C’è qualcosa di profondamente inquietante nella reazione scomposta con cui la destra italiana ha accolto la notizia del ricorso in Cassazione presentato dalla Procura di Palermo contro l’assoluzione dell’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, nel caso Open Arms.
Si parla di “irritualità”, “persecuzione giudiziaria”, “uso politico della giustizia”. E ancora: si evoca una magistratura “militante”, in opposizione al popolo. Ma a ben vedere, ciò che davvero viene messo sotto attacco, è il dettato dell’articolo 104 della Costituzione sull’ autonomia e indipendenza della magistratura, pilastro dello stato di diritto.
La Procura di Palermo ha esercitato un potere che le è proprio: impugnare una sentenza di primo grado, laddove ritiene che vi siano elementi per farlo. Anche direttamente, dinanzi alla Corte di Cassazione. E’ vero che l’articolo 443 del codice di procedura penale stabilisce in linea di massima che le sentenze di assoluzione non sono di norma appellabili dal pubblico ministero, però qui è in discussione una questione più complessa.
Ci spieghiamo meglio. Il 20 dicembre 2024, Matteo Salvini fu assolto dall’accusa di sequestro di persona aggravato, nel processo legato al caso Open Arms, riguardante il blocco dello sbarco di 147 migranti a bordo della nave dell’ONG spagnola, avvenuto nell’agosto 2019. La motivazione scritta della sentenza, depositata a giugno 2025, ha escluso un obbligo per l’Italia di assegnare un porto sicuro (Place of Safety, POS), portando all’assoluzione.
Invece la Procura di Palermo sostiene che, pur riconoscendo la ricostruzione dei fatti (il trattenimento dei migranti a bordo), il Tribunale ha interpretato erroneamente le leggi e le convenzioni internazionali, negando l’esistenza dell’obbligo di assegnare il porto sicuro. Di conseguenza la Procura ha ritenuto che l’assoluzione sia priva di un’adeguata motivazione in diritto, anche sotto il profilo costituzionale. Sicché ha deciso di presentare il ricorso direttamente alla Cassazione, saltando la Corte d’Appello, perché -ecco il punto fondamentale ignorato volutamente dalla destra – si considera che non abbia senso riaprire un giudizio di merito, essendo in gioco una questione giuridica e non fattuale. Insomma siamo oltre l’inappellabilità della sentenza di assoluzione prevista dell’articolo 443 del codice di procedura penale.
Certo chiunque ritenga in buona o cattiva fede, che la magistratura, debba limitarsi ad applicare la legge, non sarà d’accordo con la tesi qui sviluppata.
Va detto che la Procura cita anche una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (18 febbraio 2025) relativa al caso Diciotti, che aveva condannato lo Stato per analoghe violazioni, a consolidamento di orientamenti giuridici che ritengono doveroso il rilascio del porto sicuro.
Del resto in un paese liberale non si metterebbe in dubbio il diritto della magistratura a esercitare il proprio ruolo. Anche innovatitvo sulla base dei grandi principi umanitari del diritto. Del resto il quesito, per certi aspetti di non facile soluzione, è sempre lo stesso: quello della complicata conciliazione, tra diritto naturale e diritto positivo. Conciliazione che non può non chiamare in causa il ruolo del giudice. E quindi l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
Ma il nostro è un paese liberale? No. Visto che c’è una destra disposta a calpestare la magistratura e tollerare violazioni dei diritti umani pur di salvaguardare una selvaggia retorica sovranista e diciamolo pure razzista. Quindi nessuna sorpresa. Sorprende, invece, la timidezza con cui una parte dell’opinione pubblica – anche colta – assiste all’erosione di garanzie costituzionali sotto il ricatto del consenso elettorale.
Il caso Open Arms non è solo una disputa giudiziaria, per quanto di valore elevatissimo. È il punto di rottura tra due idee di Stato: una, liberale, fondata sulla divisione dei poteri e sul primato della persona umana, anche quando è migrante, povera, senza volto; l’altra, illiberale, che considera la legge come strumento della volontà politica, e i diritti come fastidiosi ostacoli alla “sovranità decisionale”.
Difendere la magistratura, oggi, non significa essere “di sinistra” ( appello che vale anche per chi sia destra ma in buona fede) o “contro Salvini”: significa essere dalla parte dello stato di diritto. Ripetiamo al di là della destra e della sinistra.
Difendere i migranti non significa essere “buonisti”, ma riconoscere che vi è un limite etico oltre cui il potere non può spingersi. E difendere la possibilità che un ricorso venga esaminato dalla Cassazione non significa volere la condanna di un leader politico: significa accettare che nessuno, nemmeno un ministro, sia al di sopra della legge. Sono principi sui quali si dovrebbe essere “tutti” d’accordo, a prescindere dall’ideologia politica di riferimento.
La vera anomalia non è qui, ma altrove: in certa cattiva politica che trasforma ogni istituzione in un’arena di scontro ideologico, che pretende dalla giustizia obbedienza alla propria parte, e che riduce il dolore di 147 vite a una semplice formula retorica, e per di più una retorica “dell’intransigenza”, fatta di rigidità e intolleranza.
In definitiva, il vero nodo non è Salvini né il caso Open Arms, ma la tenuta stessa del nostro sistema liberal-democratico. Quando la giustizia e diritti umani vengono sacrificati sull’altare del consenso, a perdere non è solo la legge, ma l’anima stessa dello stato di diritto.
Difendere la magistratura, i migranti, e il diritto a un ricorso è difendere ciò che resta della nostra della nostra tradizione liberale. E’ ciò che si chiama la buona battaglia.
Perché senza Stato di diritto, non c’è libertà. E senza libertà, non c’è futuro.
Carlo Gambescia

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