte, continua a combattere. 

Fino a quando?

Carlo Gambescia

 

giovedì 11 luglio 2024

Abuso d’ufficio? No, abuso di pazienza (del cittadino)

 


Non abbiamo le competenze tecniche per fornire un giudizio giuridicamente compiuto sulla cancellazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 del c.p.), da non confondere però con l’altro di omissione di atti ufficio (art. 328, del c.p.).

Semplificando: il primo rimanda a una violazione della legge per un interesse personale in un certo atto da parte di un funzionario pubblico; il secondo rinvia invece al rifiuto di adempiere un atto dovuto per per un serie di ragioni di giustizia o sicurezza pubblica.

Per capirsi: nel primo caso un sindaco fa assumere chi non ha titoli, magari un suo parente, nel secondo un negozio di alimentari, che non ha i requisisti igienici e sanitari, non viene chiuso. Però anche questo secondo caso potrebbe essere in gioco un interesse personale. Diciamo che nell’abuso c’ è una condotta attiva, il sindaco si “dà da fare”, nel secondo passiva, “guarda altrove”.

Speriamo di essere stati chiari. Perché il punto è importante. Infatti l’abuso d’ufficio non è più reato, mentre l’omissione lo è ancora. Già questo dovrebbe far riflettere: i due reati, due configurazioni attive e passive di uno stesso comportamento illecito, dovevano o cadere insieme o non cadere. Ovviamente, per i cervelloni della destra era troppo. Il mal di testa li avrebbe sopraffatti.

Ci si è lanciati in una battaglia a metà, e qui pensiamo ai cervelloni della sinistra. Si pensi al rispetto o violazione di un regolamento edilizio comunale, dove sono in gioco interessi economici fortissimi. Si fa costruire in barba alla regole (abuso), si guarda dall’altra parte mentre si inizia a costruire (omissione). Che cambia?

Il punto è che spesso leggi e regolamenti, fitti di rinvii interni, sono confusi, sicché i margini di speculazione politica, nel denunciare un sindaco, spesso di idee diverse rispetto a quelle di coloro che denunciano, sono discrezionali: “azzeccarbugliati”, se ci si perdona l’espressione. Di qui, prima i titoli sui giornali, poi all’interno, infine le archiviazioni, che non sono poche, di cui i giornali neppure parlano. Un gran lavoro per i giudici, per i giornalisti, che però sfocia, quasi sempre nel nulla. O quasi.

Il lettore vuole un nostro parere personale? Da un punto di vista sociologico esistono troppe leggi e troppi regolamenti. Su questo si dovrebbe lavorare e intervenire: poche leggi, pochi regolamenti, ma chiari. Il margine di discrezionalità, quando non addirittura  previsto dalla stessa legge o regolamento, favorisce abusi e omissioni. Reati, che a nostro avviso hanno una loro ragion d’essere ma in un quadro normativo stringato.

La destra, cioè il ministro Nordio e il governo Meloni, sembra non capire che il male è nell’eccesso di produzione normativa. Una cosa che si chiama anche statalismo legislativo. Mentre la sinistra, va a rimorchio della destra, trascurando anch’essa questo aspetto fondamentale.

E così nulla cambierà. I furbi potranno continuare a fare i furbi. I paurosi, di apporre la propria firma sotto una misura, i paurosi. E i cittadini, soprattutto la parte più economicamente attiva, a subire. In realtà se abuso c’è, riguarda la pazienza del cittadino. Sì, abuso di pazienza.

Carlo Gambescia